"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
"Avevo due obiettivi nel fare il film: il primo, realizzare una sorta di autobiografia assolutamente metaforica, quindi mitizzata; il secondo, affrontare tanto il problema della psicoanalisi quanto quello del mito. Ma invece di proiettare il mito sulla psicoanalisi, ho riproiettato la psicoanalisi sul mito."
(P.P. Pasolini, Le regole di un'illusione - Quaderni, 1991)
1967 EDIPO RE
Produzione: Alfredo Bini - Arco Film / Somafis (Casablanca)
Distribuzione: Euro International Films
Sceneggiatura: Pier Paolo Pasolini
Fotografia: Giuseppe Ruzzolini
Musica: a cura di Pier Paolo Pasolini
Franco Citti,
Silvana Mangano,
Alida Valli,
Carmelo Bene,
Francesco Leonetti,
Pier Paolo Pasolini (un sacerdote),
Jean-Paul Biette (un sacerdote)
3 settembre 1967: XXVIII Mostra di Venezia.
USCITA NELLE SALE:
8 settembre 1967: Torino, Cinema Cristallo; Roma, Cinema Corso.
STORIA:
Film girato dalla seconda metà di aprile alla prima metà di luglio 1967 nei teatri di posa Dino De Laurentiis Cinematografica (Roma),
esterni del Veneto, Bassa Lombardia [Cascina Moncucca e dintorni], Sant’Angelo Lodigiano, Bologna; Marocco: It’ben addu, Ouarzazate; Zagora.
Premi: XXVIII Mostra di Venezia, Premio CIDALC
(Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema); Grolla d’oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968; Premio Nastro d’Argento 1968 per la produzione e la scenografia.
(Confédération Internationale pour la Diffusion des Arts et des Lettres par le Cinema); Grolla d’oro, Saint Vincent, 6 luglio 1968; Premio Nastro d’Argento 1968 per la produzione e la scenografia.
TRAMA:
Trama: Edipo, re di Tebe, è risoluto a estirpare la causa di una terribile pestilenza che tormenta la sua città.
Interrogato l' oracolo questi risponde che la città è contaminata dalla morte, rimasta impunita, del suo vecchio re Laio.
Si deve dunque ricercare il colpevole.
Edipo; l'intelligente e coraggioso uomo che già è riuscito a svelare il mistero della sfinge liberando la città dal terrore del mostro rivelandone i suoi enigmi, l'uomo che ama chiamarsi con tono di altezzosa sfida "Figlio della Fortuna" è risoluto a risolvere questo nuovo mistero.
Egli sospetta gravemente di suo cognato Creonte e del profeta Tiresia. Anzi quest'ultimo, interrogato lungamente, ha sempre rifiutato di rispondere ed infine è giunto ad imputare del delitto lo stesso re 'Edipo.
A questa assurda situazione pone fine, almeno momentaneamente, Giocasta, già moglie di Laio e poi, alla sua morte, passata a seconde nozze con Edipo. Giocasta invita Edipo a non dare ascolto a
nessun oracolo e a nessun profeta: "anche a Laio il dio profetizzò che sarebbe stato ucciso da suo figlio e invece l'unico figlio di Laio mori non appena nato". Giocasta gli dice anche, nel suo volenteroso intento di indurlo a non credere a queste assurde dicerie, che la vita altro non è che una lunga serie di fatti privi di qualunque senso e che quindi tanto vale lasciare da parte ogni principio e vivere alla giornata.
Ma Edipo sente come se un cerchio stesse stringendoglisi intorno, precludendogli qualunque via d'uscita. Difatti anche lui, molto tempo prima, interrogando l'oracolo è venuto a conoscenza che un giorno avrebbe dovuto uccidere il proprio padre per poi unirsi incestuosamente con sua madre.
Mentre stanno accadendo questi strani avvenimenti ecco giungere la notizia che Polibo, padre di Edipo, è morto nella sua terra di Corinto.
Tutto sembra al fine chiarito, smascherato, 1a luce della verità sembra spazzare le angosciose ombre del dubbio.
