La ricotta 1963
- Illibatezza di Rossellini.
- Il nuovo mondo di Godard.
- Il pollo ruspante di Gregoretti .
Scritto e diretto da Pier Paolo Pasolini
Fotografia Tonino Delli Colli;
architetto Flavio Mogherini;
costumi Danilo Donati;
commento e coordinamento musicale Carlo Rustichelli;
montaggio Nino Baragli;
aiuto alla regia Sergio Citti, Carlo di Carlo.
Interpreti e personaggi
Orson Welles (il Regista, doppiato da Giorgio Bassani);
Mario Cipriani (Stracci);
Laura Betti (la "diva");
Edmonda Aldini (un'altra "diva");
Vittorio La Paglia (il giornalista);
Maria Berardini (la stripteaseuse);
Rossana Di Rocco (la figlia di Stracci).
E inoltre:
Tomas Milian,
Ettore Garofolo,
Lamberto Maggiorani,
Alan Midgette,
Giovanni Orgitano,
Franca Pasut.
Hanno partecipato anche:
Giuseppe Berlingeri,
Andrea Barbato,
Giuliana Calandra,
Adele Cambria,
Romano Costa,
Elsa de' Giorgi,
Carlotta Del Pezzo,
Gaio Fratini,
John Francis Lane,
Robertino Ortensi,
Letizia Paolozzi,
Enzo Siciliano.
Produzione Arco Film (Roma) / Cineriz (Roma) / Lyre Film (Parigi);
produttore Alfredo Bini;
pellicola Ferrania P 30, Kodak Eastman Color; formato: 35 mm, b/n e colore;
macchine da ripresa Arriflex;
sviluppo e stampa Istituto Nazionale Luce;
doppiaggio CID-CDC;
sincronizzazione Titanus;
distribuzione Cineriz;
durata 35 minuti.
Riprese ottobre-novembre 1962;
teatri di posa Cinecittà;
esterni periferia di Roma;
premi Grolla d'oro per la regia, Saint Vincent, 4 luglio 1964.
Le vicende narrate nel film
arriva il produttore seguito dal drappello della stampa specialistica: il gruppo assisterà alle riprese della scena della crocefissione della morte di Cristo, nella quale Stracci ha addirittura una battuta: "Quando sarai nel regno dei cieli, ricordati di me". Al grido di "azione!" del regista, però, la scena non parte: Stracci, infatti, è morto di indigestione sulla croce. Il regista, senza ombra di commozione, commenta: "Povero Stracci. Crepare... non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo...".
da S. Murri, Pier Paolo Pasolini,
Il Castoro-l'Unità 1995
*****
«La ricotta»
Pasolini su Pasolini
Conversazioni con Jon Halliday
P. – Sì, scrissi la sceneggiatura della Ricotta mentre stavo ancora girando Mamma Roma, ma pensavo già di fare Il Vangelo prima di incominciare le riprese della Ricotta, e quando effettivamente girai quest’ultima avevo già scritto il treatment del Vangelo, e delineato le idee creative in generale.
H. – Mi dica: Ro.Go.Pa.G. fu concepito come opera unitaria? C’era qualche accordo circa quello che avrebbero fatto lei e Godard e Rossellini, o tutti e tre faceste quello che volevate, ciascuno per proprio conto?
P. – Sfortunatamente, Bini organizzò il film a modo suo. Già prima avevo avuto l’idea di fare La ricotta, e l’avevo proposta a un altro produttore, che morì. Ma i suoi l’avevano tirata per le lunghe perché avevano paura; pensavano che fosse troppo violento. In ogni modo, non ero riuscito a far decollare il film e così mi trovai ad avere quella sceneggiatura pronta quando Bini mi chiese se volevo farne un film per lui. Però aveva già deciso di fare un film a episodi. Non ebbi alcun contatto né con Rossellini né con gli altri; seppi solo che anche loro stavano preparando degli episodi.
H. – Orson Welles è un altro attore professionista che ha usato, in questa occasione. Come andò? Chi l’ha doppiato, visto fra l’altro che doveva leggere una sua poesia?
P. – Be’, come le ho già detto, io scelgo gli attori per quello che sono realmente; scelsi Welles per quello che è: un regista, un intellettuale, un uomo che aveva qualcosa del personaggio che viene fuori nella Ricotta; anche se, naturalmente, è una persona molto più complessa di tutto questo. A doppiarlo fu Giorgio Bassani.
H. – Se sceglie gli attori per quello che sono, deve allora esservi una continuità nei personaggi da un film all’altro: per esempio, l’uomo che fa il giornalista nella Ricotta è la stessa persona che è raggirata e irrisa in Mamma Roma. È questa la sua funzione, di essere gabbato anche nella Ricotta?
