Perché la Trilogia della vita?
Qui l'indice del lavoro
1. Introduzione.
Secondo Naldini, dunque, sin dall’inizio dell’attività registica il "disperato" e "sacrale amore per la realtà" del poeta di Tal còur di un frut per il mondo arcaico e contadino di Casarsa o dell’autore di Ragazzi di vita per le borgate preistorico-moderne della "città di Dio" era già stato profanato, e quindi sconsacrato, dal dilagare apparentemente inarrestabile dell’assolutismo neocapitalista. Il Friuli "di cà de l’aga" con i suoi paesaggi era ormai lontano, e così la "pura luce" della Resistenza e la "scoperta" prima del comunismo e poi di Marx avvenuta durante i giorni delle lotte contadine per l’attuazione del lodo De Gasperi. Giorni che saranno poi ricordati, fra l’altro, nel romanzo Il sogno di una cosa e in Poesia in forma di rosa:
"…Dio!, belle bandiere degli Anni Quaranta! A sventolare una sull’altra, in una folla di tela Povera, rosseggiante, di un rosso vero, che traspariva con la fulgida miseria delle coperte di seta, dei bucati delle famiglie operaie- e col fuoco delle ciliegie, dei pomi, violetto per l’umidità, sanguigno per un po’ di sole che lo colpiva, ardente rosso affastellato e tremante, nella tenerezza eroica d’un immortale stagione"
Lontana era Casarsa fuggita assieme alla madre, "come in un romanzo", nel gennaio del 1950, a seguito dello scandalo di Ramuscello, ma lontana sarebbe stata anche, sempre secondo Naldini, la città scoperta all’alba di quel decennio fondamentale nella carriera dell’artista, che "povero come un gatto del Colosseo", un disperato "di quelli che finiscono suicidi" si aggirava per Roma, le sue borgate:
" …dove credi che la città finisca, e dove invece ricomincia, nemica, ricomincia per migliaia di volte, con ponti e labirinti, cantieri e sterri, dietro mareggiate di grattacieli, che coprono interi orizzonti"
Quella Roma millenaria e modernissima, imperiale e barocca, che divenne ben presto il centro assoluto dell’universo esistenziale e poetico di Pasolini, proiettando sempre più sullo sfondo della memoria il Friuli contadino:
"Stupenda e misera città, che m’hai insegnato ciò che allegri e feroci gli uomini imparano bambini, le piccole cose in cui la grandezza della vita in pace si scopre,…""Ero al centro del mondo, in quel mondo di borgate tristi, beduine, di gialle praterie sfregate da un vento sempre senza pace, venisse dal caldo mare di Fiumicino, o dall’agro, dove si perdeva la città fra i tuguri; in quel mondo che poteva soltanto dominare, quadrato spettro giallognolo nella giallognola foschia, bucato da mille file uguali di finestre sbarrate, il Penitenziario tra vecchi campi e sopiti casali."
Passati e come appartenenti ad un'altra epoca sarebbero stati anche i "viventi", i protagonisti dei racconti e dei romanzi romani: gli "aristocratici" abitanti di Trastevere, i borgatari dei quartieri creati nella periferia in seguito agli sventramenti fascisti degli anni Trenta, ma soprattutto i sottoproletari delle baracche all’estrema periferia romana, immigrati da poco dal Sud e mescolati, con la loro cultura mitico-ancestrale di contadini, al mondo drammatico e spietato della Grande Città. Per Pasolini gli abitanti della capitale del cattolicesimo erano in realtà pagani, toccati dal Cristianesimo solo superficialmente (nelle pratiche rituali e superstiziose) avevano piuttosto una filosofia cinico-stoica, sopravvissuta a diciassette secoli d'evangelizzazione, e una morale basata sull’onore invece che sulla Pietas cristiana - tipica invece degli alti-italiani come il poeta di Casarsa - vivevano in un mondo parallelo e toccato solo marginalmente dal mondo borghese. Anzi, forti della loro cultura antica e sempre viva – ne è testimone la vivacità del dialetto-gergo che continuamente mutava e si rinnovava – disprezzavano come inetti i "signorini", i "farlocchi", i "figli di papà".