Ma la calma e la tranquillità che ora accarezzano l'animo di Edipo vengono rapidamente distrutte, annientate dal racconto che viene fatto da un vecchio servo della casa di re Laio. Con molte reticenze, soffreddo dolorosamente per quel che deve rivelare, il vecchio servo tristemente narra 1a vera storia: Edipo è figlio di re Laio. Edipo, neonato, venne abbandonato da Laio fra i dirupi del monte Citerone affinchè morisse. Ma il destino volle altrimenti e il bimbo venne trovato da Polibo che lo prese con sé e
lo adottò come figlio.
La rivelazione orrenda: 1a predizione de11'oracolo era giusta. Edipo nell'udire il mostruoso racconto, fuori di sé si trafigge gli occhi con due fibbie. Giocasta in preda all'orrore di quanto ha ascoltato si strangola con un laccio
In seguito a questi drammatici avvenimenti Creonte viene, a sua volta, eletto re di Tebe.
(Tratto dalla domanda di revisione presentata da Alfredo Bini,
il 4 settembre 1967,
al Ministero del turismo e dello spettacolo
- trascrizione curata da Bruno Esposito)
P. – Non sono ben preparato a risponderle; perché in realtà non ci avevo mai pensato. Credo che le due cose siano complementari: non è possibile l’incesto con la propria madre a meno che vi sia anche il parricidio. Se ricordo bene, entrambi hanno uguale importanza nel testo di Sofocle. Lei mi ha appena fatto notare che nel mio film il parricidio ha più risalto dell’incesto, certo dal punto di vista emotivo se non da quello quantitativo, ma penso che sia abbastanza naturale perché, storicamente parlando, io ero in una situazione di rivalità e di odio verso mio padre e perciò ero più libero nel modo di presentare il mio rapporto con lui, mentre l’amore per mia madre è rimasto qualcosa di latente. Anche se razionalmente lo capisco, è difficile accettarlo in tutta la sua pienezza. Forse mi sono sentito inibito nell’esprimerlo in forma artistica, mentre nel presentare il parricidio mi sono lasciato andare liberamente. La cosa deve essere dipesa puramente e semplicemente, presumo, da ragioni freudiane. Non me n’ero reso conto prima; ma lei ha ragione.
H. – Nel Prologo ha deliberatamente scelto di girare una scena nella quale il padre dice al bambino: «Mi stai rubando l’amore di mia moglie». Questo mi sembra un po’ estraneo alla normale concezione freudiana del mito. In quanto così facendo costruisce delle buone ragioni perché il bambino odii il padre.
P. – Volevo fare il film liberamente. Quando lo realizzai avevo in mente due obiettivi: primo, presentare una sorta di autobiografia, completamente metaforica e quindi mitizzata; secondo, affrontare sia il problema della psicanalisi sia quello del mito. Ma anziché proiettare il mito sulla psicanalisi, riproiettai la psicanalisi sul mito. Fu questa l’operazione fondamentale in Edipo. Ma mi mantenni molto libero, dando retta solo ai miei impulsi e alle mie aspirazioni. Non mi negai una sola libertà. Ora: il risentimento del padre verso il figlio era una cosa che sentivo più distintamente che non il rapporto tra il figlio e la madre, perché tale rapporto tra figlio e madre non è un rapporto storico, è un rapporto puramente interiore, privato, che sta fuori della storia, che è, anzi, metastorico, e quindi ideologicamente improduttivo, mentre quello che produce storia è il rapporto di odio-amore tra il padre e il figlio. Che quindi mi interessava più di quello tra il figlio e la madre. Ho provato molto, molto profondamente l’amore per mia madre, e tutto il mio lavoro ne è stato influenzato, ma si è trattato di un’influenza la cui origine è nel profondo del mio essere e, come ho detto, piuttosto fuori della storia; mentre tutto quello che nelle mie opere di scrittore c’è di ideologico, volontario, attivo e pratico dipende dal conflitto con mio padre. Perciò misi in Edipo cose che non erano in Sofocle, ma che non credo siano al di fuori della psicanalisi, perché questa parla del Super-Io rappresentato dal padre che opprime il figlio. In un certo senso, mi limitai ad applicare concetti psicanalitici al mio modo di sentire.
