“È stata una gran voglia di ridere che ha ispirato Il Decameron... non sono io che ho scelto Il Decameron, è Il Decameron che ha scelto me.”
( Pasolini: c’est le Décameron qui m’a choisi,
“La Galérie”, 111,
dicembre 1971)
Decameron è un’opera che vuole essere completamente gioiosa, in maniera astratta (...). L’ottimismo del Boccaccio era un ottimismo storico. Cioè, nel momento in cui lui viveva, esplodeva quella meravigliosa e grandiosa novità, che era la rivoluzione borghese: cioè nasceva la borghesia. E, in quel momento, intorno al Boccaccio, la borghesia aveva la grandezza, che avrebbe raggiunto solo in certi momenti, e in certi stadi, e in certe, diciamo così, aree marginali della sua storia. [...] Quindi il Boccaccio ha vissuto in questi momenti di esplosione, di nascita, di inizio e di principio di una nuova era. E questo ottimismo suo, che è razionale e logico (perché la ragione è il segno della borghesia), fa sì che l’opera del Boccaccio sia una grande opera gioiosa.
(Pier Paolo Pasolini).
1971
IL DECAMERON
Soggetto Decameron di Giovanni Boccaccio
Sceneggiatura Pier Paolo Pasolini
Produttore Franco Rossellini
Casa di produzione PEA Produzione Europee Associate, Les Productions Artistes Associés, Artemis Film
Fotografia Tonino Delli Colli
Montaggio Nino Baragli, Tatiana Morigi
Musiche a cura dell'autore (Pasolini), con la collaborazione di Ennio Morricone; registrazioni sul campo dell'etnomusicologo statunitense Alan Lomax (non accreditato) in Campania e Calabria
Scenografia Dante Ferretti
Costumi Danilo Donati
Trucco Alessandro Jacoponi
Lingua originale napoletano, italiano
Anno 1971
Durata 110 min
Rapporto 1,85:1
Interpreti e personaggi
Ninetto Davoli: Andreuccio da Perugia
Franco Citti: Ciappelletto
Maria Gabriella Maione: madonna Fiordaliso, la Siciliana che adesca Andreuccio
Angela Luce: Peronella
Giuseppe Zigaina: frate confessore di Ser Ciappelletto
Pier Paolo Pasolini: allievo di Giotto
Giacomo Rizzo: padre superiore che accompagna l'allievo di Giotto
Elisabetta Genovese: Caterina (non accreditata)
Giorgio Iovine: Lizio da Valbona, il padre di Caterina
Lino Crispo: don Gianni
Silvana Mangano: la Madonna (non accreditata)
Guido Mannari
Doppiatori originali
Giuseppe Anatrelli: Lizio da Valbona, il padre di Caterina
Pino Ammendola: un ragazzo
Struttura del film
Racconto-cornice: Ser Ciappelletto
Andreuccio da Perugia
Masetto
Peronella
Ser Ciappelletto
Secondo tempo:
Racconto-cornice: Allievo di Giotto
Caterina di Valbona
Lisabetta da Messina
Gemmata
Tingoccio e Meuccio
Epilogo: Allievo di Giotto
PRIMA PROIEZIONE:
25 agosto 1971: Trento, Cinema Moderno; 18 settembre 1971: Roma, Cinema Embassy
STORIA:
Film girato fra il settembre e l’ottobre del 1970 nei teatri di posa Safa Palatino (oma). Esterni di Napoli, Casola Amalfi, Vesuvio, Ravello Meta di Srrno, Caserta; dintorni di Roma e Viterbo; Nepi, Abbazia di Fossanova, Latina; Bolzano e dintorni, Bressanone; Francia (Valle della Loira).
Caro Rossellini, portando a termine la lettura del Decameron e maturandolo, la mia prima idea del film si è modificata. Non si tratta più di scegliere tre, quattro o cinque novelle di ambiente napoletano, ossia di una riduzione di tutta l’opera a una parte «scelta da me»: si tratta piuttosto di scegliere il maggior numero possibile di racconti (in questa prima stesura sono 15) per dare quindi un’immagine completa e oggettiva del Decameron. Va previsto dunque un film di almeno tre ore.
