"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
"La fedeltà è un bene, ma è un bene anche la leggerezza."
Questa frase non compare nel testo delle Mille e una notte, dove la parole pronunciate salvifiche dette da Azíz a Budur la pazza sono un banale: "La fedeltà è buona e l’inganno è cattivo"; ma, d’altro canto, la frase è assente anche nella sceneggiatura originale, dove si legge: "La fedeltà è bene, la leggerezza è male", dunque la sistemazione definitiva di questa frase, nella forma con cui compare nel film, deve essere avvenuta in un momento ulteriore del lavoro pasoliniano.
Questo vuol dire che, almeno in una fase preliminare, il rapporto tra leggerezza e fedeltà – che, in un certo senso, informa tutto l’episodio (e forse tutto il film) svelandone il significato e la morale interna – non era ancora un rapporto complementare (seppur di una complementarietà che sfiora l’ossimoro) ma era tutto giocato su una netta opposizione tra le due qualità. Di questa "tardiva modificazione" del testo delle Mille e una notte bisogna, dunque, tener conto qualora si voglia interpretare l’episodio ed analizzarne le dinamiche interne.
All’interno del racconto la fedeltà è chiaramente impersonata da Aziza - che nasconde il suo divorante amore per il cugino e la lenta morte a cui questo la conduce, per aiutarlo a conquistare Budur e ad essere felice - mentre la leggerezza si manifesta, altrettanto chiaramente, nel comportamento di Azíz, che si macera nell’amore per la bella sconosciuta e persegue ansiosamente il suo sogno, senza accorgersi minimamente delle condizioni della cugina.
L’indifferenza di Azíz, però, non è così candida come apparentemente potrebbe sembrare, ma risponde ad una precisa scelta morale: Azíz, in realtà, decide consciamente di fingere di ignorare l’amore di Aziza e di lasciarla a struggersi nella propria sofferenza. Illuminante, a tal proposito, è una scena che altrimenti apparirebbe piuttosto enigmatica. Azíz è appena ritornato da un ennesimo incontro con Budur e trova inaspettatamente sua madre:
Azíz: Dov’è Aziza?
Madre: È su in terrazza, tutta sola, che piange.
Azíz (meravigliato): Cos’ha?
Madre: Ma che cuore hai di lasciarla così, senza nemmeno chiederti di che male soffre!
Azíz resta per un attimo sovrappensiero, poi esce correndo in terrazza.
Come vede Aziza, Azíz fa finta di ignorarla. Si siede col viso rivolto verso i tetti della città.
Aziza (dolcemente): Azíz! Azíz! Allora Azíz, le hai recitato quei versi? [si riferisce a quei versi che Aziza chiede, ogni volta, ad Azíz di ripetere a Budur]
Azíz: Sì! E lei mi ha risposto con questi versi: «Chi ama deve nascondere il proprio segreto e rassegnarsi».
Aziza (chinando la testa come se proseguisse il discorso): «Egli ha cercato di rassegnarsi, ma non ha trovato in sé che un cuore disperato dalla passione». Domani mattina, quando la lasci, recitale i versi che ho detto ora. Hai capito?
Azíz: Sì… sì…
L’attimo in cui Azíz resta pensieroso, e il modo quasi risentito con cui sopravanza Aziza e va a sedersi sul limite della terrazza per gettare uno sguardo panoramico sulla città, tradiscono la "malafede" del giovane e la mancanza di innocenza da parte della sua leggerezza.
Ma questa leggerezza, comunque, è fonte di bellezza, è fonte di grazia e permette ad Azíz, quando Budur decide di ucciderlo, di salvarsi la vita per ben due volte (anche se la seconda gli costerà la perdita della virilità).
A questa leggerezza, come si è detto, ribatte la fedeltà disumana di Aziza, che immola se stessa nel tentativo di appagare il desiderio del cugino per la bella sconosciuta. Nel suo sentimento assoluto e silenzioso, e nella struggente mansuetudine delle sue azioni, Aziza ricorda il personaggio di Lisabetta del Decameron; come per la ragazza innamorata di Lorenzo, infatti, il pianto di Aziza rimane concentrato e nascosto nella limpidità dei suoi occhi azzurri, e nella lucida constatazione (liricamente intensissima) di quel "Io morirò" pronunciato, con voce sommessa ma chiara, mentre sta vegliando sul sonno di Azíz.
Questo discorso sulla fedeltà e sulla leggerezza si complica ulteriormente se ci si sofferma a pensare, anche per un attimo, che la parte di Azíz è interpretata da Ninetto Davoli; e se si ricordano i versi (già citati, a proposito dell’episodio del Racconto del Cuoco nel capitolo precedente) di due sonetti scritti solo pochi mesi prima delle riprese del Fiore delle Mille e una notte:
" (…)
Siete o non siete un altro, mio tremendo
Signore che non sa cosa gli capita?
Sempre ci si perde, anche senza proprio morire:
lo sapevamo – io pedante, voi leggero.
(…)"
" (…)
Quel bene hai voluto distruggerlo;
piano piano, con le tue stesse mani;
gaiamente: te n’è rimasto
un fondo, inalienabile: mi sfugge
il perché di tanta furia nel tuo animo
contro quel nostro amore così casto."
