"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Qui l'indice del lavoro
"Jo i mi vuàrdi indavòur, e i plans
i paìs puòrs, li nulis e il furmìnt;
la ciasa scura, il fun, li bisicletis, i reoplàns
ch’a passin coma tons: e i frus ju vuàrdin;
la maniera di ridi ch’a ve dal còur;
i vuj che vuardànsi intòr a àrdin
di curiositàt sensa vergogna, di rispièt
sensa pòura. I plans un mond muàrt.
ma i no soj muàrt jo ch’i lu plans.
Si vulìn zì avant bisugna ch’i planzìni
il timp ch’a no’l pòs pì tornà, ch’i dizìni di no
a chista realtàt ch’a ni à sieràt
ta la so preson…
Io mi guardo indietro, e piango i paesi poveri, le nuvole e il frumento; la casa scura, il fumo, le biciclette, gli aeroplani
che passano come tuoni: e i bambini li guardano; il modo di ridere che viene dal cuore; gli occhi che guardandosi intorno ardono di curiosità senza vergogna, di rispetto
senza paura. Piango un mondo morto. Ma non son morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo di no
a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione…"
Se, come si è detto, nonostante gli stridenti contrasti e le distruzioni che ne marcavano la «via dello sviluppo», l’Africa poteva ancora costituire "l’unica alternativa" dell’autore de "La religione del mio tempo" per la presenza di enclaves escluse o che si autoescludevano – i Beja sudanesi o i Tuareg – dal cambiamento in senso industriale o dall’allineamento al commercio neocoloniale; era in Italia che Pasolini viveva il suo "universo orrendo" calato com’era nella "prassi consumistica e edonistica" di un paese che, a differenza delle nazioni europee più progredite, non aveva avuto nella sua storia altre rivoluzioni che quella neocapitalistica – "la prima, vera rivoluzione di destra" – cui era giunto in meno di un decennio, in modo che all’inevitabile sviluppo, legato al nuovo sistema di produzione, non poté legarsi anche la "compensazione" di un autentico progresso civile e sociale. Il Paese che con la "pura luce" della Resistenza e delle lotte contadine, ma anche con "gli allegri e feroci" abitanti delle borgate romane, aveva nutrito l’apprendistato poetico ed esistenziale del poeta di Casarsa, ora si presentava mostruoso ed irriconoscibile a chi lo aveva amato in maniera assoluta e straziante.
A conferma del fatto che fosse soprattutto l’Italia il centro oscuro dell’universale lamento pasoliniano, vi è l’evoluzione del rapporto tra il personaggio Pasolini e la società italiana in quegl’anni; dal periodo dei suoi contributi sul «Tempo» fino alla collaborazione cruciale con il «Corriere della Sera» del 1973, Pasolini diventò sempre di più una sorta di intellettuale-profeta al centro dei dibattiti più scottanti nel panorama politico e sociale, oltre che naturalmente culturale, gettando "il proprio corpo nella lotta" mettendo reiteratamente in atto, di volta in volta, la pubblica crocifissione di un artista. Lo stile dei suoi articoli, come sempre precisi e cristallini, assume le connotazioni della predica, della profezia, ripetendo in più interventi, consapevolmente, i punti focali e dolenti del suo pensiero e della sua passione. Recensisce le sue poesie, partecipa a convegni, scrive e rilascia dichiarazioni alle riviste più disparate: a «L’Espresso», «Il Mondo», «Epoca» ma anche a «Playboy», «Grazia», «Vogue Italia», quasi che la sua «ansia di predicazione» temesse il silenzio come l’unica e vera morte di un poeta.
4.1. Contro l’irrealtà
Dopo la "derealizzazione" operata dal neocapitalismo non rimaneva più nulla delle classi popolari e del loro mondo, spazzate via dalla nuova civiltà borghese. Rimaneva solamente un patetico relitto, un unico ricordo: il Corpo.
"In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura – e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e della contestazione ad essa – mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi ad una cultura del passato popolare e umanistico – in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo. Era in tale realtà fisica – il proprio corpo –che l’uomo viveva la propria cultura"
Questo vuol dire che nei giovani del popolo, assimilati e infelici, resi quasi afasici dal vuoto culturale in cui vivono, immemori com’erano della cultura dei padri da poco scomparsa eppur così lontana, è il corpo che parlava in loro vece del loro essere e del loro passato, e ancora li distingueva dai figli della borghesia come se appartenessero ad una razza diversa. I figli degli operai e dei braccianti, operai e braccianti essi stessi oppure studenti o emigrati, pur nella mistificazione dovuta alla loro ansia di conformismo che li faceva mascherare da piccolo-borghesi, conservavano ancora attraverso "il linguaggio muto delle cose" la realtà fisica del loro corpo sopravvissuta, ancora per qualche tempo, alla rivoluzione antropologica.
"Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere"
Assieme a questa realtà fisica permaneva il ricordo del rapporto con il sesso che il popolo aveva sempre avuto nella sua storia; spontaneo ed autentico, quindi privo della "dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che [avevano] i giovani della borghesia"; spontaneità ed autenticità che non devono essere necessariamente intese come sfrenatezza, infatti:
"Il popolo può essere anche casto, e condurre una vita monacale. Ma – almeno fino a pochi anni fa – non era diviso dal proprio sesso. La morale dell’onore, nel meridione, non avviliva o rimuoveva il sesso: anzi, lo esaltava. E così, del resto, la repressione esercitata dalle classi al potere. Castità e violenza sessuale erano viste con naturalezza. I tabù creavano ostacoli, non dissociazioni"
Ed è in questa visione della corporeità popolare che sta la chiave di volta della realizzazione della Trilogia della vita, la ragione principale di questo cambiamento nella produzione pasoliniana: la realtà fisica era tutto ciò che rimaneva del "poetabile" per una cultura, la cultura umanista di Pasolini, che era finita come il mondo di cui era espressione. Nel 1973, quando la scelta della Trilogia era un fatto del passato, e già la realtà sociale e il pensiero pasoliniano erano in una fase ulteriore della maturazione che lo avrebbero condotto all’Abiura e a Salò, Pasolini parlando retrospettivamente delle ragioni artistiche sottese alla sua produzione recente disse:
"Il popolo è giunto con un po’ di ritardo alla perdita del proprio corpo. Fino a pochi anni fa (quando io pensavo al Decameron e alla susseguente Trilogia della vita) il popolo era ancora quasi completamente in possesso della propria realtà fisica e del modello culturale a cui essa si configurava. Per un regista come me, che avesse intuito che la cultura (in cui egli si era formato) era finita, che non dava più realtà a nulla, se non appunto (forse) alla realtà fisica, era naturale conseguenza che tale realtà fisica si identificasse con la realtà fisica del mondo popolare"
Oltre a questa "naturale conseguenza", alla base della Trilogia c’era, secondo Pasolini, anche una motivazione esistenziale oltre che ideologica, ossia la "perdita di ogni speranza". Questa perdita derivava in primis dalla lucida constatazione della "fine della storia", nel senso che la rottura insanabile, funzionale alla creazione di "un’enorme quantità di consumisti", che era stata operata tra il mondo dei padri e quello dei figli, ne aveva interrotto il rapporto dialettico, in modo tale che:
"…la storia, che va avanti, almeno secondo le nostre abitudini culturali, solo dialetticamente, nel momento in cui tale rapporto cessa, si interrompe e si trova ad andare indietro"
e, in secondo luogo, dalla constatazione esistenziale del fatto di aver avuto "un futuro che sta cominciando ad essere passato", cioè dalla "ragione anagrafica" del superamento, operato dal sopraggiungere della vecchiaia, del periodo in cui ancora "si può credere in qualcosa" per giungere a non "credere più in nulla". Questo stato d’animo, come si vedrà più avanti, non implicava, però, una cessazione dell’impegno – l’artista deve per sua natura essere "sulla linea del fuoco" – ma la perdita della speranza in questo impegno e nel futuro (che lasciava intatta ai giovani). Ecco come Pasolini esprimeva la sua posizione attraverso la solita "apparente contraddizione":
"…bisogna, secondo me, essere molto realistici. E finché si è giovani o finché si è uomini nell’età piena, ci si può anche credere ed è giusto che vi si creda. Perciò sarei sciocco se dicessi ancora di credervi: però mi comporto come se ci credessi."
Ma la vecchiaia e la perdita di ogni speranza portavano con loro, secondo le parole del regista, dopo un primo momento di umorismo (Porcile) che implicava il distacco ironico dalla "materia", anche una "gran voglia di ridere", una gaiezza che permetteva di godere la vita nel fiorire del suo presente:
"L’esorcizzazione della passione ha prodotto una gran voglia prima di sorridere (magari atrocemente, come in Porcile), poi più cordialmente, fino a farsi a vera e propria voglia di ridere: è stata una gran voglia di ridere che ha ispirato il Decameron.
La gran voglia di ridere nasce dal definitivo accantonamento della «speranza», come e sempre retorica. Sono privo, praticamente e ideologicamente, di ogni speranza. Quindi di giustificazioni, di possibilità di alibi, di procrastinazioni.