Per ragioni pratiche – e per fedeltà alla prima idea ispiratrice – il gruppo più consistente di racconti restano i racconti napoletani, così che la Napoli popolare continua ad essere il tessuto connettivo del film; ma a questo gruppo centrale e ricco verranno ad aggiungersi altri racconti, ognuno dei quali rappresenta un momento di quello spirito interregionale e internazionale che caratterizza il Decameron.
Nel suo insieme il film verrà dunque ad essere una specie di affresco di tutto un mondo, tra il medioevo e l’epoca borghese: e, stilisticamente, rappresenterà un intero universo realistico.
Dal punto di vista della produzione, quindi, l’opera si presenta come più ambiziosa; perché, oltre che Napoli, ci sarà anche la «Cicilia», la «Barberia», Parigi, il mare; e quindi i castelli normanni dell’Italia meridionale, i castelli feudali della Loira, il deserto con le casbah, i «legni»: le navi che solcavano il Mediterraneo, dall’Egitto alla Spagna.
Il film, che durerà, ripeto, almeno tre ore, si dividerà anziché in due tempi, in tre, ognuno dei quali costituirà una specie di unità tematica, legata da una vicenda che sostituisca il meccanismo narrativo adottato dal Boccaccio, e rappresenti il mio libero intervento di autore»
(cfr. P.P.Pasolini, Il mio cinema,
Ed.Cineteca di Bologna,
Bologna 2015, p. 171).
Per intervistare Pasolini in voce ce n' è valuta e l'avevamo capito data che non erano state indette conferenze stampa e che le riprese hanno avuto inizio per cosi dire clandestinamente [...]
<< Infatti mi terrorizzava rilasciare interviste fare conferenze stampa unicamente perchè su questo film non ho niente da dire. Il Decamerone è un' idea che ho avuto all'ultimo momento ed è diventata cosi ingombrante da scavalcare il San Paolo che avevo in progetto. Di progetti poi cene sono molti altri, troppi, Ad ogni modo il San Paolo verrà dopo questo ma non so se il Decamerone segnerà in me una tappa importante per quanto riguarda il gusto di fare cinema - parlo di gusto inteso nel suo duplice significato << stile e piacere >> insieme. Ho scelto le novelle del Boccaccio che mi piacevano di più ma in seguito ne ho dovute eliminare alcune poichè il film sarebbe diventato eccessivamente lungo. Cosi com'è sarà probabilmente già un film più lungo del normale. Il Boccaccio nessuno lo conosce come nessuno conosce il Vangelo e, in fondo, quest' opera sarà molto simile, anche se in un'altra chiave al Vangelo secondo San Matteo. Non voglio dire che cosa deve essere puntualizzato e ciò che va chiarito nel Decamerone, voglio soltanto che appaia evidente il piacere che ho messo nel farlo. Le intenzioni non servono a niente nel cinema d'autore, in quello commerciale forse non lo so, ma l'importante è invece tirar fuori le verità interiori. Il film è un test cui non si sfugge e il suo significato positivo o negativo è i(?)mediabile. Le intenzioni del mio film sono molto modeste, cerco di restituire, per il piacere di farlo, ai personaggi ai luoghi e alle novelle stesse la loro lealtà ed i loro significati. Faccio il Boccaccio che mi piace con attori improvvisati, alcuni goffi e impacciati e altri invece, bravissimi. Tra di loro ci sono Ninetto Davoli e Franco Citti, l'uno nella parte di Andreuccio da Perugia e l'altro in quella di Ciappelletto. Anche loro, d'altronde, non li considero affatto « attori ». I dialoghi saranno in dialetto napoletano e sto anche scegliendo come sottofondo vecchie autentiche musiche napoletane >>
Il Decamerone si divide in due parti una fa capo alla novella di Ciappelletto e l'altra a quella del Grottesco. Sarà girato in esterni a Napoli, Bolzano e nello Yemen (per una delle novelle di ambiente arabo)
<< Ho terminato — conclude Pasolini — Lo sciopero degli spazzini che fa parte del film di un gruppo di autori della ANAC contro la repressione mentre ne sto preparando un altro in collaborazione con i ragazzi di Potere Operaio, che sarà un << comizio cinematografico >> senz'altro più violento del film sugli spazzini - ho intenzione di affrontare i fatti di Milano toccando anche l'argomento Pinelli >>
(Trascrizione da cartaceo (faticosa) curata da Bruno Eposito)
David Grieco
L'Unità
mercoledi 23 settembre 1970
pag. 9
Io e Boccaccio
Delle cento novelle scritte da Boccaccio, undici stanno per essere trascritte sullo schermo: a compiere quest'opera di copista è Pier Paolo Pasolini. Ma sarà davvero, il suo, un lavoro di copista, di docile illustratore d'un testo ormai «sacro»? Come ha reagito un intellettuale come tue; ricco di umori imprevedibili; all'incontro col mondo boccaccesco? Il Decameron di Pasolini sarà una favola estetizzante, un gioco ermetico, o una colorita ricostruzione storica? Nelle pagine che seguono il regista spiega come ha visto e ha tentato di reinventare il massimo capolavoro della prosa italiana.