Sempre in Squarci di notti romane Pasolini scriveva:
"Questa Roma non del 1950 ma dell’ultimo istante, dell’ultimo vaffanculo gridato dal ragazzo che passa per il lungotevere infebbrato con la camicia bianca già sbottonata – questa Roma così ultima e vicina che solo chi la vive in piena incoscienza è capace di esprimerla… tutti sono impotenti davanti a lei, il papa o Belli redivivo, tutti arrossiscono davanti alla sua bellezza troppo nuda, al modo di dire nato la sera stessa, al mutamento di tono, leggerissimo ma bruciante già d’una nostalgia ossessiva, nel gridare una frase che il dialetto presenta da qualche secolo come impossibilitata a qualsiasi mutamento…"
Questa città e i suoi abitanti già all’inizio degli anni Sessanta, dunque, avrebbero incominciato a corrompersi profondamente dal di dentro, rimanendo se stessi solo nell’immagine, nelle fisionomie dei vicoli e dei visi, perdendo man mano l’originalità del loro linguaggio verbale per mantenere solamente il linguaggio del corpo. Per effetto di questa corruzione, rappresentabile emblematicamente dall’inurbamento delle famiglie delle baraccopoli nei palazzi-lager dell’ina-case, nei sottoproletari romani scompaiono, come in un precipitato chimico, gli elementi "non assimilabili" che costituivano la loro diversità – e, secondo Pasolini, la loro salvezza – e rimangono solamente i corpi muti, uniche testimonianze veritiere di un passato non recuperabile. Quindi la scelta del medium cinematografico da parte di Pasolini sarebbe stata indotta quasi forzatamente da questo mutamento, anche se recepito inconsciamente, dell’oggetto poetico, che avrebbe avuto nell’immagine l’unica possibilità di essere espresso e mantenuto in vita; Franco Citti, Ettore Garofalo avrebbero dunque offerto in Accattone e in Mamma Roma non il loro essere sottoproletario e vivente nella sua interezza, ma unicamente il loro apparire, il puro segno visivo, magari riscattato esteticamente dalla citazione o ispirazione dotta - il Ragazzo con canestro di frutta di Caravaggio, Masaccio, ecc. - perché il loro vissuto era ormai diventato altro rispetto a quello della generazione precedente, o anche di solo quattro o cinque anni prima, che era scomparso o stava morendo di fronte alla violenza dell’offensiva del mondo nuovo.
Qui sta il fascino della tesi di Naldini, ma, secondo me, anche il suo limite.
Il fascino maggiore di quest'opinione sta nel rispondere ad una domanda comune sull’opera pasoliniana - cioè per quale ragione Pasolini abbia incominciato a fare cinema - in maniera originale e suggestiva, annettendo alle motivazioni artistiche e poetiche anche una componente ideologica: la constatazione della metamorfosi sociale in atto. Ma l’errore di questa affermazione sta nel considerare sincronici i vari momenti della maturazione del pensiero pasoliniano; si potrebbe dire che Naldini guardi al Pasolini dei primi anni Sessanta attraverso gli occhi del Pasolini degli anni del Caos, o addirittura al Pasolini "corsaro" e "luterano" degli anni Settanta; in altre parole dà come compresenti quegli elementi di critica sociale e politica che caratterizzeranno invece affermazioni posteriori come quelle dell’Articolo delle lucciole o «Il mio Accattone in Tv dopo il genocidio». Basta prendere in mano un brano qualsiasi del dialogo con i lettori che Pasolini intrattenne sul settimanale "Vie Nuove" dal 1960 al 1965 per rendersi conto che, nonostante il distacco progressivo degli ultimi anni, credeva ancora nella "purezza" e nella "santità" del proletariato, nella fattispecie proletariato comunista, e dunque poteva ancora amarlo:
"Io, cupo d’amore, e, intorno, il coro
dei lieti, cui la realtà è amica.