Finalmente, vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani (che non sarà una sintesi ma una nuova opposizione) mi godo un po’ di libertà e di vita…"
"…col Decameron (almeno nel girarlo) non si tratta più di umorismo e di distacco dalla materia: si tratta proprio di gioco (…) Si vede che la perdita della fede (che è sempre stupida) mi ha dato inizialmente un trauma; ma poi, con la perdita totale della fede (nella storia, s’intende) ho ritrovato una gaiezza, sì, una gaiezza che non ho mai avuto e quindi non ho mai perduto"
Quindi, perlomeno stando alle dichiarazioni pasoliniane, la Trilogia della vita, almeno nel periodo in cui era stata concepita, aveva tra le sue spinte creatrici quella "fisiologica" del godimento esistenziale e della gaiezza non limitate ad un velleitarismo nostalgico ma scaturite dalla lucida e spietata constatazione di non essere più tra coloro che "hanno un futuro" o la fede in esso. Alla gaiezza, al calarsi nella realtà e al giocare con essa, e di conseguenza la scoperta del cinema come gioco o del "giocare col cinema", si accompagnava anche un "abbassamento di stile", che da lirico, e quindi «alto», com’era quello di gran parte della sua produzione precedente era diventato lo «stile medio» tipico della narrazione. Anche il "gusto del narrare", cioè il fatto di aver scelto tre celebri raccolte di novelle, era dovuta alla "necessità della gioia", così come attraverso la narrazione « l’allegra brigata» dimentica la peste a Firenze oppure Shahrazàd evita la morte:
"…il mio atteggiamento con la realtà, sì, è «crudelmente edonistico»; ed effettivamente nel Decameron che sto finendo, il narrare è ontologico: si narra per il gusto di narrare, o si rappresenta per il gusto di rappresentare."
Bisogna comunque tener presente, al di là del credere o meno alle affermazioni pasoliniane (ma perché non si dovrebbe?), quale fosse la matrice di questa "gaiezza" e volontà di "giocare", cioè la "fine di ogni speranza", e come si collocassero nel panorama ideologico-esistenziale di cui si è parlato finora. In altre parole bisogna verificare la valenza "ideologica" della Trilogia della vita, cioè se attraverso la nostalgica rappresentazione di:
"…un popolo ideale, con la sua miseria, la sua assenza di coscienza politica (è terribile dirlo ma è vero), di un popolo che ho conosciuto quando ero bambino…"
Pasolini si proponesse la fuga in un passato rivissuto esteticamente, quindi la diserzione di un intellettuale dalla "linea del fuoco", oppure fosse una continuazione coerente del suo impegno politico-sociale.
Come era già accaduto per i film della fine degli anni Sessanta, da Edipo re in poi, anche in occasione dell’uscita dei film della Trilogia a Pasolini venne, da più parti, contestata l’ennesima «evasione» e l’ennesimo «dietrofront compiuto da un artista per il gusto di giocare» nei confronti della realtà, inoltre, in un minor numero di casi e prevalentemente nella critica giornalistica, si vide in queste opere, visto l’enorme successo commerciale che ebbero i film della Trilogia, addirittura un cedimento alle leggi del mercato e una apertura, di un autore un tempo «elitario e difficile», verso il cinema di massa. Tralasciando quest’ultima critica, esageratamente "teppistica" e ricattatoria per essere presa in considerazione, la questione sulla connotazione ideologica da assegnare alla Trilogia della vita appare cruciale e feconda non tanto per testimoniare l’avvenuta o meno Trahison du clerc del Pasolini che «non faceva più i film come una volta», ma, chiaramente, per comprendere la poetica del regista.
"Probabilmente [il Decameron] ha significato dare corpo e peso ad una reazione a tutto il me stesso precedente, ed alla situazione storica che mi circonda. Questa mia reattività può correre il rischio di essere una forma di evasione. Non lo nascondo. Ma, in tal caso, si tratterebbe di una evasione così sottolineata e clamorosa e, in un certo senso, scandalosa che perderebbe il carattere della evasività. Cioè realizzare, in questo momento, un’opera allegra, comica, senza problemi impliciti, e il cui senso profondo è l’ontologia della realtà, il cui simbolo nudo è il sesso, significa fare un’opera che delude talmente le attese, e che, in qualche modo, si giustifica storicamente, anche nella mia carriera di autore «impegnato»"
La "delusione dell’attesa" dello spettatore era parte integrante della libertà che deve avere ogni autore – "libertà di scegliere la morte" o "esibizione della perdita di qualcosa di certo" – e quindi era proprio di un cinema "naturalmente impegnato" per definizione; inoltre si ripresentava, ancor più recisamente, il rifiuto del film "politico":
"La cosa meno gradevole di questi ultimi anni sono proprio i film di moda politici, questi film politico-romanzati che sono i film delle mezze verità, della realtà irrealtà consolatoria e falsa.
