"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pilade, l’orrore del potere
«In
questo mondo colpevole,
che solo compra e disprezza,
il più
colpevole son io,
inaridito dall’amarezza.»
(“A
me” in “Epigrammi”, in “La religione del mio
tempo”)
Il
Pasolini di Ragazzi di vita, degli Scritti corsari, il
regista di Salò o di Teorema, è senza dubbio quello
più noto, più scomodo e più impegnato a indagare le piaghe della
sua Italia, un intellettuale unico, in grado di saper individuare,
con gli occhi disperati di chi ama, il regresso verso cui la società
correva, uno sviluppo che Pasolini vede solo come un’accumulazione
di beni non necessari.
Un
intellettuale che ha diviso l’opinione pubblica e continua a farlo
anche oggi, quaranta anni dopo la sua morte, perché ciò che ci ha
lasciato è troppo immenso, troppo vero e troppo scottante.
Pasolini
non si interessa alla scrittura teatrale almeno fino al ’66, anno
in cui, costretto a letto per qualche mese, darà vita alle sue opere
teatrali, prima fra tutte Pilade, nata dallo studio
dell’Orestea di Eschilo, infatti lo scrittore friulano
traduce l’opera greca per il teatro di Vittorio Gassman e immagina
poi un’ideale continuazione. È in grado di trasportare la storia
dell’Italia del dopoguerra e dei suoi giorni nella tragedia, in cui
sopravvivono i personaggi dell’antichità greca.
Pilade
è un capolavoro di metafore, di richiami, di echi nei quali
bisogna immergersi per poterne trarre gli stimoli di riflessioni
sulla contemporaneità; il punto di partenza è il terzo momento
della tragedia eschilea, ovvero le Eumenidi, ritenuta la
tragedia più politica in cui Eschilo sembra abbozzare quel tipo di
governo che più tardi, con Pericle, raggiungerà il suo momento più
maturo ovvero la democrazia. Al centro della tragedia c’è l’accusa
mossa dalle Erinni ad Oreste per aver ucciso sua madre Clitemnestra e
suo marito Egisto, e la difesa da parte di Apollo ed Atena, l’accusa
è da parte di divinità ancestrali legate al culto della dea madre e
dunque sostenitrici di una tradizione per cui il delitto consanguineo
va punito, quello di Clitemnestra verso Agamennone non è punibile
perché «non perpetrò strage di sangue uguale». Eschilo mette in
scena un’istituzione civile che giudica Oreste, l’Areopago, dando
vita a un tribunale di uomini presieduto da Atena. Quest’ultima
istituisce un nuovo ordine «né anarchia né dispotismo: questo
consiglio affido all’ossequio dei cittadini […] Se rispetterete
questa istituzione, come merita, disporrete di un baluardo di
salvezza per lo stato e per la città, quale alcuna umane gente non
possiede.» L’affermazione di Atena, rappresenta il cuore di questa
tragedia e forse anche lo spunto per Pasolini, qui la nuova forma di
giudizio viene presentata come qualcosa di positivo e democratico,
quasi commuove se si pensa a quando è stata scritta, Pasolini è
probabile che rifletta su quanto l’antica Grecia, non ancora
pienamente democratica, porti già con sé il seme della futura e
matura democrazia periclea e quanto, invece, la sua Italia si
proclami democratica senza esserlo affatto. Un’Italia che non
lascia spazio al diverso, che è appannaggio solo della borghesia e
di un partito politico, la Democrazia Cristiana che di cristiano non
ha assolutamente nulla per Pasolini, un’Italia che non dà voce
agli esclusi, ai vari Pilade dei suoi anni e non è un caso se il
protagonista di questa tragedia novecentesca sia proprio lui, l’amico
fedele di Oreste che nell’Orestea ha soltanto una battuta e
per tutto il resto è soltanto un’ombra.
