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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 7 settembre 2016

Lettera AL DIRETTORE - Pasolini e la televisione

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Lettera AL DIRETTORE
Pasolini e la televisione
STAMPA SERA
Anno 99 • Numero 292


Lunedi 11 - Martedì 12 Dicembre 1967

L'intervista di cui parla Pasolini nella sua lettera, la trovi 
QUI


Signor Direttore,

spero che lei accetti di pubblicare questa mia lettera aperta, a proposito di una intervista che ho rilasciato alla signora Madeo, e pubblicata su « Stampa Sera » del 5 dicembre, Col titolo, pressapoco, La Tv è peggio del Vietnam.

Non è una lettera di ritrattazione, ma di precisazione.
E il caso, inoltre, mi pare di per sé abbastanza interessante: infatti io, proprio nei giorni in cui ho rilasciato questa intervista, mi accingevo a fare un lavoro per la Tv, e precisamente un breve documentario per «Tv 7», sotto forma di sopralluogo per un film da girarsi in India. Ero dunque pronto a prendere l'aereo per Bombay con la mia piccola troupe e con in cuore un grande programma. In seguito alla pubblicazione della mia intervista su « Stampa Sera », sapendo la giusta costernazione che essa aveva portato tra i miei datori di lavoro, ho creduto opportuno scrivere una lettera di rinuncia, per lo stesso lealismo, per cui, se avessi occupato un posto di responsabilità, avrei considerato mio dovere dare le dimissioni.

Il film che avrei dovuto fare per la Tv — in una combinazione, di recente formula, per cui il film sarebbe stato in parte consumato da spettatori normali del cinema e in parte dai telespettatori — era un film sul problema della .fame. La storia di una famiglia indiana i cui membri a uno a uno muoiono di fame. Il momento storico di tale vicenda — per rispetto all'India attuale, che soffre questo problema e lotta con tanta' dignità per risolverlo — sarebbe stato quello degli anni immediatamente antecedenti e immediatamente successivi alla liberazione dell'India. Cioè, il film si sarebbe svolto, in parte, prima della partenza degli inglesi, in parte dopo. Una prima parte preistorica, una seconda storica.

Nella parte preistorica, o introduttiva, si sarebbe vista in realtà un'India ideale: l'India della religione e basta. Il capo della famiglia — che sarebbe divenuta protagonista della mia storia — avrebbe dovuto essere un « maraja » e si sarebbe dato in pasto a dei. tigrotti morenti di fame in una landa coperta dalla neve, per pietà e per sublime disprezzo per la propria carne. Nell'India storica, successiva a questo episodio introduttivo, la famiglia del « maraja », impoverita durante una carestia, appunto, < storica », avrebbe vissuto la tragica vicenda che ho detto, scandita dalla morte per stenti e fame di tutti i suoi componenti.

Perché le ho raccontato la trama di questo mio film? Perchè risultasse chiaro questo: che si trattava del progetto di un film assolutamente non commerciale, assolutamente puro e privo di ogni compromesso. Tale rigore, stabilito in partenza, e condizione del film, mi sarebbe stato reso possibile solo se la « produzione » fosse stata della Tv: l'unica organizzazione in grado di trovare un pubblico per tale film (io non credo che si possa fare un film senza pensare a un pubblico, qualitativamente e numericamente da film) e magari di imporlo.

Ho perduto una grande occasione. Spero di girare ugualmente questa mia storia. Ma mi sarà difficile, perché purtroppo, per mia natura, non sono capace di disprezzare il produttore — in nome della mia poesia! — ed è difficile appunto che io trovi un produttore in grado di sostituire la tv per dare corpo a questo mio progetto.

Vede, dunque, caro Direttore, che cosa è significato per me rilasciare una intervista al suo giornale' e che responsabilità si sono presi il titolista e l'autrice del pezzo. La mia storia di autore e di uomo può risultarne modificata. Certo il dolore che ne ho avuto è di quelli grandi, ma non le scrivo qui per sfogarmi.

Ho detto che non voglio ritrattare, ma solo fare delle precisazioni.

E' vero, poiché io ho sempre avuto molta stima per << La Stampa » (che si è' comportata sempre nei miei riguardi nel modo più corretto, obbedendo, direi con grazia e naturalezza, alle regole del fair-play, anche quando il disaccordo tra le mie idee e quelle da essa rappresentate fosse sostanziale) ho parlato con assoluta sincerità con la signora Madeo. Come si parla con un amico. Quindi senza misurare le parole, senza diplomazia, con totale confidenza. Credo, dunque, di aver detto tutte le frasi, le parole e le espressioni riportate dalla Madeo, ma — ed ecco quello che voglio precisare — in un altro contesto. Un contesto dove lo slogan « La televisione è peggio del Vietnam » è una figura retorica, che sta tra la « boutade » e la « sineddoche »: io parlavo cioè della televisione di Partitissima (ossia, magari dell'80 per cento della televisione).

Ora Partitissima e le mille altre trasmissioni dallo spìrito affine sono effettivamente peggio della guerra del Vietnam, perché distruggono lo spirito di una nazione e non soltanto alcune migliaia o centinaia di migliaia di corpi. Credo che tutti gli uomini di cultura siano d'accordo su questo: se vuole, provi a fare un'inchiesta. Su questo piano massimalistico, radicale, se vogliamo, anche un po' moralistico, la collaborazione di un uomo di cultura con la televisione è effettivamente impossibile.