H. – A quanto sembra, lei pensa che il conformismo sia un carattere essenziale dell’uomo medio: è una delle parole che usa in Comizi d’amore, quando parla agli studenti dell’Università di Bologna e cerca di indurli a dare una definizione del conformismo. Lei che cosa pensa che sia, e fa parte dell’essenza dell’uomo moderno non rendersi conto di ciò che egli stesso è?
P. – Si potrebbe dire che è la decadenza dell’integrazione nella società. L’uomo medio è fiero di essere quello che è e vuole che tutti gli altri siano uguali a lui. È riduttivo; non crede nella passione e nella sincerità, non crede in quelli che si svelano, che si confessano, perché non ci si aspettano queste cose dall’uomo medio. Ma l’altra sua caratteristica, uguale e di segno opposto, è che questa sua coscienza non è coscienza di classe; è moralismo, non coscienza politica.
H. – Quella è stata la prima volta che ha usato il colore e lo zoom: ha incontrato difficoltà?
P. – No, usare lo zoom è la cosa più facile del mondo. L’ho scoperto per caso. Ho visto che servendosene si potevano ottenere determinati effetti, e me ne sono servito. Poi, invece di fare un primo piano con un certo tipo di lente, l’ho fatto da una certa distanza con un 250 ricavando effetti pittorici che mi piacciono, che danno un’immagine masaccesca. Non ho avuto difficoltà con il colore perché la sola cosa difficile è la scelta dei colori: nella vita reale ce ne sono troppi. Per questo ho scelto il Marocco per girare Edipo, perché lì ci sono soltanto pochi colori dominanti: ocra, rosa, marrone, verde, l’azzurro del cielo; solo cinque o sei colori che la macchina deve registrare. Per fare un film a colori veramente buono bisognerebbe dedicare un anno, un anno e mezzo a scegliere i colori giusti per ciascuna immagine, quelli di cui si ha veramente bisogno e non i venti o trenta colori che si trovano sempre nel cinema. Dunque La ricotta è stato facile: mi sono limitato a riprodurre esattamente i colori usati dal Pontormo e da Rosso Fiorentino.
H. – Ebbe un sacco di fastidi per quel film, non è vero? Come mai fu condannato alla prigione?
P. – Fui condannato a quattro mesi con la condizionale in base a una legge fascista che è ancora in vigore perché fra i magistrati di qui non è mai stata fatta una epurazione. Sono molti i magistrati condannati da tribunali antifascisti che ancora «siedono a scranna». Nel codice fascista sono contemplati molti reati di vilipendio, compresi quello alla nazione, alla bandiera, alla religione. Il processo fu una specie di farsa, e la sentenza fu ribaltata in appello. Non saprei ancora dire esattamente perché e di che fui imputato, ma per me si trattò di un periodo tremendo. Fui diffamato pubblicamente per settimane e settimane, e poi per due o tre anni dovetti subire una specie di persecuzione inimmaginabile. Non posso, tuttavia, dire veramente perché tutto questo sia avvenuto, se non come espressione dell’opinione pubblica, che io giudico essere, cosa curiosa, profondamente razzista. Si dice che gli italiani non siano razzisti, ma io credo che sia una grossa bugia. La borghesia italiana finora non è stata razzista solo perché non ne ha avuto occasione. In Libia e in Eritrea gli italiani generalmente non erano razzisti perché erano dei sottoproletari calabresi e siciliani. La piccola borghesia non ha avuto modo di dimostrarsi razzista, ma lo è. L’ho capito dal suo atteggiamento nei confronti dei miei film. L’opinione pubblica mi si è voltata contro per qualche indefinibile odio razzista, un odio che, come tutto il razzismo, è irrazionale. Non ha potuto accettare Accattone e i suoi personaggi sottoproletari. È stato il razzismo a dare all’opinione pubblica quella spinta che ha reso possibile il processo.
H. – Il film fu vietato definitivamente in Italia?
P. – No, fu proibito per qualche tempo dopo il processo e sequestrato, ma riuscii a farlo uscire con qualche taglio di minor conto, come una scena di un tale che gridava: «Via le croci» (quando il regista voleva girare un’altra scena); la battuta era stata giudicata anticattolica. Ma La ricotta non ha comunque avuto successo perché, come sa, se un film non esce al momento giusto è un fiasco assicurato.
Angela Molteni - aprile 1997
TRAMA
“Non è difficile predire a questo mio racconto una critica dettata dalla pura malafede. Coloro che si sentiranno colpiti infatti cercheranno di far credere che l’oggetto della mia polemica sono la storia e quei testi di cui essi ipocritamente si ritengono i difensori. Niente affatto: a scanso di equivoci di ogni genere, voglio dichiarare che la storia della Passione è la più grande che io conosca, e che i testi che la raccontano sono i più sublimi che siano mai stati scritti”, è una premessa che Pasolini stesso fa al suo film La ricotta.Un altro film fuori dagli schemi di una rappresentazione tradizionale e di una iconografia asservita. Un altro lavoro, dopo Accattone e Mamma Roma, nel quale il fine primo dell’autore è quello di trasmettere messaggi politico-sociali; nel quale non sono da sottovalutare tuttavia alcuni elementi che cercherò qui di seguito di mettere in luce.
