"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Nuove questioni linguistiche
Prima parte
Rinascita, sabato 26 dicembre 1964
Biblioteca Gino Bianco
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
Nel discorso tenuto in questi giorni. lo scrittore rivede alcune sue posizioni. aderendo, fra l'altro, a osservazioni e proposte ch'egli aveva giù ricevuto dalla critica marxista negli anni scorsi. Egli ammette, cioè, che una parte del suo lavoro finiva per essere assenza dalla storia o visione periferica: quindi mondo << disponibile perché preistorico >> Persino qualche prova di << letteratura di fabbrica >> che due anni fa sembrava più avanzata, gli suggerisce ora un giudizio diverso, scoprendola <<altrettanto ingenua e appartenente a un mondo di bontà e di solidarietà superate dalla vertiginosa evoluzione della fabbrica>>.
In questo quadro Pasolini analizza le ragioni di vitalità delle nuove avanguardie letterarie, per ricavarne subito gli aspetti socio-linguistici dei più recenti sviluppi. La sua tesi è che, di fronte al linguaggio << padronale >> del vecchio capitalismo (paleo-capitalismo), assolutamente insufficiente e refrattario a un'unificazione linguistica come quello di altri gruppi e settori sociali, il linguaggio tecnico-scientifico - di cui il neo-capitalismo si fa portatore con le sue proposte tecnocratiche -, introduce una modificazione fondamentale, sottoponendo a verifica gli altri, precedenti strati linguistici.
Per cui Pasolini si sente addirittura <<autorizzato ad annunciare che è nato l'italiano come lingua nazionale>>. Nell'Italia del nord ( fra Milano e Torino ) e non più tra Firenze e Roma, in conclusione. egli situa l'asse di sviluppo di questa lingua nazionale. Si tratta dunque di uno scritto stimolante, che affronta, per altre vie, innumerevoli problemi dell'attuale situazione culturale della nostra società, quello che presentiamo ai nostri tettori, sottoponendolo netto stesso tempo, a un dibattito aperto di scrittori e studiosi di letteratura, di linguistica, di scienze storiche.
Per una rapida revisione letteraria - che ci porti in concreto ad alcune conclusioni linguistiche cui voglio temerariamente arrivare - sceglierò un punto di vista particolaristico: il rapporto tra gli scrittori e la koinè italiana.Che cos’è, prima di tutto, questa koinè? Le descrizioni puramente linguistiche non mancano: l’ultima, «alla Bally», è dovuta a Cesare Segre, e a essa rinvio (e mi riferisco). Si potrebbe comunque dire, intanto, che, all’occhio dello scrittore, l’italiano medio si presenta come un’entità dualistica, una << santissima dualità >>: l’italiano strumentale e l’italiano letterario.
Questo implica un fatto che del resto è ben noto: cioè che in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale. Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche unità tra le due persone della dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo cercarla al di fuori della lingua, nell’interno di quell’individuo storico che è contemporaneamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente descrivibile in una unitaria totalità di esperienze. Tale individuo quale sede spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo-borghese italiano, con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui definire: basta, credo, semplicemente alludervi come a una comune conoscenza.
È lo stesso borghese che usa, quando parla, la koinè, e, quando scrive, la lingua letteraria. Egli porta dunque in tutte due queste lingue lo stesso spirito. La sua vocazione letteraria non è palingenetica.
L’osmosi col latino, le varie stratificazioni dovute alle diacronie storiche, la tendenza sintetica, la prevalenza dell’espressività sulla comunicazione, la coesistenza di molte forme concorrenti ecc. ecc. definiscono insieme l’italiano parlato e l’italiano letterario medi: che sono dunque caratterizzati da uno scambio di abitudini: la loro dualità non è fondamentalmente antitetica. Sono due possibili scelte dove esprimere fondamentalmente la stessa esperienza esistenziale e storica.