Resta il venti per cento (sono cifre scherzose!) della televisione: ossia tutta la parte dell'autenticità documentaria (chiamiamolo lo « specifico televisivo»!) e le poche trasmissioni di carattere autenticamente culturale, anche se, naturalmente, divulgativo (ho partecipato recentemente, come intervistatore, a una trasmissione su Ezra Pound, per esempio). Il meglio di questo tipo di trasmissioni è « Tv 7 », è ben noto.

Dunque io credo che, a patto di dire, anche con violenza, e anche auspicando una marcia di protesta, ciò che della televisione è male — ed è il peggiore dei mali perché mortifica e nega lo spirito —, gli uomini di cultura non possano, se non col risultato di rendersi prigionieri di un rigore che maschera l'aridità e una specie di autopunizione, rifiutarsi al tentativo di chi crede in buona fede di migliorare il livello delle trasmissioni televisive. Ecco dunque in cosa consiste la mia precisazione. Collaborare alla televisione cosi come essa è, come « un tutto indistinto», come «idea», è impossibile: collaborare al di là di questa fatalità è possibile, e anzi doveroso.
Cordiali saluti dal suo
Pier Paolo Pasolini

Trascrizione da cartaceo a cura di B.Esposito.




Curatore, Bruno Esposito

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martedì 6 settembre 2016

Pasolini: «La TV è peggio della guerra in Vietnam» - Intervista pressappoco inedita.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pasolini: «La TV è peggio della guerra in Vietnam» 

Anno 99 Numero 287 
STAMPA SERA 
Martedì 5 - Mercoledì 6 Dicembre 1967 
Di Liliana Madeo


Lo scrittori espone le sue idee sullo spettacolo 
Il suo prossimo film si intitola « Teorema » E narrerà la storia di un industriale milanese - Per il teatro ha già scritto cinque drammi, un sesto è in cantiere: in essi (egli dice) « non accade assolutamente nulla » - Un suo lavoro lo metterà egli stesso in scena allo Stabile di Torino


Roma, martedì sera.

Come regista cinematografico, in questo momento, Pier Paolo Pasolini ha toccato quotazioni di mercato mai raggiunte prima. Il suo Edipo re, con buoni incassi, regge le programmazioni in prima visione da tre mesi. Nuovi produttori corteggiano il regista. Si è conclusa la sua collaborazione con Alfredo Bini che per primo gli affidò macchina da presa e credito. La parabola evangelica girata quest'estate per Vangelo 70, la sequenza del « flore di carta », è al montaggio. In febbraio avrà inizio la lavorazione di Teorema, storia di una « Visitazione divina » nella famiglia di un industriale milanese. Entro il '68 — il regista ha già firmato un'opzione — verrà girato un altro film, ambientato in India, con una tematica simile al precedente: anche qui c'è una presenza divina, ma la religiosità è quella tipica dalla gente povera, protagonista è una famiglia del terzo mondo i cui membri muoiono ad uno ad uno per la fame e gli stenti. 
Tuttavia Pasolini dichiara: 


« Può sembrare strano, ma in questo momento ciò che più mi interessa sono le tragedie che sto scrivendo o limando: cinque sono pronte, la sesta l'ho appena iniziata. In tre giorni ne ho scritta una, io che ad un testo lavoro anche due, tre anni ». 

Nella sua casa in cima all'Eur, cui si arriva da un viale deserto battuto dal vento, è possibile cogliere i segni di un'attività fervida e molteplice come la sua. Inviti a mostre di pittura, conferenze, dibattiti culturali, movimenti giovanili, sono sparsi ovunque insieme a riviste, libri, i più recenti dei quali recano titoli come  Cattolicesimo e libertà, Dio è morto? Il telefono squilla in continuazione: è il parroco che lo invita ad una proiezione nella sala parrocchiale, il suo produttore, un aspirante scrittore. A tutti egli risponde personalmente, paziente e gentile. 


« Soltanto ora — prosegue — mi sono posto il problema di rappresentare i miei drammi. Scrivendoli, non avevo pensato al loro futuro, per questo credo che alcuni non siano rappresentabili. In tutti c'è una trama, ma è trama di pensiero, conflitto in termini ideologici ». 

Pochi conoscono le sue tragedie. Pilade, la prima che viene pubblicata, uscirà fra quindici giorni sa «Nuovi Argomenti». Bestia da stile doveva essere allestita dallo Stabile di Torino, che però ha rimandato il progetto alla prossima stagione. Pensate e scritte nello stesso tempo, come spiega l'autore, esse offrono versioni diverse di una stessa tematica: sono in versi, costruite secondo lo schema delle tragedie greche: un prologo, un epilogo ed alcuni episodi inframmezzati dal coro. 
Pilade si svolge nel periodo che va dalla caduta del fascismo ad oggi. In un ordine cronologico né rigoroso né lincare, Oreste organizza una rivoluzione che si ricollega ai principi della rivoluzione liberale francese. E fallisce. L'amico Pilade, che crede nella rivoluzione socialista, l'organizza ma fallisce ugualmente. Avrà successo invece la rivoluzione che scaturisce dal seno stesso di Argo, quella del neocapitalismo. Bestia da stile è una trasposizione più poetica ed immaginata di vicende autobiografiche dell'autore. Protagonista è un poeta cecoslovacco che ha vent'anni quando scoppia la guerra. Di educazione cattolica e borghese, egli fa la Resistenza, diventa marxista e raggiunge il massimo delle sue possibilità creative, poi fa l'esperienza amara dello stalinismo ed oggi si trova ad affrontare problemi ancora nuovi.

