"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Trilogia della vita o Tetralogia della morte?
I film della trilogia, pur se assimilabili a un disegno e a una prospettiva comune, appaiono, in realtà, molto diversi tra loro (se non addirittura opposti).
Il Decameron è forse il film più complesso, il più eterogeneo, quello in cui il registro stilistico è più libero di spaziare lungo tutte le gradazioni dell’espressione artistica; senza, per questo, pregiudicare l’unità dell’opera. La coesistenza tra la sessualità greve dell’episodio di Peronella o di donno Gianni, ad esempio, e il nitore tragico di quello di Lisabetta, è assicurata da quel sostrato comune che pervade tutto il film ed è costituito dall’inno, insieme sacrale e sensuale (nella misura in cui i due elementi in Pasolini appaiono compenetrati), rivolto alla vita e all’esistente nelle sue innumerevoli manifestazioni.
Il fatto che la morte sia un elemento perpetuamente presente in questo inno (quasi come un basso continuo che contrappunti la melodia principale) non deve essere visto come una limitazione al godimento esistenziale, oppure come un suo ribaltamento nella dialettica Eros-Thanatos, ma come una componente fondante ed essenziale di questo godimento e di questa esaltazione.
La morte, come si è visto, ha sempre accompagnato, durante tutto l’arco della produzione artistica pasoliniana, l’inestinguibile amore del poeta per la vita e l’empito ansioso del suo appagamento. Si potrebbe dire, inoltre, che lo stessa concezione sacrale delle cose, che è stata vista come uno dei fulcri interpretativi dell’opera di Pasolini, non può prescindere da un rapporto diretto con la morte velato di atavico misticismo.
Da un certo punto di vista, Il Decameron può essere considerato come il film più riuscito della Trilogia della vita, perché, in primo luogo, in esso trovano piena realizzazione il motivo del recupero della memoria, effettuato sui due registri complementari (e in esemplare equilibrio) della riscoperta del corpo nella pura gioia dell’esistente e del ricorso alla mediazione colta del testo boccacciano e della citazione pittorica. In secondo luogo, questi elementi presentano ancora la freschezza del piacere per la (ri)scoperta di un nuovo modo di fare cinema (seppur, come si è visto, con gli eterni ricorsi delle consuete tematiche pasoliniane) che non si è ancora appesantita e non è ancora sprofondata nelle pieghe del potere e della coscienza straniante del peccato dei Racconti di Canterbury, e nemmeno non ha disciolto i suoi confini nell’assolutezza del sogno che percorre tutto Il fiore delle Mille e una notte.
Come ho cercato di evidenziare nell’analisi dettagliata del film, il demone che sembra pervadere I racconti di Canterbury, che contamina la sessualità turbandone nevroticamente il godimento, che si insinua nei rapporti umani stravolgendoli nelle logiche irreali del potere, è il demone della coscienza infelice, del peccato, dell’affacciarsi del mondo popolare alla storia (visto come l’inizio dell’emancipazione borghese e della sua scissione dalle sorti del proletariato).
Questa diversa posizione dei Racconti di Canterbury nei confronti del Decameron, per non parlare del Fiore delle Mille e una notte, risulta particolarmente evidente se si considerano, oltre alle influenze (notevoli) del modello chauceriano, la diversa ambientazione e il diverso sfondo sociale che delimitavano l’orizzonte del film pasoliniano. Alla Napoli vista come enclave commoventemente opposta agli assalti del mondo nuovo, si sostituiva il "mondo ormai storicizzato, borghese" di un paese del capitalismo maturo:
"Devo dire che il mondo che ho trovato in Inghilterra, quando giravo Canterbury, era molto diverso: a Napoli e nell’Oriente non avevo confini, potevo scatenare intorno a me questo linguaggio della terra, delle cose, delle case, dei vulcani, delle palme, delle ortiche e soprattutto della gente. Invece in Inghilterra quel mondo è ritagliato dalla mania di un bambino, e le persone che sceglievo appartenevano a un mondo ormai storicizzato, borghese, e questa costrizione pesava sul mio stato d’animo."
Sullo stato d’animo del poeta, come si è visto, pesava anche, e soprattutto, la brusca fine a cui sembrava ormai giunto "quell’amore così casto" che Pasolini provava per Ninetto; il quale, in quel periodo, si era fidanzato con una ragazza con l’intenzione di sposarla. Ben oltre al semplice interesse biografico, la fine di questo amore potrebbe essere vista come l’esemplificazione tangibile della percezione pasoliniana del mutamento sociale in atto. L’allontanarsi progressivo nel passato e la percezione della perdita di quel mondo che Pasolini amava in Ninetto, nella sua gaiezza, nella sua spontaneità, trovava alcuni dei suoi sfoghi espressivi nei versi, accorati e rassegnati al tempo stesso, de L’hobby del sonetto e "nell’infelice" citazione chapliniana del Racconto del cuoco.
Nei Racconti di Canterbury, inoltre, l’eterogeneità (che si era ravvisata tra le qualità del Decameron) subisce un mutamento in senso quantitativo e qualitativo, tanto che si assiste ad una notevole frammentazione della materia del racconto. Questa impressione è accresciuta dall’alterno esito degli episodi; infatti, a racconti per certi versi riusciti (anche se perfettamente conchiusi all’interno dello spazio loro assegnato) come quello del Frate, dell’Indulgenziere e del Mercante se ne alternano altri che lo sono decisamente meno; ad esempio il Racconto del Fattore in cui si assiste all’appiattimento e all’inspessimento greve su i temi consueti; oppure (spiace ammetterlo) il Racconto del Cuoco tutto rinserrato "nell’aere cupo" della citazione pedissequa e dell’infelicità lucida e inconsolabile per la perdita recente, eccetera.
