"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Gli appunti di Sandro Penna
Pasolini, Pier Paolo
28-09-1950
estratto da: "Popolo di Roma"
Biblioteca nazionale centrale - Roma
Trascrizione dal cartaceo di Carlo Picca
28-09-1950 ritaglio di : "Popolo di Roma"- Biblioteca nazionale centrale - Roma |
"Ho fatto un culto di Penna"
Carlo Picca
Molti hanno detto cose esatte e intelligenti sulla poesia di Sandro Penna, vedi Solmi, vedi Anceschi, vedi, se non altro oralmente, la maggior parte dei letterati italiani, ma nessuno ha detto ancora la cosa essenziale. Come caso curioso, molti suoi amici pittori, vedi Mucchi, nella vecchia, deliziosa, edizione Parenti, e ora vedi Tamburi, in questa della Meridiana, lo hanno disegnato, ma nessuno è riuscito a coglierne l’immagine vera. La poesia di Penna, così pura, per definizione, si rifiuterebbe dunque a una definizione critica che le si avvicini per purezza: e a noi pare, questo, un sintomo che, non ancora per il critico, ma per il lettore, potrebbe bastare a spiegare la natura, almeno esterna, di questa poesia inafferrabile: se dimostra che in essa permane il mistero e l’assoluto della purezza degli oggetti che l’ispirano. Molti hanno parlato della –felicità- di Penna, equivalente psicologico della sua -grazia- poetica: noi vorremmo intanto spostare il significato di felicità, verso quello più vago di gratitudine. E’ quasi sempre un moto di gratitudine che spinge Penna a scrivere i suoi versi-sensuali, ma senza il peso della sensualità, appunto perché la sensualità è vinta da quel dolcissimo patetico che è la gratitudine per una vita sempre sorprendente: prodiga, tutta già predisposta al rimpianto. Penna riceve i suoi versi dagli improvvisi empiti in cui il tempo si purifica, travasa nell’assoluto - dagli istanti di pienezza in cui il mistero, non capito, è divinato - dall’accoratezza che semplifica la vita a un moto irresistibile che mescola il sorriso alle lacrime dagli arresti improvvisi, le –intermittences du coeur-, in cui un gesto che avrebbe rischiato di passare inosservato nella sua stupenda adesione al corpo anonimo del giorno, si isola in una gentile aureola di coscienza… E si è detto, in proposito, di malizia, col suo termine uguale e contrario, il candore: è vero, ma non è tutto, perché anche tecnicamente, il suo verso non si esaurisce, nel prosastico e nel melodico, i due rischi che corre continuamente, senza mai caderci, come sul filo di un rasoio, e dove appunto l’ingenuità gioca con la squisitezza. Ora, questo libretto di Appunti, può servirci a meraviglia, a cogliere il momento creativo di Penna, di un attimo anteriore al risultato indiscutibile, fresco fresco di una trasandatezza e di un’abilità non sempre portate del tutto all’espresso. Prendiamone uno, -indi rivolto il viso verso il guanciale sorrideva a se stesso, con beato rossore-. Ecco intanto l’indicazione temporale indi così cara a Penna, che fa precipitare il tempo nell’istante, senza astrarlo in dimensioni false, ma lasciandolo anzi alla sua più fisica immediatezza, nella leggerissima e perciò poetica retorica di chi si delizi in anticipo, e un po’ in eccesso, per un fatto che dovrà fermentare nella memoria. E si guardi il verbo, -sorrideva-, che praticamente dovrebbe essere al presente –sorride- data l’assoluta immediatezza dell’appunto, il valore contemplativo: l’imperfetto, il più misterioso, o vago, come direbbe Leopardi, dei tempi, dà un tono narrativo o evocativo, cioè colmo già di nostalgia, a questo godimento assolutamente presente.