« Sia questo sia gli altri personaggi — spiega Pasolini — hanno uno spessore, una psicologia, che però non sta in funzione individuale ma serve ad illuminare i problemi dibattuti.Come scrittore non mi interessa il teatro della chiacchiera — proiezione del mondo borghese, espressione allusiva e indiretta della realtà, i cui epigoni sono Cecov alla lontana e Ionesco nella versione più ammodernata — né quello rituale, fisico, mimetico, che il Living Theatre fa in modo insuperabile. Il teatro in cui credo è quello della parola, delle idee. Come nelle tragedie greche, i miei personaggi parlano per spiegare ciò che è accaduto prima o durante gli intervalli, per ripensare le azioni compiute o ricercare le ragioni di quelle che faranno. Sono affermazioni uguali a quelle che fa Moravia, ma io sono ancora più rigoroso. Nel Dio Kurt, ad esempio, ci sono due persone che muoiono. In scena, nei miei drammi, non accade assolutamente nulla ». 

Ora che si accinge a presentare il suo teatro, e dopo le polemiche sollevate da Visconti, Zeffirelli. Moravia, cosa pensa della critica e del pubblico? 


« Io non credo che tutto il torto sia dei critici. In Italia, si sa, non c'è tradizione teatrale. Il teatro è una cerimonia sociale che coinvolge un pubblico ben determinato e differenziato: è un cerimoniale classista. A differenza del cinema, che arriva a spettatori di tutti gli strati sociali, lo spettacolo teatrale si rivolge ai piccoli borghesi. Chi, come i critici, è immerso fino in fondo in questo rapporto teatro-pubblico, non può che sbagliare. Ma la fisionomia dello spettacolo teatrale ha avuto una conseguenza ancora più grave: essa ha contribuito a tenere lontani dal teatro intellettuali e scrittori. Poteva il piccolo borghese — che in letteratura abbiamo ignorato, o aggredito, o maltrattato — essere lo stimolo a scrivere drammi o commedie? ».

Oggi tuttavia c'è almeno la promessa di un pubblico nuovo: ci sono i giovani e borghesi più illuminati che frequentano i cabaret, i teatrini di periferia. Cosa pensa di questo teatro di «irregolari»? 


« In linea di massima tutto il bene possibile. Però, Carmelo Bene è l'unico seriamente impegnato a rinnovarsi e a non scimmiottare nessuno. Tutti gli altri stanno facendo una falsa rottura. Non recitano come gli attori arrivati ma hanno dato vita ad una nuova accademia, ancora più fastidiosa e convenzionale. Invece di ragionare mitizzano. Invece di studiare raccolgono un po' di Artaud e di Sade, qualche suggerimento dal Living e da Grotowski. Continueranno così per chissà quanto tempo. Ma fra un anno saranno insopportabili ». 

Se i teatrini d'avanguardia gli provocano questa « rabbia intellettuale », qual è la sua posizione di fronte al teatro ufficiale? 


« Disturbo fisiologico: non riesco ad assistere ad uno spettacolo intero. Riconosco che registi come Strehler e Visconti hanno dei grandissimi meriti e si deve soprattutto a loro se nel dopoguerra il nostro teatro si è sprovincializzato, ha rimontato una corrente deficitaria raggiungendo livelli di indiscussa dignità. Ma oggi che possiamo specchiarci meglio con gli altri paesi d'Europa, ci accorgiamo che il lavoro fatto è insufficiente. In un momento in cui l'ansia di rinnovamento era cosi forte e generale in Italia, essi hanno istituito il teatro borghese ma non hanno affrontato la questione principale: la lingua. Perché sui nostri palcoscenici si parla un italiano che non è quello degli spettatori, una lingua artificiosa, retorica, accademica? ». 

Dopo queste dichiarazioni, non trova contraddittorio che per il suo debutto come autore e regista di teatro abbia scelto la sede di uno Stabile, e che Moravia si lamenti tanto perché Strehler non ha allestito il suo Dio Kurt? 


« Ho accettato la proposta dello Stabile di Torino perché mi si offriva un palcoscenico e la possibilità di dirigere il mio lavoro. Questo non significa che scenderò a compromessi. Se le strutture esistenti e gli attori disponibili saranno condizionati, me ne andrò. Per quanto riguarda Moravia, trovo giustissima l'osservazione. Penso che lui abbia preso un grosso abbaglio, di cui si è in parte reso conto. Adesso il nostro proposito è lavorare insieme, raccogliere intorno a noi altri giovani che scrivano per il teatro, formare un corpus di testi nuovi e — se Moravia continuerà a scrivere cose belle come Dio Kurt e i miei lavori si dimostreranno validi — fondare un nostro teatro, allargare l'iniziativa del Teatrino di via Belsiana. Io ho cominciato a girare film da cinquanta milioni. Oggi tutti noi, Moravia, la Maraini, Siciliano e gli altri che verranno, dovremmo metterci a lavorare come se avessimo vent'anni ». 

