"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
1. Pasolini e Chaucer.
"Ho raccontato queste storie solamente per il piacere di raccontarle. Il piacere di raccontare storie implica un giocare con ciò che si narra, e questo giocare implica una certa libertà riguardo alla materia. Questa libertà di fronte alla materia richiede che la ricostruzione di Chaucer sia di fantasia, e che non debba essere usata come pretesto per la ricostruzione di un periodo storico. La storia in questo film è strettamente di fantasia. Perciò devo dimenticare Chaucer per poter fare il film come un mio gioco di fantasia, un mio gioco personale come autore."
I ventinove pellegrini che Chaucer immagina di incontrare alla Tabard Inn di Southwark sono uno specchio fedele, nella varietà policroma delle attitudini e dei mestieri, della società Inglese della fine del XIV secolo. I rappresentanti di tutte le classi sociali, eccettuate la nobiltà e il proletariato contadino, si ritrovano attorno ad una stessa tavola in procinto di partire per il reliquiario di Thomas Becket a Canterbury; l’occasione "carnevalesca" del pellegrinaggio - così come la fuga da Firenze dell’«allegra brigata» - enfatizzata dall’atmosfera conviviale in cui si intrecciano e si contrappongono i dialoghi e i racconti, permette - con l’allentarsi dei vincoli sociali ed economici - il libero sovrapporsi del comico sul serio, del linguaggio alto su quello triviale, dell’eroico sul parodico, eccetera. Infatti, i Canterbury Tales, oltre ad essere l’affresco multiforme e fedele di un mondo a cavallo di due epoche, carico di fermenti innovatori così come di eredità imprescindibili, sono anche un repertorio esaustivo delle forme narrative più disparate: dal racconto comico e dalla farsa salace del fabliau fino al romanzo cortese (rovesciato, a sua volta, nella parodia di se stesso) e poi il lai bretone, l’exemplum, l’apologo, la favola animalesca, le leggende dei santi ed, infine, l’omelia sui peccati capitali del Racconto del parroco.
In questa galleria compendiaria di tutta la narrativa medioevale europea Pasolini opera la sua scelta. E sceglie in maniera analoga a quanto aveva fatto nei riguardi del Decamerone; cioè privilegiando quasi esclusivamente la narrazione sapida e immediata dei fabliaux e l’ambientazione popolare che li contraddistingue. Ancora una volta, dunque, il regista ritaglia un "suo" Chaucer, escludendo quanto non contribuisca al recupero della "corporalità popolare" vissuta nella sua autenticità. Ma mentre i personaggi di Chaucer, anche nel più piccolo particolare realistico (molto spesso mutuato dalla fisiognomica o dai lapidari e dai bestiari, e quindi frutto di erudita codificazione più che di freschezza realistica), rimandano ad un sistema di significati e convenzioni colto nel vivo della società inglese in cui lo scrittore viveva; il realismo di Pasolini non può che essere "ontologico", perché slontanato al di là di ogni stratificazione e significazione storica; un "realismo cieco", dunque, che non allude a nient’altro che a se stesso, alla propria presenza e alla propria fisicità.
Ma in questa operazione di inclusione ed esclusione Pasolini non può certamente prescindere in maniera assoluta da quelle che sono le caratteristiche peculiari di Chaucer, dei Canterbury Tales, dell’epoca e del contesto socio-culturale a cui appartengono.
"Chaucer si colloca a cavallo fra due epoche. Ha qualcosa di medievale, di gotico: la metafisica della morte. Ma spesso si ha l’impressione di leggere un autore come Shakespeare o Rabelais o Cervantes. È un realista, ma è anche un moralista e un pedante, e inoltre mostra straordinarie intuizioni. Ha ancora un piede nel Medioevo, ma non è uno del popolo, anche se raccoglie i suoi racconti dal patrimonio popolare. In sostanza, è già un borghese. Guarda già alla rivoluzione protestante e perfino alla rivoluzione liberale, nella misura in cui i due fenomeni si combineranno in Cromwell. Ma mentre Boccaccio, che era pure un borghese, aveva la coscienza tranquilla, con Chaucer si avverte già una sensazione sgradevole, una coscienza turbata e infelice.