Oreste
viene salvato ma le Erinni non accolgono questo cambiamento né,
tanto meno, l’oltraggio a un tipo di sistema che voleva vedere
punito chi si macchiava di un delitto consanguineo, si sentono
umiliate e deposte ma Atena propone loro di diventare signore di una
città che sempre le onorerà, trasformate prenderanno il nome di
Eumenidi.
Al
centro del Pilade c’è sia la neonata Repubblica italiana,
sia la memoria della Resistenza partigiana, sia la drammaticità del
boom economico che ha distrutto, per Pasolini, l’autenticità anche
delle classi inferiori, ormai lontane da quella “Umile Italia”
descritta ne Le ceneri di Gramsci.
La
cosa che più colpisce è l’evoluzione del personaggio di Oreste,
che riparte laddove Eschilo lo aveva lasciato, quindi da una
posizione, se vogliamo, rivoluzionaria, perché ha sconvolto le
regole nella sua città e nell’incipit pasoliniano è il fondatore
della democrazia, rinunciando al suo potere legittimo e monarchico.
Nel momento in cui la rivoluzione diventa sistema, inevitabilmente
viene meno la dimensione eroica e diventa un uomo politico, perdendo
così quella purezza di idee e di atteggiamenti avuti
precedentemente. Egli finirà per incarnare a pieno la borghesia,
sarà in grado anche di “vendersi” accettando il compromesso con
Elettra, sua sorella, assolutamente legata, invece, alle forze del
passato e, in quanto tale, molto distante dalle idee democratiche di
partenza del fratello. In questo sembra che Pasolini voglia suggerire
come gli ideali rivoluzionari, finché rimangono tali, sono positivi
ma diventando istituzione si macchiano con la meschinità del potere,
è emblematica a tal proposito la battuta di Pilade a Oreste, nel III
episodio «Tu guardi con gli occhi miopi di chi ha il potere allora
il tuo mutamento è regresso.»
Il
prologo ha come protagonista il coro, il popolo appena uscito dalla
tirannide, costituito da poveri in attesa di un cambiamento, Oreste è
atteso perché è visto come colui in grado di spezzare questa
ciclicità, c’è una chiara denuncia, già nell’incipit della
tragedia, a una religione totalizzante per mezzo della quale l’uomo
è stato in grado di giustificare tutto, anche l’orrore di ciò che
è stato come frutto di una volontà superiore, ciò suggerisce un
riferimento all’atteggiamento del popolo italiano dopo la guerra e
probabilmente del popolo tedesco, non accettare la responsabilità ma
aggrapparsi alla giustificazione di una guerra mai voluta né
tantomeno sostenuta. («Ecco cosa significa aver attribuito tutto
agli Dei! Ecco cosa significa aver considerato prima i signori che ci
governavano paternamente e poi coloro che sono stati tiranni feroci–
come il frutto di un’antica volontà più forte di noi, semplici
uomini!»)
Il
ritorno di Oreste ad Argo, insieme a Pilade, che ancora a
quest’altezza del testo non parla, rallegra il popolo che si
convince ad abbandonare la vecchia istituzione e a trasformarsi in
democrazia, «Io sono qui a cambiare insieme a voi le istituzioni che
mi vogliono Re», in questo progetto Oreste è illuminato da Atena,
la dea nata dalla testa del padre che ha trasformato le Furie in
divinità dei sogni per cui ora il passato si può soltanto sognare.
Il progetto però non è accolto da Elettra, schiava del passato che
vuole custodire la memoria, essa rappresenta il fascismo, una
trasposizione all’attualità di quegli anni fa si che la si possa
identificare con le frange di estrema destra, responsabile del
tentativo di golpe Borghese.