La situazione che lei ha tracciato è pessimistica. Una prospettiva positiva la vede nel lavoro condotto da un gruppo di autori. Non pensa che la tv potrebbe dare un contributo al rinnovamento dello spettacolo in Italia, se ad essa gli intellettuali apporteranno le loro energie? 


« Per carità. Penso impossibile una collaborazione con la tv a livello civile. Invece di fare le marce per la pace, io ne proporrei una per il rinnovamento della tv. Essa è più terribile della guerra nel Vietnam, della bomba atomica. E' pernicioso, ed irriducibile, il suo paternalismo, la falsa democrazia, il moralismo, il voler considerare tutti gli spettatori come piccolo-borghesi, di una misura media ed astratta, ignorando che in Italia ci sono anche i contadini, gli operai, gli intellettuali e, soprattutto, le persone intelligenti». 

Liliana Madeo 

Trascrizione da cartaceo a cura di B.Esposito.

Segue Lettera di precisazione al direttore 





Curatore, Bruno Esposito

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lunedì 5 settembre 2016

Pilade, l’orrore del potere

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pilade, l’orrore del potere 


«In questo mondo colpevole, 
che solo compra e disprezza, 
il più colpevole son io, 
inaridito dall’amarezza.»
(“A me” in “Epigrammi”, in “La religione del mio tempo”)