H. – Sorgono due problemi immediati riguardanti la sua messinscena del mito. Uno è che il mito è collettivo; è una somma collettiva di reazioni a certi problemi. Il secondo è che questi problemi erano problemi storici, con una loro precisa collocazione nella storia, quali la transizione da una società matriarcale a una società patriarcale. Lei ha messo questo al di fuori della storia, in maniera del tutto esplicita. Ho constatato una certa tensione tra il Prologo, che è personale (e che costituisce la parte migliore del film), e la parte girata in Marocco, che è il tentativo di descrivere un mito collettivo attraverso lo studio di un individuo. Forse perché il Prologo, credo, è il tentativo di rappresentare semplicemente il suo personale complesso di Edipo, mentre è più difficile fare un film sul mito collettivo perché nessuno nella realtà presenta il complesso edipico nella sua interezza. In questo io ho avvertito un certo salto.
P. – Credo che la ragione di questo sia che l’inizio è la parte del film più ispirata, in quanto rappresenta una rievocazione abbastanza particolareggiata della mia fanciullezza; e non è una rievocazione emotiva, ma rigidamente funzionale e sintetica. Ciò mi ha costretto a essere lirico, come chiunque dev’essere col ricordo, ma al contempo a mantenere uno stretto controllo sul materiale. Sono convinto che il Prologo di Edipo sia una delle mie cose meglio riuscite. Naturalmente, la rievocazione del mito è meno ispirata, più studiata. Volevo ricreare il mito sotto forma di sogno; volevo che tutta la parte centrale (che forma quasi l’intero film) fosse una specie di sogno, e questo spiega la scelta dei costumi e degli ambienti, e il ritmo generale seguito. Volevo che fosse una sorta di sogno estetizzante. Forse la parte centrale non è tanto buona, ma non credo che sia così perché dentro ciascuno di noi non c’è l’interezza del mito. Volevo rappresentare il mito come un sogno, e questo sogno potevo presentarlo solo estetizzando; questo forse è ciò che disturba.
H. – Certo un altro problema nel misurarsi col tema di Edipo attraverso Sofocle è che le cause della nevrosi sono rappresentate da un dio o dagli dèi in genere. In Sofocle, tutto sta al di fuori della volontà e del controllo umano: i familiari vogliono liberarsi di Edipo solo perché gli dèi hanno detto loro che avranno guai se non lo faranno. Nel testo di Sofocle le cause remote sono sospinte al di là della sfera umana e l’insieme diventa una tragedia, ineluttabile.
P. – È esattamente quello che ho cercato di far risaltare, perché in Sofocle a piacermi più di ogni altra cosa è stato che la persona cui tocca misurarsi con tutti questi problemi debba essere la più impreparata a sostenere una simile prova, una persona del tutto innocente. In Italia qualcuno mi ha criticato per non aver fatto di Edipo un intellettuale, perché qui da noi tutti se lo immaginano così. Ma io lo ritengo un errore, perché la vocazione dell’intellettuale è di scavare e chiarire le cose; non appena vede qualcosa che non funziona, l’intellettuale per sua vocazione si mette a esaminarla, a guardarci dentro. Edipo invece è esattamente l’opposto: è uno che non vuole guardare dentro le cose, come tutti gli ingenui, gli innocenti che vivono la loro vita quali prede della vita e delle proprie emozioni. Questa è la cosa di Sofocle che mi ha ispirato di più: il contrasto fra l’ingenuità, l’ignoranza totale e l’obbligo di conoscere. Non è stato tanto il fatto che la crudeltà della vita produce delitti, quanto che questi delitti sono commessi perché la gente non si sforza di capire la storia, la vita e la realtà.
H. – Ma anche capire non serve. Lui va a parlare con Francesco Leonetti, ma anche quando viene a sapere quello che è avvenuto si trova esattamente al punto di prima. È decisamente una visione pessimistica.