Il
popolo di Oreste quindi diventa un popolo benestante, assolutamente
borghese, è chiaro il riferimento al boom economico, scrive infatti
«ognuno di noi è partecipe di questa furia di crescere»,
un’affermazione drammatica quella che esce dalla penna di Pasolini
e che riecheggia quanto lo scrittore afferma, in quegli anni, a
proposito dello sviluppo ben diverso dal progresso, il primo lo vuole
la destra economica e comporta la produzione di beni superflui, il
secondo consiste nella creazione di beni necessari, dunque Oreste e
il suo popolo diventano il sinonimo di una società capitalistica e
benestante. Le Eumenidi da dee dell’irrazionalità selvaggia sono
diventate dee dell’irrazionalità che sopravvive come capacità di
sogno, sono sui monti ma metà di queste sono degenerate, tornate
Furie e rientrate in città, nel cuore della democrazia liberale, le
altre sono sui monti a ispirare la rivoluzione socialista di Pilade.
Pilade
finalmente parla ed esprime il suo disappunto nei confronti del
progetto di Oreste, la sua presa di posizione genera scalpore perché
ha rotto gli schemi dell’abitudine a cui tutti si erano adeguati,
il coro lo denigra, è una scena toccante quella creata da Pasolini,
in cui a fare da protagonista è il mito del diverso, qui Pilade è
lo stesso scrittore, d’altronde il rifiuto dei benpensanti borghesi
è la sintesi dell’atroce esistenza pasoliniana. Pilade è
«diversità fatta carne», il popolo aveva accettato la diversità
di Pilade perché la sua diversità era ciò che avevano stabilito
che fosse, un uomo dotato di grazia, ora invece è solo «diversità
che dà scandalo». Questo passaggio non può che richiamare alla
memoria quanto Pasolini scrive sul Corriere della Sera, che
poi confluirà nelle Lettere luterane (1976), quando lo
scrittore si rivolge al suo Gennariello affrontando il discorso sulla
tolleranza (Paragrafo terzo: ancora sul tuo pedagogo) e
definendola non reale, perché il fatto che si tolleri qualcuno
significa già condannarlo, scrive: «fin che il diverso vive la sua
diversità in silenzio chiuso nel ghetto mentale che gli viene
assegnato tutto va bene: e tutti si sentono gratificati dalla
tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla
propria esperienza di diverso […] si scatena il linciaggio […]
l’incomprensione più feroce lo getta nella degradazione e nella
vergogna.» e poi ancora dirà negli “Scritti corsari” che
la diversità, in un periodo di tolleranza, è la più grande colpa.
È da
questo momento in poi che emerge come Pasolini scinde in due Pilade e
Oreste, a volte coincidono, altre volte si allontanano, inserendo
anche, tra le righe, un’altra coppia che fa da contraltare ovvero
se stesso e suo fratello. Pilade dunque si stacca da Oreste e diventa
il rivoluzionario, l’oppositore, militerà sulle montagne
richiamando l’eco della resistenza partigiana e quindi di suo
fratello Guido Alberto, Pilade è il socialista, è Pasolini
controcorrente, egli non ha un vero e proprio progetto tanto da non
riuscire a trovare un “ubi consistam”, dirà che sono le
Furie ad avergli dato «questa irragionevole voglia di distruzione.»
C’è
un passaggio che colpisce molto, volto a stigmatizzare l’enorme
distanza del potere di Oreste e quindi dello Stato italiano, che si
professa democratico, e il vero concetto di democrazia, che viene
tradito nelle parole di Oreste che sempre più diventa uomo politico
becero e meschino, Pilade domanda se i folli e i miserabili non siano
cittadini e Oreste risponde «Non sono quelli che contano» perché
per il potere il diverso non conta, colui che non si uniforma alla
moltitudine e non si perde in essa, la voce fuori dal coro non ha
validità soprattutto se queste sono le voci dei poveri, ad avere
importanza e considerazione è la massa indistinta e manipolabile,
inetta, la stessa che poi, più avanti nel testo dirà: «Noi non
siamo uomini ispirati, come lui […] abbiamo bisogno di una virile
forma di soggezione e obbedienza, che ci consenta di vivere come non
possiamo che vivere: una nostra umile e attiva vita senza pretese, e
con un solo forte ideale comprensibile a noi.»