È davvero piccolo lo sforzo che si deve fare per immaginare questi versi pronunciati dalla piccola Aziza, così come compare all’interno del film; e altrettanto piccolo è lo sforzo che occorre per vedere in quel "tremendo Signore che non sa cosa gli capita" e che, "leggero", distrugge "gaiamente" quell’amore "così casto", il ritratto di Azíz che, gaio e nel contempo crudele (perché non innocente), è trascinato via prepotentemente dal desiderio per Budur.
Ma mentre nei Racconti di Canterbury Pasolini aveva interposto tra sé e Ninetto lo schermo codificato della citazione chapliniana, in questo caso il regista riesce ad affrontare senza filtri interposti la materia del racconto, e ad approdare al lucido e sublimato riconoscimento che, se la fedeltà è un bene, allora lo è anche la leggerezza; e, dunque, se è vero che Ninetto ha scelto di "obbedire" - come dice Pasolini rivolgendosi a lui in un sonetto qui non riportato - "a un destino che vi vuole povero", è altrettanto vero che non è "scomparso dalla vita" del poeta, ma gli rimane accanto con la sua "lieve gaiezza" così diversa, ma anche così necessaria, alla "fedeltà" pasoliniana verso "quel nostro amore così casto".
Sotto il segno duplice della leggerezza e della fedeltà (ma solo fino a un certo punto) può essere vista la vicenda di Zumurrud e Nur ed-Din; infatti, alla costante resistenza che la ragazza oppone a chi vuole dominarla e possederla, sembrerebbe contrapporsi la leggerezza di Nur ed-Din nel soddisfare le richieste delle donne che incontra nel suo peregrinare in cerca dell’amata schiava. Dico "sembrerebbe" perché le azioni dei due giovani sono, in realtà, guidate dal diverso e contrario presentarsi della fortuna e dal diverso atteggiamento richiesto da ciò che è tratto in sorte. Zumurrud, infatti, deve continuamente affrontare personaggi o situazioni ostili: il furioso Rashid, Giawan il ladro curdo, il pericolo di essere uccisa qualora venisse scoperta la sua reale identità quando si spaccia per Wardan, eccetera; mentre tutti gli incontri che fa Nur ed-Din (a parte il malvagio Barsum il cristiano all’inizio dell’episodio) sono di donne benefiche che lo aiutano nella sua ricerca di Zumurrud o che lo accolgono quando è prostrato dalla stanchezza e dalla sofferenza. Il rapporto sessuale con queste è visto come un gioioso ringraziamento e un temporaneo risollevamento dell’animo a cui segue, ben presto, l’angoscia per la mancanza dell’amata.
Significativo, in tal senso, è un brano della sceneggiatura originale, in cui si descrive il risveglio di Nur ed-Din dopo l’amore con Munis e le sue sorelle:
"Dopo l’amore si sono addormentati. Anche Nur ed-Din: ma solo per poco. Infatti quando è ancora buio e non si sentono più rumori, si sveglia d’improvviso come per un cattivo sogno. Si guarda intorno. Vede le tre donne addormentate. Vede il suo corpo nudo, i suoi vestiti sparsi per la stanza. L’ubriachezza gli è passata, il sogno è finito ed egli si mette a piangere. Si alza, afferra i suoi vestiti, se li infila in fretta e furia e scappa fuori singhiozzando e chiamando a voce alta Zumurrud."
La leggerezza di Nur ed-Din, dunque, è molto relativa e i suoi numerosi incontri sessuali (per altro assenti nel testo delle Mille e una notte) non sono altro che delle tappe verso la sua fedele ricerca della schiava amata solo per una notte.
La fedeltà di Zumurrud, d’altro canto, è resa live dalla prontezza d’animo con cui risponde ai mutamenti della sorte; basti pensare, ad esempio, al mutamento repentino che avviene sul suo viso quando, portata da Giawan al covo dei ladri, il suo rapitore si allontana lasciandola sola con l’anziano padre dei curdi: solo un attimo prima coperta dalle lacrime, solleva il volto sorridente (per ingraziarsi il vecchio) e dice: «Scommetto che hai la testa piena di pidocchi… eh? Se vuoi, ti spidocchio un po’ Vuoi? Eh? Vuoi?»; oppure si pensi al dialogo che intrattiene (spacciatasi per un uomo) con il Visir della città in mezzo al deserto, quando questi gli chiede di sposare la figlia:
Zumurrud sta per passare la soglia del palazzo, quando viene fermata dal Visir. Visir: Prima di essere incoronato, dovrai prendere moglie. Eccola lì, mia figlia. (la indica) Zumurrud (imbarazzatissima): E chi ti ha detto che ho voglia di prendere moglie? Visir: L’usanza vuole così. Se disobbedisci sarai gettato dall’alto della torre. Zumurrud (convinta): Allora sia fatta la volontà di Dio!
Si può dire, dunque, che nell’episodio di Zumurrud e Nur ed-Din il rapporto dialettico e complementare tra leggerezza e fedeltà si complichi ulteriormente intrecciandosi profondamente alle figure dei due protagonisti, secondo le modalità tipiche della sineciosi pasoliniana:
"La libertà sessuale è necessaria alla creazione? Sì. No. O forse sì. No, no, certamente no. Però… sì. No è meglio no. O sì? Ah, incontinenza meravigliosa! (Ah, meravigliosa castità.)"
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio Frangini
Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
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