P. – Sì, il film è molto pessimistico. Quando Edipo arriva a capire, non gli serve più. Certo ci si potrebbe sempre trastullare con l’ipotesi che se Edipo non fosse stato così fatalmente innocente e inconsapevole, se fosse stato un intellettuale e per prima cosa avesse cercato la verità, forse avrebbe potuto modificare la realtà. La sola speranza è culturale, essere un intellettuale. Quanto al resto, io sono coerentemente pessimista.
H. – Questo è quanto emerge molte volte nei suoi film; per esempio, la fine di Comizi d’amore è basata sull’antitesi fra coscienza e inconsapevolezza: la poesia che lei legge è una perorazione a favore della consapevolezza, ma in generale l’impressione è che lei stesso non creda che serva gran che. Se si è finiti, insomma, si è finiti.
P. – Be’, questo ce l’ho sempre, dentro. Ma ho anche una tendenza razionale a esortare alla consapevolezza e alla razionalità, precisamente perché sono fondamentalmente irrazionale e ingenuo come Edipo e, sotto sotto, ignorante. Per reazione, mi invento questi avalli e incitamenti alla consapevolezza.
H. – Mi spiega quel punto in cui Edipo dice: «Ora tutto è chiaro, voluto, non è destino», proprio quando, invece, tutto quanto sembra destino, e niente affatto voluto?
P. – Quella è una frase assolutamente misteriosa, che non sono mai riuscito a capire; ma è in Sofocle. La frase esatta è: «Ecco, ora tutto è chiaro, voluto, non imposto dal fato». Io non la capisco ma la trovo meravigliosa proprio perché è enigmatica e incomprensibile. Vi è in essa una sottigliezza che è difficile spiegare. Eppure ha dentro qualcosa di molto chiaro, credo che si potrebbe spiegarla, ma io non so farlo. Comunque, è un verso di Sofocle che io ho ripreso pari pari.
H. – Generalmente parlando, ha lasciato il testo sofocleo più o meno intatto? Non ha aggiunto un paio di cose? Come la Sfinge, mi pare.
P. – Nella tragedia c’è tutto l’antefatto della vicenda, che il pubblico antico doveva conoscere. Nel film questa parte è quasi passata sotto silenzio; c’è solo qualche strana frase inventata da me, come quella per l’episodio della Sfinge e un altro paio di cosette. Sostanzialmente tutto il resto è sottaciuto. Poi c’è la seconda parte, quella in cui ha luogo tutta l’azione dell’Edipo di Sofocle, dopo la pestilenza e l’arrivo di Creonte, e qui mi sono attenuto con fedeltà al testo di Sofocle.
H. – La traduzione è sua?
P. – Sì, la feci espressamente, ed è molto piana e fedele all’originale.
H. – E le musiche?
P. – Si tratta di musica popolare romena. Inizialmente avevo pensato di girare Edipo in Romania, per cui feci un viaggio di ricognizione in cerca di luoghi adatti. Ma non andò bene. La Romania è un Paese moderno, le campagne si trovano in piena fase di industrializzazione; stanno distruggendo tutti i vecchi villaggi con le case di legno, ormai non resta quasi più niente. Perciò abbandonai l’idea di girare il film lì, ma in compenso trovai certi motivi popolari che mi piacquero moltissimo perché erano estremamente ambigui: qualcosa a mezza via tra i canti slavi, quelli greci e quelli arabi, indefinibili: è improbabile che uno che non possieda una conoscenza specifica riesca a localizzarne l’origine; sono un po’ fuori della storia. Poiché intendevo fare dell’Edipo un mito, avevo bisogno di musica che fosse astorica, atemporale.
H. – Ma nel film non c’è anche della musica giapponese?
P. – Sì, c’è anche un pezzetto di musica giapponese, che fu scelta per la stessa ragione.
H. – Mi spiega perché ha voluto metterlo fuori della storia, renderlo astorico, come dice, considerati i due punti enunciati prima: che lei stesso si sente ed è nella storia, e che anche il mito appartiene alla storia?