Sono migliaia. Non posso amarne uno.
Ognuno ha la sua nuova, la sua antica
bellezza, ch’è di tutti: bruno
o biondo, lieve o pesante, è il mondo
che io amo in lui…"
Questo non vuol dire che Pasolini ignorasse i mutamenti che stava subendo il mondo che amava; il boom economico cominciava, in Italia, la sua fase di assestamento e l’emigrazione nel Meridione stava spopolando interi paesi, e alla desertificazione demografica si affiancava quella culturale. Anche i paesi del Terzo Mondo liberandosi in quegli anni dal colonialismo diventavano "paesi in via di sviluppo" scegliendo l’opzione industriale. Coevi ai precedenti, dunque, sono questi versi:
"Ché
io, del Nuovo
Corso della Storia
- di cui non so nulla – come
un non addetto ai lavori, un
ritardatario lasciato fuori per sempre -
un sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea di uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro, …"
io, del Nuovo
Corso della Storia
- di cui non so nulla – come
un non addetto ai lavori, un
ritardatario lasciato fuori per sempre -
un sola cosa comprendo: che sta per morire
l’idea di uomo che compare nei grandi mattini
dell’Italia, o dell’India, assorto a un suo piccolo lavoro, …"
oppure:
"… Non sapete? Proprio insieme al Barocco del Neo-Capitalismo incomincia la Nuova Preistoria"
Ma è proprio nell’ambiguità del concetto di "Nuova Preistoria" che il Pasolini dei primi anni Sessanta si differenzia da quello posteriore, questa "Nuova Preistoria" non è ancora, o non lo è del tutto, il mondo senza storia dell’entropia borghese ma è il mondo nuovo successivo alla deflagrazione terzomondiale. Nella Ricotta Orson Wells citando Pasolini recita:
"…O guardo i crepuscoli, le mattine su Roma, sulla Ciociaria, sul mondo, come i primi atti della Dopostoria, cui io assisto per privilegio d’anagrafe, dall’orlo estremo di qualche età sepolta…"
ma soprattutto nella Profezia di Alì dagli occhi azzurri Pasolini diceva:
"…deponendo l’onestà delle religioni contadine, dimenticando l’onore della malavita, tradendo il candore dei popoli barbari, dietro ai loro Alì
dagli Occhi Azzurri – usciranno da sotto la terra per uccidere - usciranno dal fondo del mare per aggredire – scenderanno dall’alto del cielo per derubare – e prima di giungere a Parigi
per insegnare la gioia di vivere, prima di giungere a Londra per insegnare a essere liberi, prima di giungere a New York, per insegnare come si è fratelli- distruggeranno Roma e sulle sue rovine deporranno il germe della Storia Antica. Poi col Papa e ogni sacramento andranno su come zingari verso nord-ovest con le bandiere rosse di Trotzky al vento…"
Ancora nel 1964 nel risvolto di Poesia in forma di rosa Pasolini indicava il motivo fondamentale di questa opera come il: "tentativo stentato di identificare la condizione presente dell’uomo (diviso in due Razze, ormai, più che in due Classi) come l’inizio di una Nuova Preistoria", dunque le "due Razze" vivevano ancora ben distinte ed inconciliate. Sempre di quegli anni sono i viaggi all’estero: nel ’61 in India – Bombay, Nuova Delhi, Calcutta – con Alberto Moravia ed Elsa Morante, quindi, nello stesso anno, in Kenia e a Zanzibar; nel ’62 trascorre il mese di gennaio in Egitto, Sudan, Kenia e Grecia; infine nel ’63 è nello Yemen, in Kenia, Ghana e Guinea; di quell’anno è, inoltre, la stesura della sceneggiatura del film: Il padre selvaggio, che doveva essere ambientato in Africa, e che non sarà mai girato per ostacoli produttivi conseguenti al processo per vilipendio alla religione della Ricotta. Pasolini comincia a viaggiare, e le borgate romane si allargano fino a diventare il Terzo Mondo intero, forse perché la periferia romana inizia ad andargli stretta e ad essere troppo simile a quella di qualsiasi altra periferia del mondo occidentale.