È
assolutamente una dichiarazione di mediocrità, di piccolezza di
questi che sono i figli di ciò che Pasolini definisce “nuovo
fascismo” ovvero il consumismo, è il popolo alienato dalla tv
“ipocrita e imbecille”.
Pilade
da ombra di Oreste diventa avversario, senza un vero progetto ma con
la voglia di distruzione «nell’irragionevole desiderio di non
essere», la città è destinata a perdersi «non ci sono parole di
salvezza». Alla condanna di Pilade da parte del coro risponde Oreste
con il suo dolore, che si manifesta e si fa carne, il che mette bene
in luce la duplice unicità che i due costituivano («Ah, io non sono
Oreste che vede ma Pilade che se ne va, che ci abbandona per
sempre…»). La disperazione per l’abbandono è figlia dell’amore
viscerale che univa i due, da intendere come “fratellanza
cristiana”, la stessa che Pasolini fa risaltare ne “Il Vangelo
secondo Matteo”.
La
militanza di Pilade sulle montagne lo mette di fronte a una realtà
per lui scomoda e dolorosa, che si concretizza nell’assenza di un
vero progetto da parte sua «Odio l’irrealtà dei luoghi dove per
diritto dovrei vivere; ma insieme non conosco la realtà in cui
vorrei vivere rinunciando a quel diritto. Sono un’anima in pena.»
Pilade è molto pasoliniano in questi aspetti, appartiene a una
classe che lui stesso disprezza, esalta il mito della semplicità
campestre, lo stesso amato da neorealisti quali Vittorini e Pavese,
si sente inadeguato ed estraneo alla sua classe tanto da affermare
«Per me, è la prima volta nella storia: UN UOMO RICCO SOGNA DI
ESSERE UN UOMO POVERO.»
Qui è
il Pasolini che vede nel mondo contadino il vero depositario dei
valori positivi, è il più vicino al primo romanzo “Il sogno di
una cosa” dove amicizia, amore e solidarietà guidano i
protagonisti, sentimenti destinanti a morire con il “nuovo
fascismo”, il consumismo, e che sono assenti nel popolo di Oreste.
Quest’ultimo
ignora completamente il mondo rurale, lui «felice democratico»
indifferente alla miseria; più si va avanti nel testo più appare la
complessità del personaggio di Pilade e l’autobiografismo, un uomo
a cui è stato dato «l’abbietto e intransigente desiderio di
capire e negare», quindi destinato alla sofferenza, al senso di non
appartenenza, l’espressione usata da Pilade è quella che meglio
sintetizza l’esistenza stessa del poeta: un’intelligenza lucida
nel giudicare e spietata nel presagire.
Pasolini
non può rinunciare al tema della Resistenza, a quel capitolo della
storia che vede protagonista suo fratello, affida alla Furie il
compito di annunciare a Pilade quanto accadrà, un evento che il
poeta guarda con occhi pieni di dolore ma al tempo stesso come uno
dei momenti più lirici della nostra storia che oltretutto ha
permesso la caduta di barriere sociali di ogni sorta, «Negli occhi
degli operai ci sarà la sapienza, negli occhi degli intellettuali
l’innocenza», tutti con un solo obiettivo, un momento quasi epico
agli occhi di un uomo che non ha partecipato in prima persona ma che
ben conosce la nobiltà delle idee di chi è partito, primo fra tutti
suo fratello. «[…]Ho dolorosa e accesa,/ nel sorriso, la luce con
cui vide,/ oscuro partigiano non ventenne/ ancora, come era da
decidere/ con vera dignità, con furia indenne/ d’odio, la nuova
nostra storia: e un’ombra,/ in quei poveri occhi, umiliante e
solenne…» (da “Comizio” in “Le ceneri di
Gramsci”). In maniera poeticamente solenne Pasolini non
risparmia il suo senso di colpa per non aver partecipato, è molto
vicino qui al finale de ”La casa in collina”, e tramite le
Eumenidi definisce gli occhi dei sopravvissuti «lucidi di stupida e
stupenda vita».
