"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
3 La sopravvivenza scandalosa del sacro.
"I superamenti, le sintesi! sono illusioni,
dico io, da volgare europeo, ma non per cinismo –
(…)
… La tesi
e l’antitesi convivono con la sintesi: ecco
la vera trinità dell’uomo né prelogico né logico,
ma reale. Sii, sii scienziato con le tue sintesi
che ti fanno procedere (e progredire) nel tempo (che non c’è),
ma sii anche mistico curando democraticamente
nel medesimo tabernacolo, con sintesi, tesi e antitesi."
Dopo Uccellacci e uccellini (1966) Pasolini iniziò una nuova fase della sua produzione cinematografica che potrebbe essere definita, molto approssimativamente, come fase del mito – Edipo re e Medea - del racconto allegorico o della parabola esemplare– Teorema e Porcile – e che in molti casi venne considerata dai critici, soprattutto contemporanei del regista, come un abbandono della realtà e del presente storico in favore di una fuga verso il mito e la rabbia autobiografica. In una temperie culturale che favoriva le opere impegnate e dalla chiara connotazione politica, l’autore di Teorema venne assimilato a coloro che sono «convinti di scardinare la realtà senza la realtà» e che ricorrono a «simboli sclerotizzati e piccolo-borghesi, pronti a dimenticare la furia e la disperazione, inclini a un appiattimento delle contraddizioni in una gelatinosa pagina bianca», in altre parole si limitava la componente ideologica di queste opere sottolineandone, con un giudizio di valore, la regressività e il "decadentismo" dovuti, probabilmente, ad un impasse poetica e ad un indugiare attorno alle tematiche psicologico-barbariche care alla sensibilità estenuata dell’artista, forse «sopravvissuto» e divenuto, ormai, un’«autorità» dell’intellighenzia culturale italiana. Pasolini, dal canto suo, in alcuni interventi del periodo rifiutava decisamente le opinioni di coloro che definivano la sua produzione più recente come una fuga verso il mito estetizzante o verso il ripiegamento solipsistico dell’autobiografismo, e rivendicava il profondo realismo e l’estrema attualità delle sue opere; criticando invece il superficiale contenutismo e l’opportunistico "allineamento a sinistra", anche se spesso in buonafede, di molte opere che trattavano direttamente le tematiche contestatarie e rivoluzionarie.
Asserendo che: "È realista solo chi crede nel mito, e viceversa" e che "il «mitico» non è che l’altra faccia del realismo"Pasolini difendeva la concezione "mitica" della realtà come autentica ed "originaria", in quanto è proprio dell’uomo antecedente l’era industriale e tecnologica non considerare la natura come "naturale", bensì come ierofania, disvelamento perturbante delle radici ancestrali della vita, luogo in cui le contraddizioni, le tesi e le antitesi, il pragma e l’enigma, convivono affiancate ed in cui il "superamento", la sintesi hegeliana, non ha ragione di essere. Nello stesso momento Pasolini denunciava l’irrealtà e lo "scandalo" di una visione del mondo, quella del pragmatismo moderno, che escludesse il mitico ed il sacro dal proprio orizzonte appiattendo la natura e la storia in un unico Presente dilatato ed omnicomprensivo.
Ma, come la serva di Teorema si fa seppellire nel cantiere o, in Medea, il centauro del mito continua a vivere accanto al centauro "appiedato" e razionale, così il sacro, pur essendo stato superato e dimenticato, pur avendo le caratteristiche di una sopravvivenza di un universo irrimediabilmente perduto, continua a persistere nel mondo della razionalità tecnicistica ed esercita ancora la sua funzione perturbatrice.
Parlare della concezione sacrale del mondo in Pasolini equivale a parlare di "tutto" Pasolini, di tutta la sua opera e di tutta la sua vita, da Il nini muàrt fino a San Paolo, dalla corona di spine della Ricotta alle poesie di Trasumanar e organizzar. Ciò che interessa in quest'ambito è la funzione ed il valore che ha assunto la sacralità in un certo periodo della vita dell’artista e della sua coscienza ideologica. Do qualche esempio.