Così che se io dovessi descrivere in modo sintetico e vivace l’italiano, direi che si tratta di una lingua non, o imperfettamente, nazionale, che copre un corpo storico-sociale frammentario, sia in senso verticale (le diacronie storiche, la sua formazione a strati), sia in senso estensivo (le diverse vicende storiche regionali, che hanno prodotto varie piccole lingue virtuali concorrenti, i dialetti, e le successive differenti dialettizzazioni della koinè): su tale copertura linguistica di una realtà frammentaria e quindi non nazionale, si proietta la normatività della lingua scritta – usata a scuola e nei rapporti culturali – nata come lingua letteraria, e dunque artificiale, e dunque pseudo-nazionale.
La lingua parlata è dominata dalla pratica, la lingua letteraria dalla tradizione: sia la pratica che la tradizione sono due elementi inautentici, applicati alla realtà, non espressi dalla realtà. O, meglio, essi esprimono una realtà che non è una realtà nazionale: esprimono la realtà storica della borghesia italiana che nei primi decenni dell’unità, fino a ieri, non ha saputo identificarsi con l’intiera società italiana.
La lingua italiana è dunque la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale: e la sua lingua è la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, insomma della sua lotta di classe.
Dovendo poi delineare una storia della letteratura italiana del Novecento come una storia dei rapporti degli scrittori con tale lingua, dovrei prima di tutto distinguere: se questa storia letteraria è una storia media, tipica, allora i rapporti degli scrittori con l’italiano come lingua della borghesia è il rapporto tranquillo di chi rimane nel proprio ambito linguistico e adopera insomma uno strumento che gli è congeniale (la vocazione letteraria media non si presenta mai come palingenetica nei riguardi della lingua). Se invece tale storia letteraria è una storia dei valori, allora devo dire che l’italiano come lingua della borghesia si presenta come lingua impossibile, infrequentabile: esso è caratterizzato da una violenta forza centrifuga.
Se per semplificare immaginiamo questa lingua media una e dualistica, come una linea, vedremo collocarvisi una serie di opere assolutamente trascurabili in quanto valori: mentre le opere che contano come valori letterari, respinte da quella forza centrifuga, si collocano tutte o sopra o sotto quella linea media. Intesa dunque come storia dei rapporti degli scrittori con la koinè, la letteratura del Novecento è geometricamente composta da tre linee: quella media su cui non ha corso che la letteratura puramente scolastico-accademica ecc. (quella cioè che conserva la fondamentale irrealtà dell’italiano come lingua media borghese); quella alta, che dà una letteratura, secondo ulteriori graduazioni, di tipo variamente sublime, o iperlinguistica; quella bassa che dà le letterature naturalistico-veristico-dialettali.
Ma osserviamo un po’ meglio questa rassicurante parabola geometrica.
Questo implica un fatto che del resto è ben noto: cioè che in Italia non esiste una vera e propria lingua italiana nazionale. Cosicché, se vogliamo ricercare una qualche unità tra le due persone della dualità (lingua parlata, lingua letteraria), dobbiamo cercarla al di fuori della lingua, nell’interno di quell’individuo storico che è contemporaneamente utente di queste due lingue: che è uno, e storicamente descrivibile in una unitaria totalità di esperienze. Tale individuo quale sede spirituale o coabitazione della dualità, è il borghese o piccolo-borghese italiano, con la sua esperienza storica e culturale, che è inutile qui definire: basta, credo, semplicemente alludervi come a una comune conoscenza.
È lo stesso borghese che usa, quando parla, la koinè, e, quando scrive, la lingua letteraria. Egli porta dunque in tutte due queste lingue lo stesso spirito. La sua vocazione letteraria non è palingenetica.
L’osmosi col latino, le varie stratificazioni dovute alle diacronie storiche, la tendenza sintetica, la prevalenza dell’espressività sulla comunicazione, la coesistenza di molte forme concorrenti ecc. ecc. definiscono insieme l’italiano parlato e l’italiano letterario medi: che sono dunque caratterizzati da uno scambio di abitudini: la loro dualità non è fondamentalmente antitetica. Sono due possibili scelte dove esprimere fondamentalmente la stessa esperienza esistenziale e storica.