Vi sono alcuni segni “forti” della grande ricchezza culturale di Pier Paolo Pasolini:
– le citazioni figurative (l’accostamento alla pala d’altare del Pontormo);
– i richiami che ha inserito nel film (alcune sequenze accelerate sia nelle immagini sia nella musica ricordano il film muto e in particolare il primo Chaplin, amatissimo da Pasolini);
– l’utilizzo sempre sapiente della musica: un Dies Irae arcaico, un “Sempre libera degg’io” dalla Traviata di Verdi – titolo oltremodo significativo se solo si consideri l’effettivo grado di libertà dei figuranti e di Stracci, il protagonista che recita la parte del Ladrone buono (e ancor più significativo se si fa attenzione alla trasformazione subita da quest’ultimo brano: una grottesca, quasi parossistica accelerazione che trascina la musica in un irrefrenabile “zumpa-pa-zumpa-pa” che si avvita su se stesso...).È il terzo film di Pasolini e in esso, ancora una volta, il registra privilegia una storia che fa capo agli strati più umili ed emarginati della società – tutte le comparse, i generici, i figuranti del “film nel film” la cui storia viene narrata (e che rappresenta la Passione di Cristo) sono dei sottoproletari, dei “morti di fame” in senso letterale, come ci dirà lo stesso Pasolini attraverso l’“enorme mangiata” di ricotta rappresentata quasi a conclusione del film e della vita stessa di Stracci. Ma, per la prima volta nel cinema pasoliniano, compare anche la borghesia, nei panni rozzi e volgari del produttore e del suo entourage. E viene anche “messa in scena” l’“integrazione sociale” cui sembra essere pervenuto il regista “marxista” (interpretato da Orson Welles).
La pellicola fu sequestrata con l’imputazione di “vilipendio alla religione di Stato” (1963): nelle numerose pagine in cui il presente commento è inserito se ne parla molto ampiamente. Quindi non mi soffermo più di tanto sul processo che ne seguì e nel quale, tra l’altro, il Procuratore della Repubblica Di Gennaro presentò ai “cattolici benpensanti” il film come
“il cavallo di Troia della rivoluzione proletaria nella città di Dio”.Sull’onda delle vicissitudini giudiziarie, al film saranno apportati alcuni tagli:
le tre ripetizioni de “la corona!”, lo spogliarello della generica Maddalena, la risata del generico Cristo;
si sostituisce l’ordine “via i crocefissi!” con “fare l’altra scena!”,
l’espressione “cornuti” con “che peccato”,
la frase finale “povero Stracci, crepare è stato il suo solo modo di fare la rivoluzione” con “povero Stracci! crepare, non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo”!Soltanto nel maggio 1964 la Corte d’appello di Roma, accogliendo il ricorso di Pasolini, assolverà il regista perché “il fatto non costituisce reato”.
Le critiche e le motivazioni della persecuzione giudiziaria, come Pasolini stesso aveva previsto, erano dettate dalla malafede.
Pasolini aveva diretto, in effetti, attraverso questo film, un attacco frontale nei confronti della borghesia e questo era il motivo vero che scatenò ancora una volta la canea nei suoi confronti.
Il senso di questo attacco è contenuto essenzialmente nelle parole qui sotto riportate, pronunciate dal regista-Orson Welles e dirette al giornalista che gli chiede una intervista:
“Che cosa vuole esprimere con questa sua nuova opera?”
“Il mio intimo, profondo, arcaico cattolicesimo.”“Che cosa ne pensa della società italiana?”
“Il popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa.”“Che cosa ne pensa della morte?”
“Come marxista è un fatto che non prendo in considerazione”“Qual è la sua opinione sul nostro grande regista Federico Fellini?”
“Egli danza... egli danza...”
Il regista-Orson Welles, dopo aver letto una poesia (“Io sono una forza del passato...), tenendo tra le mani il libro Mamma Roma, dice infine al giornalista (mentre quest’ultimo idiotamente ride):
“Lei non ha capito niente perché lei è un uomo medio: un uomo medio è un mostro, un pericoloso delinquente, conformista, razzista, schiavista, qualunquista. Lei non esiste... Il capitale non considera esistente la manodopera se non quando serve la produzione... e il produttore del mio film è anche il padrone del suo giornale... Addio.”
In un breve scitto del 1961, infine, Pasolini così si espresse:
“Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di “imitatio Christi”, quell’irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l’esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene”.
NULLA MUORE MAI IN UNA VITA: è una frase che può essere convintamente e affettuosamente rivolta proprio a Pier Paolo Pasolini.
Angela Molteni - aprile 1997
* Le citazioni sono tratte da Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Garzanti, Milano
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