In Teorema l’assunto è quello della apparizione del sacro in una famiglia dell’alta borghesia settentrionale, Pasolini utilizza il termine di "ierofania" mutuandolo "inconsapevolmente" da Mircea Eliade, e quello di verificare gli effetti perturbatori di tale apparizione. La parte positiva del film, non in senso estetico ma in senso ideologico, sta appunto nella sconvolgimento e nella crisi successiva che l’angelo-demonio semina fra i vari membri della famiglia; i quali reagiscono alla crisi mettendo in discussione il loro ruolo sociale, la loro esistenza e cercando di risolverla in una nuova vita. Significativamente solamente la serva, in quanto depositaria dell’arcaica religiosità contadina, riesce ad approdare ad una soluzione di questa crisi attraverso la via della santità, la folle santità dei mistici; mentre le soluzioni offerte ai membri della famiglia borghese conducono alla sterilità – l’arte neoavanguardista del figlio – alla negazione di se stessi – l’erotomania della madre e la pazzia della figlia – oppure alla rabbia impotente – l’urlo del padre nel deserto.
Medea, invece, parla dello scontro diretto tra il mondo della storia, laico e positivista, appartenente a Giasone (che ha dimenticato i vecchi insegnamenti del centauro mitologico ormai muto) e il mondo della barbarie, intriso dai riti di una religione preistorica, da cui proviene la strega Medea. Quest’ultima in un primo tempo, dimentica della cultura ancestrale da cui proviene, superata da quella del marito, dona il vello d’oro che da feticcio del culto animistico della fertilità viene degradato a trofeo di guerra. Questo superamento, però, non impedisce il traumatico e mortifero ritorno di Medea furiosa alle antiche pratiche magiche e al rito estremo e terribile dell’infanticidio.
Quindi, secondo Pasolini, il sacro aveva nei confronti della società consumistica, che deve desacralizzare tutto per fare rientrare ogni cosa nel presente del ciclo di produzione, una funzione dirompente, di opposizione e contestazione, per il solo fatto di alludere ad una "alterità" non assimilabile ed ineludibile. L’impegno e l’attualità per Pasolini erano dunque in questa ricerca "dell’idea dell’uomo che sta scomparendo" e nel rifiuto del mero contenutismo in cui, molto spesso, ricadevano le opere contestatarie intrise di "gauchismo alla moda", colpevoli, secondo lui, di negare il potere usandone lo stesso linguaggio e favorendo in questo modo la sua irrevocabile affermazione.
C’è da dire, però, che Pasolini nella sua nostalgia per il sacro, e nella disperata ricerca delle sopravvivenze di quest’ultimo, non si rifaceva ad alcun culto o ad un popolo particolare, perché era cosciente che da sempre il sacro "spontaneo" delle civiltà contadine era stato "istituzionalizzato" dalle varie autorità religiose – gli sciamani, i preti, ecc. – e nello stesso tempo riconosceva "in questa nostalgia (…) qualcosa di sbagliato, di irrazionale, di tradizionalista".
Inoltre quanto detto finora sulla nostalgia del sacro e sulla sua carica "scandalosamente rivoluzionaria" non deve essere inteso come la teorizzazione profetica, sulla falsariga della profezia di Alì dagli occhi azzurri, di una possibile eversione del mondo contadino-religioso ai danni della civiltà tecnologico-razionale. In realtà Pasolini difendeva il sacro perché: "… è la parte dell’uomo che offre meno resistenza alla profanazione del potere"e nel frattempo non si faceva più illusioni sul Terzo Mondo, ormai avviato quasi irrevocabilmente, con l’eccezione di alcune sacche di resistenza, verso il neocapitalismo:
"Hanno una sola idea, in quelle teste innocenti, e molto appetito. È finito l’incubo agricolo, e si mangia. Si mangia a Homs, si mangia a Aleppo. Sono stati lavati, tosati, vestiti, calzati: e ora il padre con le mammelle li guarda, bravi figlioli che si sono liberati dei sacrifici umani e della siccità, e, frastornati da tale «catastrofe spirituale», se ne vanno nudi sotto i panni militari, come vermi, come bambini. …
(…)
Beata Resafa non ancora raggiunta dai pali della luce, ché quanto ad Aleppo, l’ansia del consumo fa dei maschi di questa città tanti bovaristi, in attesa di un Bourghiba."