Nella
lotta destinata al fallimento Pilade è insieme a contadini, operai,
disoccupati, immigrati dalle campagne, l’esercito di Oreste invece
si vende, alleandosi con quello di Elettra perché in grado di
combattere fino alla morte, d’altronde gli eserciti dei due
fratelli finiscono per coincidere, sono borghesi «siamo i
professionisti della città, dietro a loro, come dietro a noi, c’è
chi lavora e non possiede nulla amando in noi un ideale non suo;
perché innocentemente teme di perdere il lavoro che gli diamo […]
Noi tuoi compagni e i compagni di Elettra siamo le stesse persone:
nulla di reale ci divide.»
È
l’affermazione raccapricciante di una borghesia assolutamente
capitalistica, consapevole di reggere un manipolo di uomini che da
essa dipende, l’esercito di Oreste diventa «corpo senza nervi,
senza più riflessi» come dice lo scrittore parlando dell’Italia
in un’ intervista rilasciata a Luisella Re su “Stampa-Sera”
il 1 gennaio 1975, ha bisogno di alleanze per poter sopravvivere
e in questo si può leggere tanta storia d’Italia, dal
camaleontismo di Depretis alla situazione politica di oggi, alleanze
imprevedibili che prendono il posto della solidità dei principi in
cui credere e quindi anche qui diventa impossibile fare vere
distinzioni, non c’è più quella netta distanza tra Elettra e
Oreste, incontrata all’inizio quando l’uomo incarnava ancora
istanze innovative, è la stessa impossibilità di fronte alla quale
si trova Pasolini quando, a partire dalla fine degli anni ’60,
scrive di non poter più distinguere la destra e la sinistra («Una
decina di anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un
provocatore era quasi inconcepibile[…] infatti la sua sottocultura
si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura!
L’avremmo riconosciuto dagli occhi, dal naso, dai capelli!
[…] ora questo non è più possibile[…] Destra e Sinistra si sono
fisicamente fuse» 7 gennaio 1973. Il «Discorso» sui capelli in
Scritti corsari).
Persino
Atena, apparsa a Oreste a profetizzare il fallimento del progetto di
Pilade, “rimprovera” questa nuova alleanza generatrice di morte e
di sangue, il beneficio può essere solo passeggero, e predice anche
una NUOVA RIVOLUZIONE, che molto probabilmente corrisponde alla
rivoluzione economica, antropologica e sociale a cui va incontro
l’Italia di quegli anni, quella rivoluzione che Pasolini tanto
detesta e in cui vede le fondamenta della distruzione e
dell’annichilimento e autoannientamento che raggiunge le punte
massime dell’espressività pasoliniana in “Salò o le 120
giornate di Sodoma”. Probabilmente il riferimento qui è anche
alla rivolta studentesca del ’68, disprezzata dallo scrittore con
tutte le sue forze perché portata avanti dai figli borghesi di
quella classe tanto detestata, «essi sono in realtà andati più
indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e
conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie
che parevano superate per sempre» (7 gennaio 1973:il «Discorso»
dei capelli in Scritti corsari).
Pilade
dai monti guarda la sua città con «immedicabile amore», un saluto
dolce e disperato che rievoca “Addio monti” di Manzoni,
carico di struggente dolore per l’allontanamento dal proprio paese
che in Pilade corrisponde anche alla perdita delle sue stesse
ideologie rivoluzionarie e controcorrenti. La fratellanza tra Oreste
e Pilade ancora una volta corrisponde alla coppia Pier Paolo- Guido
Alberto, l’ammirazione del primo verso il secondo che ha il
coraggio di andare è quindi un tributo al coraggio partigiano del
fratello «io di te non avevo pietà ma ammirazione. Uomo giovane che
te ne andavi!» La presa di coscienza da parte di Pilade del suo
fallimento raggiunge punte alte nelle parole di Oreste («sia io che
la nostra città NON SIAMO PIÙ QUELLO CHE CREDI») e segna il
disincanto e in un certo senso, la delusione dello stesso autore
quando si rende conto che anche il suo amato mondo rurale
incontaminato si muove verso la macchina infernale dello sviluppo e
della modernità.