Così che se io dovessi descrivere in modo sintetico e vivace l’italiano, direi che si tratta di una lingua non, o imperfettamente, nazionale, che copre un corpo storico-sociale frammentario, sia in senso verticale (le diacronie storiche, la sua formazione a strati), sia in senso estensivo (le diverse vicende storiche regionali, che hanno prodotto varie piccole lingue virtuali concorrenti, i dialetti, e le successive differenti dialettizzazioni della koinè): su tale copertura linguistica di una realtà frammentaria e quindi non nazionale, si proietta la normatività della lingua scritta – usata a scuola e nei rapporti culturali – nata come lingua letteraria, e dunque artificiale, e dunque pseudo-nazionale.
La lingua parlata è dominata dalla pratica, la lingua letteraria dalla tradizione: sia la pratica che la tradizione sono due elementi inautentici, applicati alla realtà, non espressi dalla realtà. O, meglio, essi esprimono una realtà che non è una realtà nazionale: esprimono la realtà storica della borghesia italiana che nei primi decenni dell’unità, fino a ieri, non ha saputo identificarsi con l’intiera società italiana.
La lingua italiana è dunque la lingua della borghesia italiana che per ragioni storiche determinate non ha saputo identificarsi con la nazione, ma è rimasta classe sociale: e la sua lingua è la lingua delle sue abitudini, dei suoi privilegi, delle sue mistificazioni, insomma della sua lotta di classe.
Dovendo poi delineare una storia della letteratura italiana del Novecento come una storia dei rapporti degli scrittori con tale lingua, dovrei prima di tutto distinguere: se questa storia letteraria è una storia media, tipica, allora i rapporti degli scrittori con l’italiano come lingua della borghesia è il rapporto tranquillo di chi rimane nel proprio ambito linguistico e adopera insomma uno strumento che gli è congeniale (la vocazione letteraria media non si presenta mai come palingenetica nei riguardi della lingua). Se invece tale storia letteraria è una storia dei valori, allora devo dire che l’italiano come lingua della borghesia si presenta come lingua impossibile, infrequentabile: esso è caratterizzato da una violenta forza centrifuga.
Se per semplificare immaginiamo questa lingua media una e dualistica, come una linea, vedremo collocarvisi una serie di opere assolutamente trascurabili in quanto valori: mentre le opere che contano come valori letterari, respinte da quella forza centrifuga, si collocano tutte o sopra o sotto quella linea media. Intesa dunque come storia dei rapporti degli scrittori con la koinè, la letteratura del Novecento è geometricamente composta da tre linee: quella media su cui non ha corso che la letteratura puramente scolastico-accademica ecc. (quella cioè che conserva la fondamentale irrealtà dell’italiano come lingua media borghese); quella alta, che dà una letteratura, secondo ulteriori graduazioni, di tipo variamente sublime, o iperlinguistica; quella bassa che dà le letterature naturalistico-veristico-dialettali.
Ma osserviamo un po’ meglio questa rassicurante parabola geometrica.
Sulla linea media vedremo collocarsi:
a) le opere di compilazione anonima, pseudo-letteraria, tradizionalistica, sul còtè letterario (per esempio tutta la retorica fascista e clericale);
b) le opere di intrattenimento e di evasione, oppure timidamente letterarie (qualcosa di un po’ più su del giornalismo), sul còtè parlato (la prosa del romanzo coevo alla prosa d’arte, da Panzini, in parte incluso, in poi, cito a caso, Cuccoli, Cicognani ecc. ecc.).
Sulla linea bassa:
a) i dialettali (da quelli di prim’ordine, Di Giacomo, Giotti, Tessa, Noventa ecc., agli infimi);
b) i naturalisti o veristi di origine verghiana (tutti di secondo o terz’ordine, e quindi irrilevanti se non come fenomeno).
Sulla linea alta, respinti per ragioni ideologiche disuguali e spesso antitetiche, dalla forza centrifuga dell’italiano medio, si collocano quasi tutti gli scrittori del Novecento italiano, ma a livelli molto diversi.