Pasolini; il Decameron è un film autobiografico?
Come sai bene, tutte le opere sono autobiografiche, anche quelle in cui non si possono decifrare elementi autobiografici espliciti. Chissà perché questa banale verità diventa, agli occhi di chi si interessa alle mie opere, così macroscopica. Segno di razzismo? Ebbene sì, lo credo.
Anche il Decameron, che doveva essere la meno autobiografica delle mie opere, ha finito col diventare autobiografica in modo quasi aggressivo (se lo stile non fosse decisamente «comico»). Ecco come. Tra le undici novelle rappresentate nel mio film c'è la novelletta su Giotto: dovevo quindi scegliere l'interprete di Giotto. Dopo molte angosce la mia scelta era caduta su Penna, Sandra Penna, il nostro più grande poeta vivente. Come sai, Penna è un po' matto, e i suoi rapporti con la vita pratica sono i più liberi che io conosca {egli è schiavo solo delle sue abitudini così libere). Bene, dopo infiniti ostacoli posti a se stesso, a me, a tutto, Sandro si era deciso ad accettare; e io ero felice, perché nel frattempo avevo dato realtà a Giotto adattandomi alla sua realtà: è una colpevole mistificazione {ma spiegherò poi come la si possa giustificare): e tutta la novelletta di Giotto, con la lunga appendice da me inventata, che doveva fare da tessuto connettivo alla seconda parte del film, aveva, attraverso Penna, assunto un'aria follemente mitica, extravagante quanto vuoi, ma in un certo modo assoluta.
Ero a Caserta Vecchia, nel pieno del lavoro, che sembra sempre impossibile, quando, dopo una serie di esasperanti telefonate (che del resto non hanno fatto altro che aumentare il mio amore di innamorato infelice per lui), Penna ha fatto il gran rifiuto.
Mancavano tre giorni alla data fissata dall'implacabile «piano di lavorazione» per girare l'episodio giottesco. Che fare? Ho pensato a Volponi, cui avevo già pensato anche prima che a Penna, gli telefono, mi dice quasi di sì, mi consolo: anche con Volponi, Giotto avrebbe mantenuto, rispetto all'autore, la stessa distanza degli altri personaggi, sarebbe rientrato nel «tutto oggettivo», di un'opera sospesa nel cielo come un solenne e comico pallone. All'ultimo giorno anche Volponi mi dice di no.
Ah, vicissitudini di un povero regista!
Già da qualche giorno Sergio Citti, che privo di orgoglio piccolo-borghese, da regista di Ostia era di nuovo retroceduto al rango di assistente, faceva il mio nome: e io, in cuor mio, sapevo che non c'era altra scelta, pur continuando a lottare accanitamente:
2. e soprattutto, contro il nuovo senso che avrebbe preso la mia opera, attraverso il mio fisico ingresso dentro di essa.
Il bel pallone, là, sospeso nel cielo del mito, avrebbe dovuto essere ritrascinato giù a terra, smascherato, visto dal di dentro.