P. – Il mito è, diciamo così, un prodotto della storia umana; ma essendo diventato un mito è diventato un assoluto, non è più caratteristico di questo o di quel periodo storico; piuttosto appartiene, per così dire, a tutta la storia. Forse ho sbagliato a dire che è astorico: è metastorico.
H. – Vi erano due scene che sembravano girate in modo del tutto particolare: una era quella in cui Edipo visita l’Oracolo di Delfi, l’altra era la scena a Bologna, alla fine. Ha fatto ricorso a lenti speciali?
P. – Non per la scena di Delfi, per quella no. La girai con obiettivi normali. La stranezza, nel caso specifico, probabilmente deriva dal montaggio, perché girai la stessa cosa un po’ di tempo con Edipo solo e un po’ con le masse; poi unii le due parti: è forse questo a provocare la sensazione di stranezza che si ha nella scena dell’Oracolo. Per l’ultima parte del film, quella che si svolge in tempi moderni, usai grandangolari deformanti perché il ritorno improvviso al mondo moderno non poteva essere eseguito in maniera naturalistica: la transizione sarebbe risultata troppo brusca. La distorsione delle immagini rende meno brusco il passaggio dalla metastoria alla storia contemporanea, e serve a mantenere l’atmosfera di sogno.
H. – Perché pensa che altrimenti sarebbe stato troppo brusco, visto che il cinema è già sogno e realtà insieme?
H. – Nell’Epilogo si sentono due tipi di musica collegati a temi che sono ben noti in Italia; uno è collegato alla sinistra, l’altro alla borghesia, non è vero?
P. – L’Epilogo è quello che Freud chiama «sublimazione». Una volta che si è accecato, Edipo rientra nella società sublimando tutte le sue colpe. Una delle forme di sublimazione è la poesia. Lui suona il flauto, il che significa, per metafora, che è un poeta. Prima suona per la borghesia, ed esegue l’antico pezzo giapponese collegato all’Oracolo: musica ancestrale, privata, confessionale, musica che in una parola si può definire decadente. È una sorta di rievocazione del primitivo, delle proprie origini. Poi, disgustato della borghesia, se ne va via, a suonare il suo flauto dolce (cioè se ne va ad agire da poeta) ai lavoratori, e per loro suona una canzone che appartiene al patrimonio della Resistenza: un vecchio canto popolare che i soldati italiani impararono in Russia e che fu adottato durante la Resistenza come canto rivoluzionario.
H. – Parlando di Orgia (v. pp. 166-168), l’altro giorno, lei ha detto che le sole parole di quel film sarebbero state quelle con cui uno dei personaggi dice quanto piacere abbia tratto dall’uccisione del padre. Ovviamente, una delle cause di frustrazione nel mito di Edipo è che tutto quanto è inconsapevole: se qualcuno ha bisogno di uccidere suo padre, tanto vale che almeno ne tragga piacere. Sarebbe giusto, allora, vedere Orgia come uno sviluppo, in questo senso, del problema di Edipo?
P. – Orgia non è un mito, è un film a tesi. Il protagonista fa tutto in perfetta innocenza, ma proprio mentre sta per morire si rende conto del piacere che ha tratto da tutti i suoi atti. Rispetto al gusto, alla sensualità delle immagini, ai costumi e ai volti Orgia probabilmente sarà più simile al Vangelo che a Edipo re: si riallaccerà, naturalmente, a tutti i miei altri film, ma sarà più a tesi...