Al livello più alto, addirittura sublime, troviamo il settore degli ermetici: quassù l’italiano medio li ha centrifugati per ragioni endogene alla lingua, non critiche rispetto alla società. È la zona delle torri d’avorio – se vogliamo ancora divertirci a disegnare una geografia di simboli sulla lavagna. L’italiano usato dentro queste torri è una lingua per poesia: il rifiuto o il non collaborazionismo col fascismo, mettiamo, cela una vocazione reazionaria di diversa specie: l’introversione borghese che identifica il mondo con l’interiorità, e l’interiorità come sede di un tipico misticismo estetico elaborato dal decadentismo soprattutto francese e tedesco ecc. ecc. Tutto ciò implica la figura di un barocco classicistico, di un espressionismo classicistico, di un anticlassicismo classicistico: tali accostamenti derivano dal fatto che in questi poeti dello stile sublime c’è una intima contraddizione ideologica: essi non si rendono conto cioè che il loro rifiuto alla realtà apparentemente rivoluzionario è in sostanza reazionario, e quindi riadotta tutti gli schemi linguistici restauratori: compie un’operazione classicistica, in una parola. Nel caso che alcuni di questi scrittori si accorgano dell’errore, e tentino una modifica della loro posizione ideologica nel senso di un maggior interesse o amore per il mondo (nella fattispecie, i parlanti) essi contaminano il loro classicismo con elementi crepuscolari di lingua parlata (ed ecco definito linguisticamente l’ermetismo di Luzi, per esempio).
A un livello più basso coabitano una serie di opere «iperscritte», la cui ideologia non è il mito della poesia, ma quello dello stile, e quindi il loro contenuto non è la letteratura stessa, ma la vita storica con i suoi problemi, portata a un clima di tensione letteraria così violenta da presentarsi come una sorta di manierismo nell’accezione longhiana della parola: vi si possono fare i nomi più diversi, da quello di Vittorini a quello della Banti, oppure quello di Roversi della completa poetizzazione della realtà operata nel suo ultimo romanzo, o ancora quello del Leonetti dei libri di versi.
A un livello ancora più avvicinato alla linea media, troviamo la zona delle feluche: ossia l’ermetismo del piede di casa, il dannunzianesimo ironizzato: l’accettazione del parlato come preziosità letteraria (il parlato reidentificato col toscano): e si possono nominare alla rinfusa Cardarelli, Cecchi, Baldini ecc. ecc.
A un livello più prossimo ancora alla linea media troviamo gli scrittori che potremmo chiamare della nostalgia (nostalgia linguistica, s’intende): Cassola, Bassani ne sono i più tipici. Essi mescolano allo stile sublimis, fondamentale alla loro ispirazione elegiaca e civile, una lingua parlata come lingua dei padri (naturalmente borghesi) che, visti nella luce della memoria si nobilitano, diventano oggetto di récherche: e con essi si nobilita la loro lingua parlata, quell’italiano medio, che dopo averli respinti da sé – per una violenta protesta storica e ideologica, mettiamo l’antifascismo – li richiama col fascino di un luogo promesso e perduto, una normalità poetica in quanto struggentemente ontologica.
Più vicini ancora a questo italiano inteso come normale, non criticato nel profondo, sono gli scrittori meno sperimentali e meno stilisticamente sublimi. Il rapporto di Soldati con quell’italiano medio, per esempio, è di accettazione fondamentale di esso in quanto lingua dell’Ottocento (una posizione simile a quella di Cassola e di Bassani, ma meno elegiaca, meno poetica, e più ideologicamente accanita a credere nell’illusione dell’esistenza di una buona borghesia che non c’è mai stata). Anche il rapporto di Delfini con quell’italiano medio è simile a quello di Soldati, Bassani e Cassola: c’è un fondo di nostalgia per quello che la borghesia poteva essere e non è stata, lo spostamento del punto focale sul lato buono, poetico della vita borghese del Nord, su una certa epicità, che, nel seno di certe famiglie e certi ambienti ha pure potuto essere poetica. In Delfini c’è anche la delusione: e quindi l’instabilità dell’ironia. Invece tutta perduta in quel senso inenarrabile che può dare un’esistenza familiare borghese quando questa si identifichi con tutta l’esistenza, è la lingua di Bertolucci. Moravia ha, con l’italiano medio, in fondo, il rapporto più curioso: esso si basa su un equivoco che Moravia spavaldamente accetta: il disprezzo per la condizione borghese – e la conseguente, spietata, critica che è la tesi di ogni sua opera – insieme con l’accettazione della lingua della borghesia come una lingua normale, come uno strumento neutro, quasi non venisse prodotto ed elaborato storicamente proprio da quella borghesia, ma venisse «trovato» paradigmaticamente nella storia. Moravia dunque disprezza la lingua borghese, da una parte (individuandone
A un livello più basso coabitano una serie di opere «iperscritte», la cui ideologia non è il mito della poesia, ma quello dello stile, e quindi il loro contenuto non è la letteratura stessa, ma la vita storica con i suoi problemi, portata a un clima di tensione letteraria così violenta da presentarsi come una sorta di manierismo nell’accezione longhiana della parola: vi si possono fare i nomi più diversi, da quello di Vittorini a quello della Banti, oppure quello di Roversi della completa poetizzazione della realtà operata nel suo ultimo romanzo, o ancora quello del Leonetti dei libri di versi.