Ho preso la decisione in cinque minuti. << Dove sono i vestiti di Giotto? >> ho chiesto all'aiuto-costumista, alla sarta; mi sono stati portati; sono andato dietro le macerie di una casa diroccata di Caserta Vecchia dove stavo girando il «mercato dei cavalli», e, come una comparsa, sull'erba, mi sono tolto calzoni, maglietta, canottiera, catenella, e ho indossato il costume. Mi sono ripresentato davanti alla macchina da presa così conciato, e mi pareva di sprofondare nelle viscere della terra: la troupe mi guardava nascondendo dietro la filosofica apatia romana il suo divertito stupore. Fatta l'inquadratura, mi sono gettato a capofitto nel mondo profilmico. Cosa significa la mia presenza nel Decameron? Significa aver ideologizzato l'opera attraverso la coscienza di essa: coscienza non puramente estetica, ma, attraverso il veicolo della fisicità, cioè di tutto il mio modo di esserci, totale. Non ti dico le parole pronunciate da me, con cui finisce il film, perché voglio che siano una piccola sorpresa: ma in esse l'opera si ironizza, e diviene un'esperienza particolare, non mitizzata. La << colpevole mistificazione >> di cui ti
parlavo si rivela come «gioco».
In realtà con questo film non solo ho giocato; ma ho capito che il cinema è gioco, cosa semplicissima, che mi ci sono voluti dieci film per capire.
Ma, con Giotto, com'è finita? Chi ha vinto?
Giotto non è più Giotto, ma ironicamente, come annuncia Forese (divenuto un avvocataccio napoletano), un << allievo alto-italiano di Giotto >>, che va a Napoli a dipingere in Santa Chiara degli affreschi realistici (esattamente, dunque, come io sono andato a Napoli a fare il film. Il giorno, uno degli ultimi di agosto, in cui sono andato in macchina solo, a Napoli, per iniziare il lavoro, me ne rendo conto adesso, è stato uno dei più belli e allegri della mia vita).
Una volta ti ho sentito dire che un artista ha una sola occasione nella sua vita: il suo stile. Qual è l'occasione, lo stile di Boccaccio? E perché è diverso dal tuo?
Veramente ho detto che un poeta ha un'«epoca sola nella vita» (un poeta, cioè il suo stile): io so bene che l'epoca del mio stile sono stati gli anni Cinquanta, e me ne vanto. Può darsi però che abbia detto quella frase in un momento di scoraggiamento. C'è una novità infatti: la scoperta del gioco.
La disobbedienza dei giovani, va bene. Ma la disobbedienza degli anziani? La prima è sostanzialmente basata sull'obbedienza (obbedienza mettiamo alla Rivoluzione anziché ai padri borghesi); la seconda è sostanzialmente basata sul «gioco». La società ne ha meno paura, perché la società teme più gli << obbedienti >>, che sono la maggioranza, che i disobbedienti, anche se giocano, perché sono pochi. Ha collusioni con gli operai perché sono un numero immenso e sono a loro modo obbedienti, ma non ha collusioni con le minoranze (quelle che Hitler eliminava nei Lager).
Nel Decameron io ho girato come so e come voglio girare: più che mai nel mio stile. Ma mentre in Porcile e Medea il mio gioco era atroce, ora esso è lieto, stranamente lieto. Un'opera lieta (fatta con tanta serietà, naturalmente) mi sembra contraddire ad ogni aspettativa, è una disobbedienza Completa. (Ma può darsi che lui stia mentendo.)
Dapprincipio si è trattato di umorismo e ciò mi faceva rabbia. Io dotato di umorismo? Come si concilia l'umorismo con l'ingenuità che per me era la sola qualità possibile, anche a rischio del ridicolo? La vita, ahi, l'aveva dunque avuta vinta su di me? Gli umoristi sono in genere dei reazionari, eccetera eccetera. Con l'umorismo c'era il distacco dalla <<materia». Ma col Decameron (almeno nel girarlo) non si tratta più di umorismo e di distacco dalla materia: si tratta proprio di gioco, ti ripeto.
Si vede che la perdita di fede (che è sempre stupida) mi ha dato inizialnente un trauma; ma poi, con la perdita totale della fede (nella storia, s'intende) ho ritrovato una gaiezza, sì, una gaiezza che non ho mai avuto e quindi non ho mai perduto. Da giovane la mia disobbedienza era, secondo la parola che si ripete ancor oggi fondamentalmente, ubbidienza: e quindi ero infelice, perché non ero uno di quei giovani nati per ubbidire, benedetti dalla vita (e lo dico senza ironia, anzi, con una superstite invidia che non mi dà più dolore, ma semplicemente mi commuove).