Il Pasolini di Ragazzi di vita, degli Scritti corsari, il regista di Salò o di Teorema, è senza dubbio quello più noto, più scomodo e più impegnato a indagare le piaghe della sua Italia, un intellettuale unico, in grado di saper individuare, con gli occhi disperati di chi ama, il regresso verso cui la società correva, uno sviluppo che Pasolini vede solo come un’accumulazione di beni non necessari.
Un intellettuale che ha diviso l’opinione pubblica e continua a farlo anche oggi, quaranta anni dopo la sua morte, perché ciò che ci ha lasciato è troppo immenso, troppo vero e troppo scottante.
Pasolini non si interessa alla scrittura teatrale almeno fino al ’66, anno in cui, costretto a letto per qualche mese, darà vita alle sue opere teatrali, prima fra tutte Pilade, nata dallo studio dell’Orestea di Eschilo, infatti lo scrittore friulano traduce l’opera greca per il teatro di Vittorio Gassman e immagina poi un’ideale continuazione. È in grado di trasportare la storia dell’Italia del dopoguerra e dei suoi giorni nella tragedia, in cui sopravvivono i personaggi dell’antichità greca.
Pilade è un capolavoro di metafore, di richiami, di echi nei quali bisogna immergersi per poterne trarre gli stimoli di riflessioni sulla contemporaneità; il punto di partenza è il terzo momento della tragedia eschilea, ovvero le Eumenidi, ritenuta la tragedia più politica in cui Eschilo sembra abbozzare quel tipo di governo che più tardi, con Pericle, raggiungerà il suo momento più maturo ovvero la democrazia. Al centro della tragedia c’è l’accusa mossa dalle Erinni ad Oreste per aver ucciso sua madre Clitemnestra e suo marito Egisto, e la difesa da parte di Apollo ed Atena, l’accusa è da parte di divinità ancestrali legate al culto della dea madre e dunque sostenitrici di una tradizione per cui il delitto consanguineo va punito, quello di Clitemnestra verso Agamennone non è punibile perché «non perpetrò strage di sangue uguale». Eschilo mette in scena un’istituzione civile che giudica Oreste, l’Areopago, dando vita a un tribunale di uomini presieduto da Atena. Quest’ultima istituisce un nuovo ordine «né anarchia né dispotismo: questo consiglio affido all’ossequio dei cittadini […] Se rispetterete questa istituzione, come merita, disporrete di un baluardo di salvezza per lo stato e per la città, quale alcuna umane gente non possiede.» L’affermazione di Atena, rappresenta il cuore di questa tragedia e forse anche lo spunto per Pasolini, qui la nuova forma di giudizio viene presentata come qualcosa di positivo e democratico, quasi commuove se si pensa a quando è stata scritta, Pasolini è probabile che rifletta su quanto l’antica Grecia, non ancora pienamente democratica, porti già con sé il seme della futura e matura democrazia periclea e quanto, invece, la sua Italia si proclami democratica senza esserlo affatto. Un’Italia che non lascia spazio al diverso, che è appannaggio solo della borghesia e di un partito politico, la Democrazia Cristiana che di cristiano non ha assolutamente nulla per Pasolini, un’Italia che non dà voce agli esclusi, ai vari Pilade dei suoi anni e non è un caso se il protagonista di questa tragedia novecentesca sia proprio lui, l’amico fedele di Oreste che nell’Orestea ha soltanto una battuta e per tutto il resto è soltanto un’ombra.
Oreste viene salvato ma le Erinni non accolgono questo cambiamento né, tanto meno, l’oltraggio a un tipo di sistema che voleva vedere punito chi si macchiava di un delitto consanguineo, si sentono umiliate e deposte ma Atena propone loro di diventare signore di una città che sempre le onorerà, trasformate prenderanno il nome di Eumenidi.
Al centro del Pilade c’è sia la neonata Repubblica italiana, sia la memoria della Resistenza partigiana, sia la drammaticità del boom economico che ha distrutto, per Pasolini, l’autenticità anche delle classi inferiori, ormai lontane da quella “Umile Italia” descritta ne Le ceneri di Gramsci.
La cosa che più colpisce è l’evoluzione del personaggio di Oreste, che riparte laddove Eschilo lo aveva lasciato, quindi da una posizione, se vogliamo, rivoluzionaria, perché ha sconvolto le regole nella sua città e nell’incipit pasoliniano è il fondatore della democrazia, rinunciando al suo potere legittimo e monarchico. Nel momento in cui la rivoluzione diventa sistema, inevitabilmente viene meno la dimensione eroica e diventa un uomo politico, perdendo così quella purezza di idee e di atteggiamenti avuti precedentemente. Egli finirà per incarnare a pieno la borghesia, sarà in grado anche di “vendersi” accettando il compromesso con Elettra, sua sorella, assolutamente legata, invece, alle forze del passato e, in quanto tale, molto distante dalle idee democratiche di partenza del fratello. In questo sembra che Pasolini voglia suggerire come gli ideali rivoluzionari, finché rimangono tali, sono positivi ma diventando istituzione si macchiano con la meschinità del potere, è emblematica a tal proposito la battuta di Pilade a Oreste, nel III episodio «Tu guardi con gli occhi miopi di chi ha il potere allora il tuo mutamento è regresso.»
Il prologo ha come protagonista il coro, il popolo appena uscito dalla tirannide, costituito da poveri in attesa di un cambiamento, Oreste è atteso perché è visto come colui in grado di spezzare questa ciclicità, c’è una chiara denuncia, già nell’incipit della tragedia, a una religione totalizzante per mezzo della quale l’uomo è stato in grado di giustificare tutto, anche l’orrore di ciò che è stato come frutto di una volontà superiore, ciò suggerisce un riferimento all’atteggiamento del popolo italiano dopo la guerra e probabilmente del popolo tedesco, non accettare la responsabilità ma aggrapparsi alla giustificazione di una guerra mai voluta né tantomeno sostenuta. («Ecco cosa significa aver attribuito tutto agli Dei! Ecco cosa significa aver considerato prima i signori che ci governavano paternamente e poi coloro che sono stati tiranni feroci– come il frutto di un’antica volontà più forte di noi, semplici uomini!»)
Il ritorno di Oreste ad Argo, insieme a Pilade, che ancora a quest’altezza del testo non parla, rallegra il popolo che si convince ad abbandonare la vecchia istituzione e a trasformarsi in democrazia, «Io sono qui a cambiare insieme a voi le istituzioni che mi vogliono Re», in questo progetto Oreste è illuminato da Atena, la dea nata dalla testa del padre che ha trasformato le Furie in divinità dei sogni per cui ora il passato si può soltanto sognare. Il progetto però non è accolto da Elettra, schiava del passato che vuole custodire la memoria, essa rappresenta il fascismo, una trasposizione all’attualità di quegli anni fa si che la si possa identificare con le frange di estrema destra, responsabile del tentativo di golpe Borghese.