Ma più oltre, in questa stessa poesia, contraddicendosi apparentemente, Pasolini individua la valenza reale del suo portato nostalgico ritrovando il sacro e il luogo del suo "ritorno" nell’attività artistica:
"Qui sì, sicuramente, sono sepolte delle ossa! E tutto ciò ch’è sepolto è destinato alla resurrezione(ancora, almeno, per un figlio di contadini friulani).Come un indovino ne sento la consolatrice presenza. Del resto è poco che ho capito per quale ragione la parola «ritorno» è quella che mi sembra più cara, facendomi tremare misteriosamente.
Mite solitudine del Qualat Sm’aan, se un poeta non fa più paura è meglio che abbandoni il mondo."
Ideale suggello di questo periodo della produzione pasoliniana, e premessa di quello successivo, potrebbero essere gli Appunti per un’orestiade africana, un’opera piuttosto trascurata nella filmografia dell’artista ma che, ad esempio, Adelio Ferrero colloca tra le «esperienze meno note, ma certamente più alte dell’autore». Questa documenta con una raccolta di figure e luoghi della Tanzania contemporanea la ricerca effettuata da Pasolini dei possibili protagonisti di un film, tratto dalla trilogia di Eschilo, che non fu mai realizzato. Attraverso una «proiezione nello spazio (la trilogia lo sarà nel tempo) di una mitica condizione popolare perduta, inattingibile nel presente» Pasolini analizza la possibilità delle "sopravvivenze" del mito in una società che si trovava, con il bagaglio del mondo antico ancora intatto, sul varco dell’era industriale. I visi, i gesti, i sorrisi potevano essere sia quelli dell’uomo delle origini sia quelli dell’ultimissimo istante di una ragazza – la possibile Elettra o Cassandra– che si perdeva nella folla. Qui "l’idea dell’uomo" esisteva ancora nonostante stesse per essere, anche qui, ingoiata dal futuro. Ma ciò che differenzia gli Appunti dalla Trilogia è il fatto che questo "ritorno", pur essendo forse nostalgico, non è ancora "disperato" ma ha ancora dentro di sé la progettualità, la ricerca, l’utopia.
Mi riferisco soprattutto alla figura che assumono le Erinni nella ricostruzione pasoliniana. Rappresentate attraverso l’immagine bellissima delle piante scosse dal vento impetuoso, le Erinni da divinità oscure e malefiche vengono trasformate in Eumenedi, benefiche tutrici della natura nella Polis appena fondata da Oreste. Le Erinni sono la metafora con cui Pasolini esprime l’antica cultura africana maturata nei millenni ed arrivata ad esprimere compiutamente se stessa nell’imperturbabilità del rapporto dell’uomo con la natura; e come queste divinità preistoriche possono trasformarsi in divinità protettrici così l’antica cultura può permanere, mutata ma ancora viva, nella nuova ed utopica Africa della democrazia e del progresso. Pasolini dunque esprimeva "la possibilità di una diversità", un possibile futuro alternativo a quello del modello di sviluppo neoindustriale, sia occidentale sia socialistico, che mantenesse intatta, accanto alle nuove forme di vita sociale, la "religione delle cose" tipica delle civiltà contadine. "Religione" che deve essere intesa nel significato più ampio del termine, quindi non di mera persistenza, nell’africano contemporaneo, dell’esteriorità cultuale dei riti animistici ma di una perpetuazione di una visione del mondo che percepisca la sacralità e il mistero che si manifestano nella vita dell’uomo, e che quindi renda l’uomo non "alienabile" e non "riducibile" alla sfera entropica del ciclo di produzione.
Pasolini nell’interrogare un gruppo di studenti africani sulla possibile realizzazione del film, pone anche questa questione del futuro alternativo e della persistenza del passato. Invece la maggior parte degli studenti, o comunque le "correnti di pensiero" che fanno riferimento a qualche studente "dominante", sembra preoccupata di dare di se stessa e dell’Africa postcolonialista un’immagine quanto più moderna possibile, rifiutando nello stesso momento sia la possibilità della realizzazione del film così come la concepisce Pasolini sia le allusioni che fa il regista attorno alle "sopravvivenze" culturali. Ad esempio, quando Pasolini accenna alla carica di "capotribù" a cui potevano appartenere i padri degli studenti stessi, questi sorridendo, ed in alcuni casi con uno sguardo risentito, negano l’effettiva importanza di questa carica nel sistema sociale dell’Africa contemporanea, evidenziando invece l’importanza e il numero di cambiamenti che il loro paese ha affrontato nell’ultimo decennio.