(Tratto da Pasolini su Pasolini, conversazioni con Jon Halliday -
traduzione di C. Salmaggi,
Collana Biblioteca della Fenice,
Parma, Guanda, 1992)
Una pietra miliare indica la città di Tebe: ma la scena ha luogo in un paesino del Nord nell’Italia degli anni ’20, dove vediamo una levatrice portare alla luce un bambino. Una donna (Silvana Mangano) gioca con delle amiche su di un prato, poi prende con tenerezza il suo bambino in braccio e lo allatta. Sulle note del Dissonanzen Quartet di Mozart, il volto sorridente della madre che allatta è attraversato da un momento di panico, prima di tornare al sorriso. Una soggettiva degli alti alberi del prato ci annuncia che il bambino ha aperto gli occhi per la prima volta al mondo. Sotto un balcone da cui pende la bandiera italiana con lo stemma sabaudo, un giovane ufficiale guarda con severità il bambino che gioca nella carrozzella. L’uomo è il padre del bambino, ed il suo pensiero è espresso tramite una didascalia: egli teme che suo figlio sia nato per prendere il suo posto sulla terra e ricacciarlo nel nulla, appropriandosi innanzitutto dell’amore della sua donna. Viene la notte. Dopo essersi assicurati che il bambino sta dormendo, i genitori si recano ad una festa da ballo in un palazzo attiguo al loro. Ma poco dopo il bambino si sveglia turbato, esce sul balcone, e vede, attraverso le tende delle finestre, le silouetthes dei genitori che ballano abbracciati. Esplodono dei fuochi d’artificio, il bambino cade nel panico, piange. Di notte, il padre e la madre in una stanza, e il figlio nell’altra, sono svegli, pensierosi, inquieti. Sulle note di una musica etnica africana, il padre si reca nella stanza del bambino e ne stringe le caviglie con forza. Il bambino si lamenta. La scena si sposta nell’antica Grecia, sul monte Citerone. Un bambino è appeso per le caviglie ad un palo, portato a spalle da un servitore di Laio, re di Tebe. Il compito dell’’uomo è uccidere il bambino, per evitare che si avveri una profezia dell’oracolo di Delfi, secondo la quale il figlio di Laio, una volta cresciuto, avrebbe ucciso il proprio padre e sarebbe giaciuto con la propria madre. Il servitore (Francesco Leonetti), però, non ha il coraggio di ucciderlo, e finisce per abbandonarlo nel deserto. Ma un vecchio pastore, che ha assistito alla scena, raccoglie con tenerezza l’innocente, e lo porta in omaggio al suo sovrano Pòlibo, (Ahmed Belhachmi), re della città di Corinto. Pòlibo, trionfante, mostra il bambino alla sua consorte Mèrope (Alida Valli), la quale decide di adottarlo come figlio, con il nome di Edipo, che letteralmente significa “colui che ha i piedi gonfi”. Edipo (Franco Citti) è cresciuto, ed è di temperamento ambizioso e irascibile. Dopo una lite al gioco del disco, apprende dal suo rivale di essere un “figlio della fortuna”, un trovatello. La notte Edipo ha degli incubi, e decide di recarsi a Delfi ad interpellare l’oracolo sulla origine dei suoi sogni: così, senza alcuna scorta, armato di una sola spada, il giovane principe di Corinto si incammina verso il tempio d’Apollo. L’oracolo, con una raccapricciante voce femminile, lo scaccia via seccamente, rivelandogli il suo destino incestusoso e parricida. In preda alla costernazione, Edipo si allontana. Per evitare che la profezia si avveri, decide di non tornare mai più a Corinto, da quelli che crede i suoi genitori. Si mette le mani sugli occhi, fa qualche giro su se stesso, e prende una direzione qualsiasi. Ma la direzione è sempre, fatalmente, quella di Tebe. Sulla strada assolata giunge il carro del re Laio. Laio maltratta Edipo, solo e senza scorta, e lo insulta come se fosse un mendicante: Edipo decide di vendicare l’affronto: con una corsa forsennata, urlando ferinamente la propria rabbia, uccide uno ad uno, nel silenzio desertico, sotto gli occhi del sovrano, tutti gli uomini della sua scorta. La stessa sorte infine tocca anche al re Laio. Edipo, stremato dalla carneficina, riprende il suo casuale cammino, che lo conduce finalmente a Tebe. Alle porte della città incontra una interminabile fila di persone