Il popolo di Oreste quindi diventa un popolo benestante, assolutamente borghese, è chiaro il riferimento al boom economico, scrive infatti «ognuno di noi è partecipe di questa furia di crescere», un’affermazione drammatica quella che esce dalla penna di Pasolini e che riecheggia quanto lo scrittore afferma, in quegli anni, a proposito dello sviluppo ben diverso dal progresso, il primo lo vuole la destra economica e comporta la produzione di beni superflui, il secondo consiste nella creazione di beni necessari, dunque Oreste e il suo popolo diventano il sinonimo di una società capitalistica e benestante. Le Eumenidi da dee dell’irrazionalità selvaggia sono diventate dee dell’irrazionalità che sopravvive come capacità di sogno, sono sui monti ma metà di queste sono degenerate, tornate Furie e rientrate in città, nel cuore della democrazia liberale, le altre sono sui monti a ispirare la rivoluzione socialista di Pilade.
Pilade finalmente parla ed esprime il suo disappunto nei confronti del progetto di Oreste, la sua presa di posizione genera scalpore perché ha rotto gli schemi dell’abitudine a cui tutti si erano adeguati, il coro lo denigra, è una scena toccante quella creata da Pasolini, in cui a fare da protagonista è il mito del diverso, qui Pilade è lo stesso scrittore, d’altronde il rifiuto dei benpensanti borghesi è la sintesi dell’atroce esistenza pasoliniana. Pilade è «diversità fatta carne», il popolo aveva accettato la diversità di Pilade perché la sua diversità era ciò che avevano stabilito che fosse, un uomo dotato di grazia, ora invece è solo «diversità che dà scandalo». Questo passaggio non può che richiamare alla memoria quanto Pasolini scrive sul Corriere della Sera, che poi confluirà nelle Lettere luterane (1976), quando lo scrittore si rivolge al suo Gennariello affrontando il discorso sulla tolleranza (Paragrafo terzo: ancora sul tuo pedagogo) e definendola non reale, perché il fatto che si tolleri qualcuno significa già condannarlo, scrive: «fin che il diverso vive la sua diversità in silenzio chiuso nel ghetto mentale che gli viene assegnato tutto va bene: e tutti si sentono gratificati dalla tolleranza che gli concedono. Ma se appena egli dice una parola sulla propria esperienza di diverso […] si scatena il linciaggio […] l’incomprensione più feroce lo getta nella degradazione e nella vergogna.» e poi ancora dirà negli “Scritti corsari” che la diversità, in un periodo di tolleranza, è la più grande colpa.
È da questo momento in poi che emerge come Pasolini scinde in due Pilade e Oreste, a volte coincidono, altre volte si allontanano, inserendo anche, tra le righe, un’altra coppia che fa da contraltare ovvero se stesso e suo fratello. Pilade dunque si stacca da Oreste e diventa il rivoluzionario, l’oppositore, militerà sulle montagne richiamando l’eco della resistenza partigiana e quindi di suo fratello Guido Alberto, Pilade è il socialista, è Pasolini controcorrente, egli non ha un vero e proprio progetto tanto da non riuscire a trovare un “ubi consistam”, dirà che sono le Furie ad avergli dato «questa irragionevole voglia di distruzione.»
C’è un passaggio che colpisce molto, volto a stigmatizzare l’enorme distanza del potere di Oreste e quindi dello Stato italiano, che si professa democratico, e il vero concetto di democrazia, che viene tradito nelle parole di Oreste che sempre più diventa uomo politico becero e meschino, Pilade domanda se i folli e i miserabili non siano cittadini e Oreste risponde «Non sono quelli che contano» perché per il potere il diverso non conta, colui che non si uniforma alla moltitudine e non si perde in essa, la voce fuori dal coro non ha validità soprattutto se queste sono le voci dei poveri, ad avere importanza e considerazione è la massa indistinta e manipolabile, inetta, la stessa che poi, più avanti nel testo dirà: «Noi non siamo uomini ispirati, come lui […] abbiamo bisogno di una virile forma di soggezione e obbedienza, che ci consenta di vivere come non possiamo che vivere: una nostra umile e attiva vita senza pretese, e con un solo forte ideale comprensibile a noi.»
È assolutamente una dichiarazione di mediocrità, di piccolezza di questi che sono i figli di ciò che Pasolini definisce “nuovo fascismo” ovvero il consumismo, è il popolo alienato dalla tv “ipocrita e imbecille”.
Pilade da ombra di Oreste diventa avversario, senza un vero progetto ma con la voglia di distruzione «nell’irragionevole desiderio di non essere», la città è destinata a perdersi «non ci sono parole di salvezza». Alla condanna di Pilade da parte del coro risponde Oreste con il suo dolore, che si manifesta e si fa carne, il che mette bene in luce la duplice unicità che i due costituivano («Ah, io non sono Oreste che vede ma Pilade che se ne va, che ci abbandona per sempre…»). La disperazione per l’abbandono è figlia dell’amore viscerale che univa i due, da intendere come “fratellanza cristiana”, la stessa che Pasolini fa risaltare ne “Il Vangelo secondo Matteo”.
La militanza di Pilade sulle montagne lo mette di fronte a una realtà per lui scomoda e dolorosa, che si concretizza nell’assenza di un vero progetto da parte sua «Odio l’irrealtà dei luoghi dove per diritto dovrei vivere; ma insieme non conosco la realtà in cui vorrei vivere rinunciando a quel diritto. Sono un’anima in pena.» Pilade è molto pasoliniano in questi aspetti, appartiene a una classe che lui stesso disprezza, esalta il mito della semplicità campestre, lo stesso amato da neorealisti quali Vittorini e Pavese, si sente inadeguato ed estraneo alla sua classe tanto da affermare «Per me, è la prima volta nella storia: UN UOMO RICCO SOGNA DI ESSERE UN UOMO POVERO.»
Qui è il Pasolini che vede nel mondo contadino il vero depositario dei valori positivi, è il più vicino al primo romanzo “Il sogno di una cosa” dove amicizia, amore e solidarietà guidano i protagonisti, sentimenti destinanti a morire con il “nuovo fascismo”, il consumismo, e che sono assenti nel popolo di Oreste.
Quest’ultimo ignora completamente il mondo rurale, lui «felice democratico» indifferente alla miseria; più si va avanti nel testo più appare la complessità del personaggio di Pilade e l’autobiografismo, un uomo a cui è stato dato «l’abbietto e intransigente desiderio di capire e negare», quindi destinato alla sofferenza, al senso di non appartenenza, l’espressione usata da Pilade è quella che meglio sintetizza l’esistenza stessa del poeta: un’intelligenza lucida nel giudicare e spietata nel presagire.