La
città è oramai progredita e l’esercito di Pilade è sfasciato, è
solo nel bosco, egli non è riuscito a essere un capo rivoluzionario,
assurge a simbolo assoluto dell’uomo individuale perché è la sua
complessità a renderlo diverso, dopo il dialogo finale con Atena in
cui Pilade vorrebbe abiurare alla Ragione, la tragedia si conclude
con la maledizione di Pilade contro la Ragione e ogni Dio.
Ancora
una volta Pasolini è capace di esprimere l’amarezza dei suoi
tempi, quella di Pilade è la parabola della società italiana
dal dopoguerra fino ai suoi giorni, il periodo che, sulla bocca di
tutti, prendeva il nome di progresso, boom economico ma per
l’intelligenza critica del poeta non poteva che chiamarsi “nuovo
fascismo”, un’epoca di volgarità, da Pasolini intesa come
sinonimo di inautentico, posticcio, contaminato e quindi di
conseguenza fragile, violento, feroce.
Immensa
è la sua capacità nel riprendere una tragedia greca, i suoi
personaggi anche i più complessi come quelli delle Eumenidi, e
adattarli alla realtà del suo tempo, queste ultime, obbedendo sul
finale tutte quante ad Atena, diventano dee del benessere e della
nuova era opulenta, tanto che Pilade/Pasolini non ha più nulla
davanti a sé e gli resta una sola verità: l’orrore del potere.
Per
concludere questo commento aperto con la citazione sull’amarezza da
“A me ” in “La religione del mio tempo”,
vengono in soccorso le parole strazianti del poeta, sempre nella
stessa raccolta nella sezione omonima:
Così
la mia nazione è ritornata al punto
di
partenza, nel ricorso dell'empietà.
E, chi
non crede in nulla, ne ha coscienza,
e la
governa. Non ha certo rimorso,
chi
non crede in nulla, ed è cattolico,
a
saper d'essere spietatamente in torto.
Usando
nei ricatti e i disonori
quotidiani
sicari provinciali,
volgari
fin nel più profondo del cuore,
vuole
uccidere ogni forma di religione,
nell'irreligioso
pretesto di difenderla:
vuole,
in nome d'un Dio morto, essere padrone.
Qui,
tra le case, le piazze, le strade piene
di
bassezza, della città in cui domina
ormai
questo nuovo spirito che offende
l'anima
ad ogni istante, - con i duomi,
le
chiese, i monumenti muti nel disuso
angoscioso
che è l'uso d'uomini
che
non credono - io mi ricuso
ormai
a vivere. Non c'è più niente
oltre
la natura - in cui del resto è diffuso
solo
il fascino della morte - niente
di
questo mondo umano che io ami.
Tutto
mi dà dolore: questa gente
che
segue supina ogni richiamo
da cui
i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando,
sbadata, le più infami
abitudini
di vittima predestinata;
il
grigio dei suoi vestiti per le grigie strade;
i suoi
grigi gesti in cui sembra stampata
l'omertà
del male che l'invade;
il suo
brulicare intorno a un benessere
illusorio,
come un gregge intorno a poche biade;
nei
loro lineamenti quasi umani
di
grigio mattone o smunto cotto:
tutto
distrugge la volgare fiumana
dei
pii possessori di lotti:
questi
cuori di cani, questi occhi profanatori,
questi
turpi alunni di un Gesù corrotto
nei
salotti vaticani, negli oratori,
nelle
anticamere dei ministri, nei pulpiti:
forti
di un popolo di servitori.
Diletta Maurizi
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Curatore, Bruno Esposito
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