È una moda che mette a posto le coscienze e che invece di suscitare polemiche le assopisce. Quando lo spettatore non ha dubbi e sa subito, secondo la propria ideologia, individuare da quale parte stare nel film, allora vuol dire che è tutto è tranquillo: ma questa è finzione."
L’ideologia andrebbe dunque ricercata, oltre il mero contenuto, nella profondità dell’opera in sé, nel suo puro esserci hic et nunc in relazione al contesto storico-sociale in cui era nata e a cui, oltre le apparenze, si rifaceva; l’opera dunque sarebbe "contestatrice" e "rivoluzionaria" non per quel che dice ma per quello che è, come, ad esempio, un afroamericano, secondo Pasolini, era rivoluzionario anche solo in virtù della propria "negritudine", della propria diversità.
L’elemento più macroscopico di questa "contestazione ontologica" è, senza dubbio, la rievocazione del passato, visto nella duplice accezione di passato remoto - un medioevo popolare al di fuori di ogni dinamica storica (addirittura fantastico come in alcune parti dei Racconti di Canterbury o, soprattutto, nel Fiore delle Mille e una Notte) - oppure nell’accezione di passato prossimo – l’Italia popolare di qualche anno prima – comunque irrecuperabile ed appartenente ad "un’età sepolta". Questa semplice rievocazione, dunque, possiede una carica contestatrice solamente nel suo alludere ad una diversità scomparsa: la nostalgia, tradizionalmente regressiva e reazionaria, paradossalmente si trova ad avere un valore rivoluzionario e progressivo.
"Adesso, preferisco muovermi nel passato proprio perché ritengo che l’unica forza contestatrice del presente sia proprio il passato: è una forma aberrante ma tutti i valori che sono stati i valori nei quali ci siamo formati, con tutte le loro atrocità, i loro lati negativi, sono quelli che possono mettere in crisi il presente"
Ma l’elemento in cui si concentrava la forza del messaggio ideologico pasoliniano, e lo scandalo che questo avrebbe dovuto costituire nelle intenzioni del regista, era senza dubbio la rappresentazione del corpo e della corporalità popolare. Come è già stato detto, l’unica possibilità che rimaneva a Pasolini per rappresentare una realtà (La realtà) che si stava sfaldando inesorabilmente, proiettandosi nel passato remoto, era nella rappresentazione del corpo visto come ultimo retaggio di una cultura e di un mondo, e che sopravviveva, non per molto, alle trasformazioni distruttive operate dal neocapitalismo. Al corpo dunque erano delegate le principali possibilità di evocazione di un’alterità scomparsa, il cui "linguaggio muto" permaneva ancora nella realtà fisica del popolo. La rappresentazione del corpo implicava necessariamente quella del suo "simbolo nudo": il sesso, visto come sublime esaltazione della corporeità – almeno, come vedremo, inteso come eterosessualità – e come elemento basilare, e non dissociato, della realtà popolare.
La presenza ontologica del corpo e del sesso, il loro puro esserci e il solo fatto di rappresentare un’alterità in opposizione all’entropia neocapitalistica, costituiva "l’ideologia muta", ma non per questo meno efficace, implicita alla Trilogia della vita:
"L’ideologia nelle Mille e una Notte è profondamente nascosta, la si ricava non da quello che si dice esplicitamente ma dalla rappresentazione. Io faccio vedere un mondo, quello feudale, dove vive un eros particolarmente profondo, violento e felice, dove non c’è un uomo, anche il più misero degli accattoni, che non abbia profondo il senso della propria dignità. Io evoco questo mondo e dico: ecco, fate un confronto, io ve lo presento, ve lo dico, ve lo ricordo"
Infine, l’eros, oltre ad essere un elemento imprescindibile dell’ideologia dei film della Trilogia, era al centro della rappresentazione anche per ciò che aveva sempre rappresentato nella vita del regista:
"…i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente"
In questo capitolo ho voluto ricercare le modalità e le ragioni della realizzazione della Trilogia della vita; analizzando, molto schematicamente, i vari periodi della maturazione della cosiddetta, da alcuni, «ideologia populista» di Pasolini e, in un secondo momento, le dichiarazioni pasoliniane attorno alla Trilogia per comprenderne la poetica assieme all’ideologia. Tutto questo prescindendo rigorosamente da quella che è stata l’effettiva riuscita dei film, rimandando ai capitoli riguardanti le singole opere le considerazioni relative, ad esempio, alla particolare forma che assunse lo «stile medio» in Pasolini o all’effettivo concretarsi della "gran voglia di ridere".
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio Frangini
Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
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