«lo sono una forza del passato» ho detto nella Ricotta, facendo leggere a Orson Welles dei miei versi (li copiava Bassani). Lo sono diventato sempre più. Ho scritto
in questi mesi una poesia intitolata Ode a Carlo Martello (tu sai che i manuali dicono che se Carlo Martello non avesse fermato gli arabi a Poitiers la storia sarebbe stata diversa da quella ch'è stata: ero a Poitiers per i sopralluoghi del Decameron). Ebbene in questa poesia dichiaro che non me ne importa nulla che la storia sia stata quella ch'è stata: ma tale dichiarazione non è fatta da sinistra, bensì (giocando) da destra. Avrei voluto cioè che avessero vinto gli arabi, perché un'arabizzazione dell'Europa sarebbe stata infinitamente più conservatrice e «feudale». Spero che una poetica follia giustifichi questo mio conservatorismo, che mi ha spinto a piangere di vere lacrime, vedendo i villaggi delle Madonie (sempre sopralluoghi per il Decameron) sacrilegamente intonacati coi soldi spediti dai giovani emigrati in Germania; e vedendo la distruzione delle mura di Sana'a nello Yemen (cosa che mi ha dato occasione di scrivere, sempre giocando, altri versi reazionari, in favore della monarchia yemenita, che certamente avrebbe lasciato tutto come stava, Sana'a con le sue stupende mura e il suo popolo antico: la modernizzazione è giunta dall'alto, il socialismo è giunto dall'alto, tutto è più repressivo che la monarchia, paradossalmente, perché la distanza che separava un povero yemenita dal suo re, coabitante e correligioso, era
infinitamente meno grande da quella che lo separa dai tecnici russi, cinesi e americani).
Il mio transfert con la tradizione è positivo e negativo, naturalmente, perché non ho mica perso la testa: il fascismo protegge a parole il Passato, oppone qualche barriera spiritualistica alla follia distruttrice del cinismo neocapitalistico e di quello revisionistico; comunque i villaggi delle Madonie e Sana'a sarebbero stati salvi un poco più a lungo in regime fascista: peccato davvero non poterlo sopportare!
Come vedi, gioco. Ma giocando mi distinguo da una realtà che non mi piace più: nel Decameron gioco una realtà che mi piace ancora ma che nella storia non c'è più. Ho scelto Napoli per il Decameron perché Napoli è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano, e, così, di lasciarsi morire: come certe tribù dell'Africa, i Beja, per esempio, nel Sudan, che non vogliono avere rapporti con la nuova storia, e si lasciano estinguere, relegati nei loro villaggi, fedeli a se stessi, autoescludendosi. I napoletani non possono fare proprio questo, ma quasi.
Hai scelto Napoli anche per altri motivi? Cioè per polemica contro il centralismo della lingua toscana usata da Boccaccio? Il tuo è un film dialettale?
Nessuna polemica con Firenze: ormai Firenze, come centro linguistico-guida è finita. I centri linguistici-guida dell'Italia sono le aziende di Milano e di Torino, checché ne dicano i linguisti, come Segre, essi sì rimasti agli anni Cinquanta, all'idea dell'egemonia linguistica popolare, attraverso un'ascesa della lingua dal basso! Ho scelto Napoli non in polemica contro Firenze, ma contra tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva: niente Babele linguistica, dunque, ma puro parlare napoletano. Non si tratta tuttavia di film dialettale. Il napoletano è la sola lingua italiana, parlata, a livello internazionale.