piangenti, che si allontanano da Tebe con il loro poveri averi. Tocca al messagero (Ninetto Davoli) spiegare al nuovo arrivato Edipo le ragioni di quell’esodo: la Sfinge, creatura oscura, è giunta all’improvviso sulla montagna alle porte della città dall’abisso, seminando sciagura. Il messaggero aggiunge che esiste una “taglia” sull’uccisione della Sfinge: colui che ricaccerà la Sfinge nell’abisso, diventerà marito della regina di Tebe, la vedova Giocasta (Silvana Mangano). Edipo, non ascoltando le parole della Sfinge che ancora una volta lo mette di fronte al suo destino oscuro, riesce con una cieca violenza nell’impresa di sconfiggere l’inattaccabile creatura dell’abisso. Così il messaggero annuncia alla propria città festante che è giunto il nuovo re, Edipo. Alla fine dei cortei di ringraziamento, Edipo e Giocasta giacciono insieme nel talamo nuziale. L’oscuro destino del “bimbo dai piedi gonfi” si è ormai compiuto. La peste infuria su Tebe. Il gran sacerdote (Pasolini) parla con Edipo a nome del popolo, e gli chiede ragione di quanto sta accadendo. Edipo gli risponde di essere in attesa del ritorno del cognato Creonte (Carmelo Bene), che si è recato a Delfi per avere un responso sugli eventi luttuosi dall’oracolo. Creonte torna, e rivela che la causa della peste è la vendetta degli dei, irati per la presenza a Tebe di un uomo impuro, la cui colpa è l’uccisione del re Laio. Edipo decide di vendicare l’uccisione di Laio come se egli fosse stato “suo padre”. Ma nonostante i provvedimenti del re siano sempre più severi, la situazione non muta. I morti vengono ormai bruciati a decine nei roghi comuni. Edipo decide di consultare Tiresia (Julian Beck), il veggente cieco, per capire quale sarà il futuro della città di Tebe. Il cieco Tiresia, suonatore di flauto, portato davanti ad Edipo, ha paura, e si rifiuta di parlare. Minacciato e accusato prima, poi perfino malmenato dal re, Tiresia rivela che Edipo prima o poi saprà di essere fratello e padre dei suoi figli, figlio e marito di sua madre, e che vagherà per il mondo senza più poterlo vedere, come ora accade a quel Tiresia che lui ha dileggiato e aggredito. Edipo prosegue la sua vita regale, e accusa Creonte e Tiresia di aver ordito una congiura alle sue spalle. Ma durante una conversazione con Giocasta, che gli sta spiegando i particolari dell’assassinio di Laio, Edipo apprende che il fato avverso lo ha ormai ghermito, che lui è il vero assassino, il responsabile della catastrofe di Tebe. Giocasta non vuole perdere Edipo, cerca di tranquillizzarlo, ma Edipo urla con dolore la verità ormai compresa. Edipo raggiunge l’unico testimone dell’assassinio di Laio rimasto in vita, il vecchio servitore, per averne conferma. Una volta raggiunto sulle montagne quell’uomo, Edipo lo costringe a dire “quello che non si può dire”: che il re di Tebe che ha ora innanzi a se è il figlioletto di Giocasta e di Laio che egli aveva abbandonato sul monte Citerone molti anni addietro. Edipo ritorna al palazzo, ormai cosciente dell’avverata profezia. Lì trova Giocasta che si è uccisa, impiccandosi nella stanza da letto. Allora, con un gesto fulmineo e ferino, simile a quelli con cui ha fatto strage di Laio e della scorta, Edipo si acceca entrambi gli occhi con la spilla delle vesti di Giocasta. Poi, accecato, esce dal palazzo, e incomincia a brancolare nel suo buio definitivo, pietosamente accompagnato dal messagero. Edipo e il messaggero si trovano ora, vestiti in panni moderni, sotto i portici di una Bologna di fine anni Sessanta. Edipo suona il flauto sulle scalinate delle chiese, ma è inquieto, disperato, e cerca di continuo di andarsene altrove. Camminando sempre più in periferia, attraverso panorami sconsolati di fabbriche e rifiuti urbani, Edipo giunge finalmente al prato in cui il bimbo nato negli anni Venti aveva aperto gli occhi per la prima volta. Una nuova soggettiva sulle cime degli alberi ci annuncia l’epilogo della vicenda: Edipo è giunto dove la sua vita è cominciata, e dove dunque, ora, può concludersi del tutto.
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