Chaucer presagisce tutte le vittorie, tutti i trionfi della borghesia, ma ne presente anche il marciume. È un moralista, ma dotato anche del senso dell’ironia."
Un sintomo della "coscienza turbata e infelice", e quindi del moralismo, di Chaucer potrebbe essere ritrovato nella tematica ricorrente dell’oro come fonte di corruzione corporale e spirituale; si consideri, ad esempio, l’omologia tra denaro e fecalità nel Racconto dell’Apparitore o, più esplicitamente, tra denaro e morte in quello dell’Indulgenziere. Questa tematica era del tutto assente in Boccaccio e nella sua esaltazione (per quanto retrospettiva) dei valori della mercatura appartenenti al "periodo d’oro" della rinascenza medievale. L’epoca di Chaucer, invece, può essere espressa, significativamente, dal duplice segno del movimento protoriformatore di John Wycliffe e del fallimento della rivolta contadina guidata da Wat Tyler e John Ball; ovvero, come dice Pasolini, dal presentarsi, in germe, di quelle problematiche che faranno da sfondo alle tappe successive della progressiva "presa di coscienza" (e quindi "presa di potere") della classe borghese.
Accompagnata a queste "straordinarie intuizioni" sulla rivoluzione borghese, però, ritroviamo in Chaucer una componente ancora legata al medioevo e al suo immaginario "gotico", cioè quella che Pasolini definisce (un po’ ambiguamente) come "metafisica della morte", ma che in realtà deve essere intesa come compresenza di allegoria e di profondo realismo nella rappresentazione della stessa. Infatti, in un’altra intervista del periodo, Pasolini chiariva il concetto dicendo:
"La morte, l’aldilà, è sempre presente; una morte, però, medievale, quindi profondamente allegorica e allo stesso momento volgare fino all’abiezione"
Questa presenza della morte percorre, in un certo senso, tutte le novelle scelte da Pasolini, ma risulta evidente nel Racconto del Frate e, soprattutto, in quello dell’Indulgenziere, dove "la Morte" è addirittura il personaggio cercato dai tre giovani per vendicare l’amico.
Nel Decameron, come si è visto, Pasolini aveva sostituito il fiorentino trecentesco di Boccaccio con la "materia viva e incandescente" del parlato contemporaneo napoletano e campano; nel caso de I racconti di Canterbury la scelta della lingua da usare fu abbastanza simile:
"Certo non potevo usare l’inglese di Chaucer, per cui ho fatto ricorso al più semplice vernacolo possibile, con alcuni elementi dialettali. Mi sono servito delle parole di Chaucer, ma le ho tradotte in un idioma moderno. Ad esempio, nel Racconto del venditore di indulgenze, che è quello sui tre ragazzi ai margini della società, che vivono di espedienti e così via, i tre ragazzi li ho trovati per strada. Per puro caso, erano tutti e tre scozzesi, per cui parleranno con l’accento scozzese. Girerò il Racconto del Cuoco, la storia di Peterkin o Pietruzzo, nei docks di Londra, e in questo episodio si parlerà in cockney, nel tipico dialetto londinese. (...) E poi, quando mi sono trovato giù vicino a Bath, e a Wells, il modo di parlare di quella gente mi è piaciuto moltissimo, e quindi in qualche brano userò l’accento del Somerset. Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti."
Dunque, ancora una volta, Pasolini sceglie di sovrapporre all’opera letteraria non un linguaggio arcaizzante frutto di una ricerca erudita, ma "la lingua viva" delle classi popolari, parlata dagli attori non professionisti scelti, letteralmente, dalla strada e chiamati ad interpretare i personaggi chauceriani prestando ciò che rimane di non ancora "colonizzato dal potere": il corpo e, come si è appena visto, il dialetto.
Naturalmente, però, questa ricchezza linguistica non può essere mantenuta nel doppiaggio in italiano, che, pur non essendo accademicamente irreprensibile, risulta privo di particolari inflessioni vernacolari; ad eccezione del Racconto del Fattore, dove Pasolini fa parlare ai due studenti un italiano con un’evidente calata bergamasca.
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio Frangini
Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
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