In un’intervista del 1967 Pasolini ormai affermava:
"Ebbene la realtà che prima mi interessava, intendo dire il sottoproletariato romano delle borgate, sta cambiando rapidamente, non lo riconosco più. Il sottoproletariato romano che prima era solo esistenzialmente reale, ma non aveva una realtà storica, oggi sta diventando una frazione del Terzo Mondo."
Ma questo è solo l’inizio di un processo e, d’altra parte, l’intervista appartiene ad un periodo conseguente nell’itinerario pasoliniano di "presa di coscienza".
Riassumendo si potrebbe dire che nei primi anni Sessanta era ancora viva in Pasolini l’illusione, perché poi si rivelerà tale, di una possibile salvezza palingenetica, per quanto contraddetta e lontana da essere postulata dogmaticamente, proveniente dai "Regni della Fame" verso l’occidente civilizzato; l’amore per il corpo è ancora amore "per il mondo che c’è" [e non "c’era"] in esso. Questo sogno palingenetico e questo amore degno di "una forza del passato" era chiaramente eterodosso rispetto al pensiero marxista tradizionale, di fronte alla cui istituzionalità Pasolini aveva da sempre avuto un atteggiamento critico e complesso, come nei famosissimi versi delle Ceneri di Gramsci:
"Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere con te e contro te; con te nel cuore, in luce, contro te nelle buie viscere;"
Ma, d’altro canto, pur avendo acuito all’inizio del decennio la propri eterodossia arrivando a rinnegare parte della sua precedente attività culturale – è di quegli anni il grido: "ABIURO DAL RIDICOLO DECENNIO!"(riferendosi agli anni Cinquanta) di Poesia in forma di rosa – Pasolini rifiutò sin dai primi momenti la parola d’ordine del "disimpegno" che caratterizzava, in ambito culturale, gli anni del boom economico e della crisi delle ideologie. In particolare Pasolini si schierò decisamente contro la cosiddetta "neoavanguardia", raccolta in Italia principalmente attorno al Gruppo ’63, la quale rifiutava l’ideologia come chiave interpretativa della realtà e si proponeva di superare la letteratura degli anni Cinquanta negandone le strutture classiche e, rifacendosi alle avanguardie storiche, demistificando, attraverso la sperimentazione, il linguaggio tradizionale che, in un periodo di mercificazione letteraria e di riproducibilità tecnica, era divenuto irrimediabilmente logoro ed incapace di farsi portatore di significati. In qualità di esponente di punta della cultura del decennio precedente e in quanto erede della tradizione "umanista", Pasolini era direttamente coinvolto in questa "iconoclastia desacralizzante", ma oltre a questo coinvolgimento personale l’autore di Una vita violenta accusava i neoavanguardisti della svalutazione, in campo letterario, della cultura precedente, classica e più recente, e dell’accettazione-integrazione, attuata con "cinismo ed eleganza", dei nuovi valori, pur se ancora indefiniti, della tecnica e dell’industria culturale, in altre parole quelli del neocapitalismo.
Dunque già nei primi anni Sessanta Pasolini avvertiva la mutazione che stava subendo il capitalismo classico e ne rifiutava, da intellettuale marxista ancora "impegnato" le nuove idee e le nuove sirene.
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio FranginiRelatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
Fonte:
http://www.ilcorto.it/iCorti_AV/TESI_Fabio%20Frangini.htm
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