Nel Fiore delle Mille e una notte, i rigidi castoni che racchiudevano, e isolavano, gli episodi dei Racconti di Canterbury sembrano disciogliersi sotto il sole dell’oriente musulmano. La fluida materia dei racconti si compenetra mirabilmente nel gioco sinfonico dei continui rimandi e dell’agile trascorrere da un sogno all’altro.
"Sogno" deve essere qui inteso come qualcosa di diverso dalla mera componente onirica all’interno degli episodi (di cui, comunque, si è cercato di indagarne la rilevanza); bensì deve essere considerato come un principio applicato al Fiore delle Mille e una notte nella sua interezza.
I luoghi, i sorrisi, soprattutto i corpi appaiono come immersi nella luce dorata del sogno, quasi che possano essere recuperati, ormai, solo attraverso l’esperienza onirica, l’espressione del subconscio; poiché nella memoria è già cominciata quell’opera retroattiva di decadimento di cui si è parlato a proposito dell’Abiura.
Il fiore delle Mille e una notte, infatti, che sembrerebbe testimoniare un’avvenuta conciliazione del potere con la natura e con la sessualità (e quindi con l’uomo), in realtà esprime anche una fase ulteriore della maturazione che, passata attraverso I racconti di Canterbury, approderà, di lì a poco, a quella negazione della natura e della sessualità che è Salò. Pur essendo incontestabile il fatto che sia il secondo film della trilogia quello che presenta più analogie con l’opera postuma di Pasolini, è altrettanto vero che Il fiore delle Mille e una notte, nella sfolgorante e intensissima riaffermazione del mondo che è scomparso, ha tutto il carattere di un congedo definitivo, un definitivo abbandono di quei corpi e di quei luoghi in favore del nulla, il nuovo, l’incubo.
Dall’assolutezza onirica di questo film, da quell’aurea di conciliazione con l’esistente che lo permea, e soprattutto dalla mancanza di rigide divisioni tra episodi, deriva una degli aspetti salienti del Fiore delle Mille e una notte nei confronti degli altri due film; ovvero il suo carattere monocorde, l’esistenza di uno stesso registro che, lungi dall’essere un difetto, resta sotteso ad ogni racconto. Non esiste più, come invece accadeva per Il Decameron, quel brioso trascolorare del registro stilistico lungo tutta la durata del film; ma, d’altro canto, non si ha nemmeno quella disgregazione del film in diverse gemme, di diversa qualità e diverso taglio, che avveniva nei Racconti di Canterbury .
Sotto molti aspetti, si può dire che il fatto che Pasolini abbia rinnegato, nell’Abiura, i suoi tre film non deve sorprendere più di tanto. Infatti l’Abiura è presente in germe fin dal momento stesso in cui Pasolini progettò la Trilogia della vita. Nella rievocazione nostalgica di un passato scomparso attraverso il corpo e il sesso del popolo, già si leggevano, in controluce, le necessità del futuro rinnegamento di questa rievocazione; l’Abiura, insomma, può essere considerata paradossalmente come una "condizione necessaria" all’esistenza stessa della Trilogia della vita.
Ma una risposta alla domanda che pongo nel titolo di questo paragrafo, richiede un esame della trilogia lungo la prospettiva che parte da Salò e si proietta retrospettivamente.
Sulla scorta delle interpretazioni che si sono date, alla luce di quanto si è detto a proposito dei singoli episodi, delle intere opere e delle relazioni tra i film stessi, è legittimo ritrovare un ceppo comune che permetta di accomunare questi tre film con Salò o le centoventi giornate di Sodoma? Si può inoltre parlare, in luogo di Trilogia della vita, di Tetralogia della morte?
È indubitabile (si è cercato di dirlo più volte) che, da un certo punto di vista, i tre film possano essere considerati come le tappe consecutive che portano a Salò; inoltre, in alcuni casi, si è ravvisato come (soprattutto nei Racconti di Canterbury) fossero presenti riecheggiamenti sadiani più o meno vaghi. Ma questa similitudine fra alcuni elementi e, soprattutto, la "consecutività" del rapporto con l’ultimo film pasoliniano andrebbero, secondo me, limitate solamente al piano di una netta opposizione tra le due parti in causa. Se è vero, infatti, che la trilogia costituisca il preludio di Salò, è altrettanto vero come quest’ultimo si ponga, nei confronti dei film che lo hanno preceduto, come la loro negazione, come l’effetto della loro abiura.
Inoltre, il far rientrare Salò all’interno di un gruppo di film (pur se in una posizione peculiare rispetto agli altri) ne limita l’effetto dirompente e la programmatica inassimilabilità. È sintomatico di ciò, il fatto che Salò abbia creato attorno a sé uno spazio vuoto, che non abbia generato alcun filone o nuovo corso, ma che si erga, nella metà esatta di un decennio, come l’estrema tra le pietre d’inciampo; forse inascoltata, forse fraintesa, ma certamente non assimilabile da nessun potere, per quanto assoluto.
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio Frangini
Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
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