A un livello ancora più avvicinato alla linea media, troviamo la zona delle feluche: ossia l’ermetismo del piede di casa, il dannunzianesimo ironizzato: l’accettazione del parlato come preziosità letteraria (il parlato reidentificato col toscano): e si possono nominare alla rinfusa Cardarelli, Cecchi, Baldini ecc. ecc.
A un livello più prossimo ancora alla linea media troviamo gli scrittori che potremmo chiamare della nostalgia (nostalgia linguistica, s’intende): Cassola, Bassani ne sono i più tipici. Essi mescolano allo stile sublimis, fondamentale alla loro ispirazione elegiaca e civile, una lingua parlata come lingua dei padri (naturalmente borghesi) che, visti nella luce della memoria si nobilitano, diventano oggetto di récherche: e con essi si nobilita la loro lingua parlata, quell’italiano medio, che dopo averli respinti da sé – per una violenta protesta storica e ideologica, mettiamo l’antifascismo – li richiama col fascino di un luogo promesso e perduto, una normalità poetica in quanto struggentemente ontologica.
Più vicini ancora a questo italiano inteso come normale, non criticato nel profondo, sono gli scrittori meno sperimentali e meno stilisticamente sublimi. Il rapporto di Soldati con quell’italiano medio, per esempio, è di accettazione fondamentale di esso in quanto lingua dell’Ottocento (una posizione simile a quella di Cassola e di Bassani, ma meno elegiaca, meno poetica, e più ideologicamente accanita a credere nell’illusione dell’esistenza di una buona borghesia che non c’è mai stata). Anche il rapporto di Delfini con quell’italiano medio è simile a quello di Soldati, Bassani e Cassola: c’è un fondo di nostalgia per quello che la borghesia poteva essere e non è stata, lo spostamento del punto focale sul lato buono, poetico della vita borghese del Nord, su una certa epicità, che, nel seno di certe famiglie e certi ambienti ha pure potuto essere poetica. In Delfini c’è anche la delusione: e quindi l’instabilità dell’ironia. Invece tutta perduta in quel senso inenarrabile che può dare un’esistenza familiare borghese quando questa si identifichi con tutta l’esistenza, è la lingua di Bertolucci. Moravia ha, con l’italiano medio, in fondo, il rapporto più curioso: esso si basa su un equivoco che Moravia spavaldamente accetta: il disprezzo per la condizione borghese – e la conseguente, spietata, critica che è la tesi di ogni sua opera – insieme con l’accettazione della lingua della borghesia come una lingua normale, come uno strumento neutro, quasi non venisse prodotto ed elaborato storicamente proprio da quella borghesia, ma venisse «trovato» paradigmaticamente nella storia. Moravia dunque disprezza la lingua borghese, da una parte (individuandone
espressivamente solo alcuni dati, come staccati dal sistema linguistico, e accontentandosi di mettere in ridicolo quelli soltanto), mentre dall’altro ha una specie di rispetto infantile e scolastico per la lingua come per un meccanismo normalmente funzionante. Inconsciamente egli ha fatto dell’italiano una specie di lingua europea neutrale, e
inconsciamente egli vi apporta caratteristiche non italiane: la sua grammatica è semplificata, le forme concorrenti sono rare, le sequenze tendono a essere progressive, lo spirito analitico, l’eccessiva disponibilità dei sintagmi limitata ecc. ecc. L’italiano di Moravia è una «finzione» di italiano medio.
Pier Paolo Pasolini
(1964)
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