Secondo Lino Micciché proprio in questo «no», in questo «contrasto» con gli studenti africani e nel «prendere atto che la temuta "mutazione antropologica" aveva superato le società affluenti e il capitalismo maturo, per dominare anche in quel Terzo Mondo dove il suo utopismo aveva ritenuto possibile rievocare lo spirito di "antiche civiltà sepolte" e ancora incorrotte dall’etica del mondo industriale», si trovano le ragioni del brusco abbandono del Mito, e del «rifugiarsi» in esso, per aver constatato l’irrealtà della «purezza incontaminata» delle popolazioni africane, e le radici della nuova produzione cinematografica che avrebbe visto una fuga verso un passato altrettanto illusorio. Ho già espresso più sopra la mia riserva sulla definizione del «rifugio nel Mito» - senza comunque dare giudizi sul valore estetico dei film di quel periodo – e la esprimerò più avanti su quella di «fuga nel passato»; ciò che mi preme sottolineare ora riguarda i tempi e le modalità della disillusione pasoliniana. Innanzitutto ridimensionerei l’importanza che ha avuto il confronto "negativo" con gli studenti di colore: Pasolini sapeva che, in quanto studenti, gli africani dell’intervista non erano quel che si dice un «campione rappresentativo», ma, privilegiati che vivevano ormai da tempo in un paese occidentale, potevano avere quell’"ansia di conformismo" e quella visione nevrotizzante del "mondo bianco" - "il fascino bianco del potere" di cui Pasolini aveva parlato a proposito di alcuni neri d’america - da cui derivavano le loro perplessità e le loro proteste di modernità. Inoltre, secondo Micciché, Pasolini avrebbe avuto proprio in occasione delle riprese degli Appunti la percezione del cambiamento antropologico avvenuto tra i suoi popoli amati, e da questa avrebbe maturato la sua disillusione ideologica e il mutamento di rotta in senso artistico con l’abbandono del Mito. Ma la conoscenza che il regista aveva dell’Africa e dei suoi popoli non si limitava ai sopralluoghi cinematografici e a delle visite sporadiche, ma era costituita dalla lunga frequentazione "dei regni della fame" che era iniziata sin dai primissimi anni Sessanta; quindi l’avvertimento del mutamento in senso neoindustriale non poteva, per quanto fosse stato repentino, giungere in maniera così folgorante ed improvvisa da sorprendere Pasolini nel momento stesso in cui si apprestava a girare un film, ed essere allo stesso tempo così profondo da provocare la crisi creativa che sarebbe stata risolta nell’ulteriore «fuga» della Trilogia. Pasolini, in realtà, sin dai tempi de La rabbia – il mediometraggio del ’63 costituito da spezzoni documentaristici – era cosciente che una delle possibili "vie africane" era quella neocapitalista; inoltre, a riprova del fatto che quella degli Appunti non è stata una folgorazione ed una fine definitiva di una speranza, ancora nel 1970 Pasolini poteva scrivere articoli come: Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni, in cui, se da un lato constatava con orrore che le tenaglie dello sviluppo più distruttivo si stavano stringendo attorno al continente africano e che si stavano compiendo dei veri e propri genocidi, come nel caso dei Denka nel Sudan o degli Ibo in Nigeria, d’altro canto nutriva ancora una certa speranza, seppur flebile e dubbiosa, per il socialismo rigoroso di Sekù Turè in Guinea e per la possibile alternativa della "rivoluzione conservativa" che questo rappresentava.
Ma se ci può essere qualche dubbio attorno alle tappe e alle modalità nella svolta artistica ed ideologica dei primi anni Settanta, è indubbio che questa svolta c’è stata e che, con il nuovo decennio, era iniziato il periodo della "disperata vitalità" e della poetica del corpo come ultima sopravvivenza di un mondo distrutto.
Università degli Studi di Padova
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
Facoltà di Lettere e Filosofia
Dipartimento di Discipline Linguistiche, Comunicative e dello Spettacolo
Sezione di Spettacolo
tesi di laurea
La "Trilogia della vita"
di Pier Paolo Pasolini
Laureando:
Fabio Frangini
Relatore:
Ch.mo Prof. Giorgio Tinazzi
Anno accademico 1999-2000
Nessun commento:
Posta un commento