Per spiegarmi devo risalire un poco indietro, ai tempi in cui si scrivevano saggi negli studi anziché nelle barricate. In un linguaggio tecnico, che giustamente il nostro lettore suppongo disdegni, io dicevo in quei saggi che la << lingua del cinema >> ha lo stesso codice che la «lingua della realtà». lo dunque come cifratore cinematografico, per esprimere nel cinema te, adopero te come << segno di te stesso >>: come appari e come parli. Il decifratore cinematografico (lo spettatore) ti decifrerà sullo schermo (i tuoi occhi miopi, il tuo nasone da Azzeccagarbugli, il tuo pallore masochistico, da una parte; la tua voce scontenta
e il tuo modo di esprimerti dall'altra) esattamente come ti decifra nella realtà. Basta. Pensa un po' dunque come ti seccherebbe se io in un mio romanzo, ti << adoperassi >> per farne un personaggio, violando il tuo diritto al mistero, a non essere capito! E non si tratterebbe che di una pallida fruizione di te, attraverso il sistema, peraltro magico, dei segni linguistici scritto-parlati. Figurarsi un uso di te attraverso il cinema, che ti prende e ti smercia tutto, nella tua fisicità, che è ciò che più ti appartiene, se è nel corpo che noi viviamo la vita e la storia.
Ebbene io (come tutti i registi) per una decina d'anni ho cosi violentato la gente, << adoperandola >>: e ho tacitato la mia coscienza con la scusa dell'arte (o del cinema d'autore). Ma guai invocare l'arte, tu lo sai! È il peggiore dei delitti spiritualistici!
Solo col Decameron ho fatto tutto questo come un «gioco». Ho fatto «giocare» gli attori: come dicono i francesi, sistemando definitivamente la cosa. Dire a Sandro Penna: «Vieni qui, divertiamoci, infilati questo buffo costume disegnato da Danilo Donati, presta il mistero non effabile della tua presenza fisica a un mitico Giotto rievocato per gioco, fallo rivivere nel tuo corpo, vedrai come ci divertiremo, dietro le quinte!». Oppure dire al bibitaro di Mergellina: <.<.Ueeh, guagliò, vieni qui, indossa questi bei panni di feltro e d'oro, recita, presta il tuo usignolo, così vivo, a un certo Riccardo, morto da tanti secoli, facciamo insieme questo bel gioco». Non è chi non veda come il cinema, inteso così, venga a rassomigliare in modo straordinario a quel rito sublime che è stato nei secoli passati il teatro. Non ho preteso nel Decameron di esprimere la realtà con la realtà, gli uomini con gli uomini, le cose con le cose, per farne un'opera d'arte, ma semplicemente per «giocare», appunto, con la realtà che scherza con se stessa. Malgrado la violenza non effabile della realtà che passa a palate sullo schermo, il Decameron si presenta, credo per la prima volta nella mia carriera, come un film recitato: almeno così mi sembra dal materiale che sto montando.
Sì. Strano a dirsi «giocare» al cinema vuol dire essere professionisti e ... fare del realismo. Tutto ciò che ho ricostruito nel Decameron, costumi e ambienti, l'ho voluto
ricostruire il più realisticamente possibile (ho rinunciato al «fantastico» dell'Edipo, per esempio, o di Medea). L'elemento innaturale è nel << gioco >> nell'accezione
francese del termine, non nella ricostruzione dell'ambiente in cui si gioca. Lo stile è << comico >> e quindi il mondo è << quotidiano >>.
E a questo tuo disegno come hanno corrisposto gli attori?
In seguito a tutto ciò, si è stabilita una complicità amichevole, per la prima volta, tra me e gli attori (altre volte è successo che sono diventato amico, e molto amico, degli attori, ma al di fuori del lavoro). Io e gli attori (una quarantina di protagonisti, quasi tutti presi dalla strada, e assolutamente privi di ogni ambizione: mi ha fatto sorridere un giornalista che ha << attenuato >> la cosa chiamandoli << esordienti >>) abbiamo fatto amicizia sul set come compagni di viaggio in un vagone di seconda, dopo aver bevuto insieme un bicchiere di vino. Avevo, si vede, la coscienza pulita nei loro riguardi: non li adoperavo per un'opera (d'arte!) estranea a loro, per poi buttarli a mare: ma giocavo con loro, e giocando ci siamo divertiti, e divertendoci ogni estraneità è sparita. Se dovessimo rincontrarci, per le strade di Napoli, d rincontreremmo come vecchi amici.
«L'Espresso», 22 novembre 1970.
Intervista rilasciata a Dario Bellezza
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