Il primo verso è un endecasillabo falso, cioè di dodici sillabe, sospeso dunque, con malizia tecnica, ma candido come risultato, tra due diverse raffinatezze; il secondo è un endecasillabo perfetto, dei più canonici, anzi, se letto tutto d’un fiato, ma c’è una virgola che lo spezza con la forza di una cesura riducendolo in due versi più brevi, ed è come una sospensione nel rapimento della contemplazione, ripetuta dopo dall’enjambement –beato rossore. Ed è lì che esplode, con la misura e la grazia che sono solo di Penna, il patos amoroso e poetico. Poi è il silenzio della pagina bianca, che non è un silenzio musicale, un silenzio della voce, come può essere negli spazi di Ungaretti, per esempio: ma è semplicemente un ritorno della vita alla sua irriflessa quotidianità. Il cuore che riprende a battere col ritmo normale, riassorbito dalla miracolosa vicenda dell’esistenza. Questi non sono appunti di poesia, ma d’esistenza d’amore. Un lungo monologo interno, che nei suoi momenti più puri, è necessitato dalla sua stessa purezza a manifestarsi, a rivestire una forma poetica, per convincersi di questo basta guardare l’avvio di quasi tutte le sue annotazioni: indi, poi venni fra voi, tu mi lasci, frammenti illuminazioni di una storia amorosa ignota al lettore, famigliare al poeta fino all’ossessione, un ossessione tutta dolcezza. Ed è questa vita sottintesa, salvo che nelle conclusioni, coi suoi sperperi, i suoi sbagli, le sue manie, i suoi vuoti, le sue umiliazioni, le sue bassezze, le sue opacità che fermenta in queste poesie di poche righe, facendole risuonare a lungo, al di la del loro limite. Semplicità, purezza: e va bene, ma non c’è limite che valga, una persona e una vita, son sempre complesse, impure. E noi diremmo che è appunto la disperazione per un destino dispersivo e obbligato che echeggia dentro la poesia di questo poeta condannato alla felicità allargandone i confini, dandole quelle risonanze che sono la sua nascosta autentica ricchezza, e c’è da stupire quando qualche critico, come spesso avviene, si ostina a cercare il limite di Penna nella limitatezza dell’argomento, nell’assenza di ricerca che del resto esiste in Penna, ma prima della poesia, nel vuoto dei giorni ossessivi, doloranti. Ed è appunto la luce di questa ricerca che si riflette nella sua lingua, proiettandola in uno spazio molto più vasto, assoluto – cosmico, si sarebbe tentati di dire – di quel che non sembri. I suoi pezzi sono gnobili cantabili o quasi in prosa, sono pieni di quella disperata ricerca d’uomo solo apparentemente o casualmente amorale. Del resto richiedere a Penna di essere qualcosa di più o di diverso fa l’impressione di uno che si lamenti davanti al più bel fiore del suo giardino perché non è un cespuglio. Naturalmente, la tecnica di Penna è inimitabile, come, del resto, è senza veri precedenti: se gli volessimo trovare una figura cui assimilarlo, crediamo che l’unico nome da fare sarebbe quello di Rimbaud, il Rimbaud ragazzo, con tutto il suo dérèglement ancora potenziale, e magari con una vena melodica ancora più fluida e tersa. Come Rimbaud, Penna è, nelle lettere italiane, il ribelle infantile e assolto. Naturalmente anch’egli giunge spesso, nel suo quotidiano delirio, a un’illogica saggezza, a un’acerba e ingenua maturità. E si guardi appunto come comincia il libro:
Felice chi è diverso
Essendo egli diverso
Ma guai a chi è diverso
Essendo egli comune
Un aforisma candidamente acuto, una massima socratica detta col tono capriccioso di un bambino. Ma in questo capriccio quanta, e come trattenuta, come filtrata, come dimenticata, disperazione: la disperazione che circola in mezzo a tutte le felici parole di questo poeta felice perché diverso e così grato alla vita che lo compensa miracolosamente della sua diversità.
Pier Paolo Pasolini
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