Pasolini non può rinunciare al tema della Resistenza, a quel capitolo della storia che vede protagonista suo fratello, affida alla Furie il compito di annunciare a Pilade quanto accadrà, un evento che il poeta guarda con occhi pieni di dolore ma al tempo stesso come uno dei momenti più lirici della nostra storia che oltretutto ha permesso la caduta di barriere sociali di ogni sorta, «Negli occhi degli operai ci sarà la sapienza, negli occhi degli intellettuali l’innocenza», tutti con un solo obiettivo, un momento quasi epico agli occhi di un uomo che non ha partecipato in prima persona ma che ben conosce la nobiltà delle idee di chi è partito, primo fra tutti suo fratello. «[…]Ho dolorosa e accesa,/ nel sorriso, la luce con cui vide,/ oscuro partigiano non ventenne/ ancora, come era da decidere/ con vera dignità, con furia indenne/ d’odio, la nuova nostra storia: e un’ombra,/ in quei poveri occhi, umiliante e solenne…» (da “Comizio” in “Le ceneri di Gramsci”). In maniera poeticamente solenne Pasolini non risparmia il suo senso di colpa per non aver partecipato, è molto vicino qui al finale de ”La casa in collina”, e tramite le Eumenidi definisce gli occhi dei sopravvissuti «lucidi di stupida e stupenda vita».
Nella lotta destinata al fallimento Pilade è insieme a contadini, operai, disoccupati, immigrati dalle campagne, l’esercito di Oreste invece si vende, alleandosi con quello di Elettra perché in grado di combattere fino alla morte, d’altronde gli eserciti dei due fratelli finiscono per coincidere, sono borghesi «siamo i professionisti della città, dietro a loro, come dietro a noi, c’è chi lavora e non possiede nulla amando in noi un ideale non suo; perché innocentemente teme di perdere il lavoro che gli diamo […] Noi tuoi compagni e i compagni di Elettra siamo le stesse persone: nulla di reale ci divide.»
È l’affermazione raccapricciante di una borghesia assolutamente capitalistica, consapevole di reggere un manipolo di uomini che da essa dipende, l’esercito di Oreste diventa «corpo senza nervi, senza più riflessi» come dice lo scrittore parlando dell’Italia in un’ intervista rilasciata a Luisella Re su “Stampa-Sera” il 1 gennaio 1975, ha bisogno di alleanze per poter sopravvivere e in questo si può leggere tanta storia d’Italia, dal camaleontismo di Depretis alla situazione politica di oggi, alleanze imprevedibili che prendono il posto della solidità dei principi in cui credere e quindi anche qui diventa impossibile fare vere distinzioni, non c’è più quella netta distanza tra Elettra e Oreste, incontrata all’inizio quando l’uomo incarnava ancora istanze innovative, è la stessa impossibilità di fronte alla quale si trova Pasolini quando, a partire dalla fine degli anni ’60, scrive di non poter più distinguere la destra e la sinistra («Una decina di anni fa, pensavo, tra noi della generazione precedente, un provocatore era quasi inconcepibile[…] infatti la sua sottocultura si sarebbe distinta, anche fisicamente, dalla nostra cultura! L’avremmo riconosciuto dagli occhi, dal naso, dai capelli! […] ora questo non è più possibile[…] Destra e Sinistra si sono fisicamente fuse» 7 gennaio 1973. Il «Discorso» sui capelli in Scritti corsari).
Persino Atena, apparsa a Oreste a profetizzare il fallimento del progetto di Pilade, “rimprovera” questa nuova alleanza generatrice di morte e di sangue, il beneficio può essere solo passeggero, e predice anche una NUOVA RIVOLUZIONE, che molto probabilmente corrisponde alla rivoluzione economica, antropologica e sociale a cui va incontro l’Italia di quegli anni, quella rivoluzione che Pasolini tanto detesta e in cui vede le fondamenta della distruzione e dell’annichilimento e autoannientamento che raggiunge le punte massime dell’espressività pasoliniana in “Salò o le 120 giornate di Sodoma”. Probabilmente il riferimento qui è anche alla rivolta studentesca del ’68, disprezzata dallo scrittore con tutte le sue forze perché portata avanti dai figli borghesi di quella classe tanto detestata, «essi sono in realtà andati più indietro dei loro padri, risuscitando nella loro anima terrori e conformismi, e, nel loro aspetto fisico, convenzionalità e miserie che parevano superate per sempre» (7 gennaio 1973:il «Discorso» dei capelli in Scritti corsari).
Pilade dai monti guarda la sua città con «immedicabile amore», un saluto dolce e disperato che rievoca “Addio monti” di Manzoni, carico di struggente dolore per l’allontanamento dal proprio paese che in Pilade corrisponde anche alla perdita delle sue stesse ideologie rivoluzionarie e controcorrenti. La fratellanza tra Oreste e Pilade ancora una volta corrisponde alla coppia Pier Paolo- Guido Alberto, l’ammirazione del primo verso il secondo che ha il coraggio di andare è quindi un tributo al coraggio partigiano del fratello «io di te non avevo pietà ma ammirazione. Uomo giovane che te ne andavi!» La presa di coscienza da parte di Pilade del suo fallimento raggiunge punte alte nelle parole di Oreste («sia io che la nostra città NON SIAMO PIÙ QUELLO CHE CREDI») e segna il disincanto e in un certo senso, la delusione dello stesso autore quando si rende conto che anche il suo amato mondo rurale incontaminato si muove verso la macchina infernale dello sviluppo e della modernità.
La città è oramai progredita e l’esercito di Pilade è sfasciato, è solo nel bosco, egli non è riuscito a essere un capo rivoluzionario, assurge a simbolo assoluto dell’uomo individuale perché è la sua complessità a renderlo diverso, dopo il dialogo finale con Atena in cui Pilade vorrebbe abiurare alla Ragione, la tragedia si conclude con la maledizione di Pilade contro la Ragione e ogni Dio.
Ancora una volta Pasolini è capace di esprimere l’amarezza dei suoi tempi, quella di Pilade è la parabola della società italiana dal dopoguerra fino ai suoi giorni, il periodo che, sulla bocca di tutti, prendeva il nome di progresso, boom economico ma per l’intelligenza critica del poeta non poteva che chiamarsi “nuovo fascismo”, un’epoca di volgarità, da Pasolini intesa come sinonimo di inautentico, posticcio, contaminato e quindi di conseguenza fragile, violento, feroce.
Immensa è la sua capacità nel riprendere una tragedia greca, i suoi personaggi anche i più complessi come quelli delle Eumenidi, e adattarli alla realtà del suo tempo, queste ultime, obbedendo sul finale tutte quante ad Atena, diventano dee del benessere e della nuova era opulenta, tanto che Pilade/Pasolini non ha più nulla davanti a sé e gli resta una sola verità: l’orrore del potere.
Per concludere questo commento aperto con la citazione sull’amarezza da “A me ” in “La religione del mio tempo”, vengono in soccorso le parole strazianti del poeta, sempre nella stessa raccolta nella sezione omonima:

[…]
Così la mia nazione è ritornata al punto
di partenza, nel ricorso dell'empietà.
E, chi non crede in nulla, ne ha coscienza,

e la governa. Non ha certo rimorso,
chi non crede in nulla, ed è cattolico,
a saper d'essere spietatamente in torto.

Usando nei ricatti e i disonori
quotidiani sicari provinciali,
volgari fin nel più profondo del cuore,

vuole uccidere ogni forma di religione,
nell'irreligioso pretesto di difenderla:
vuole, in nome d'un Dio morto, essere padrone.

Qui, tra le case, le piazze, le strade piene
di bassezza, della città in cui domina
ormai questo nuovo spirito che offende

l'anima ad ogni istante, - con i duomi,
le chiese, i monumenti muti nel disuso
angoscioso che è l'uso d'uomini

che non credono - io mi ricuso
ormai a vivere. Non c'è più niente
oltre la natura - in cui del resto è diffuso

solo il fascino della morte - niente
di questo mondo umano che io ami.
Tutto mi dà dolore: questa gente

che segue supina ogni richiamo
da cui i suoi padroni la vogliono chiamata,
adottando, sbadata, le più infami

abitudini di vittima predestinata;
il grigio dei suoi vestiti per le grigie strade;
i suoi grigi gesti in cui sembra stampata

l'omertà del male che l'invade;
il suo brulicare intorno a un benessere
illusorio, come un gregge intorno a poche biade;
[…]
nei loro lineamenti quasi umani
di grigio mattone o smunto cotto:
tutto distrugge la volgare fiumana

dei pii possessori di lotti:
questi cuori di cani, questi occhi profanatori,
questi turpi alunni di un Gesù corrotto

nei salotti vaticani, negli oratori,
nelle anticamere dei ministri, nei pulpiti:
forti di un popolo di servitori.


Diletta Maurizi



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Curatore, Bruno Esposito

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giovedì 1 settembre 2016

Pier Paolo Pasolini: «Un mondo pieno di futuro», di Alessandro Barbato

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Pier Paolo Pasolini: «Un mondo pieno di futuro»
di Alessandro Barbato, 15 settembre 2013


«Il futuro di un popolo è nella sua ansia di futuro
E la sua ansia è una grande pazienza»
Pier Paolo Pasolini, Appunti per un’Orestiade Africana


Il 25 Agosto del 1960, Roma e l’Italia si apprestavano a mostrarsi, per la prima volta in assoluto anche attraverso la mondovisione, in occasione della cerimonia di apertura dei XVII Giochi Olimpici dell’era moderna. Un evento che aveva avuto una lunga gestazione, una complessa fase di organizzazione che verrebbe da dire stranamente, pensando alla realizzazione di analoghi eventi odierni, fu quasi del tutto priva di scandali e polemiche. Un appuntamento che sarebbe entrato nella storia del Paese che in quegli anni conosceva uno sviluppo vorticoso che in breve tempo ne avrebbe mutato radicalmente i costumi.
Più di ogni altro intellettuale italiano attento ai cambiamenti e agli stravolgimenti che coinvolgevano l’Italia, Pier Paolo Pasolini, in quel periodo, era alle prese con la realizzazione del suo primo film, il suo primo capolavoro, Accattone; e, da qualche tempo, in qualità di scrittore e intellettuale, teneva una rubrica, in cui dialogava appassionatamente con i lettori dei più disparati temi, sul settimanale “Vie Nuove”, fondato nel 1946 da Luigi Longo che in tal modo cercava uno strumento per avvicinare le masse alle politiche della sinistra italiana. Pasolini che, com’è noto, era anche un grande appassionato di sport, pertanto non si fatica a crederlo entusiasta quando la direttrice di allora di “Vie Nuove”, Maria Antonietta Macciocchi, gli propose di fare da inviato all’evento.
In tale veste lo scrittore partecipò alla quasi totalità delle gare, scrivendo dei gustosi resoconti che, come suo solito, trascendono la cronaca per assumere i contorni di vivide, e anche un po’ provocatorie, analisi sociologiche.

Così, quel 25 agosto di tanti anni fa, eccolo presente alla Cerimonia di apertura dei Giochi, al cospetto di un mondo che sfila, «pieno di futuro», tra gli applausi del pubblico giunto nel nuovissimo Stadio Olimpico da ogni parte del pianeta. E Un mondo pieno di futuro sarà proprio il titolo di quel primo resoconto, pubblicato il 3 settembre del 1960. (Ora in P.P. Pasolini, Romanzi e Racconti, a cura di W. Siti e S. De Laude, «I meridiani», Mondadori 1998, vol. I, pp. 1527-1531. *) In esso Pasolini guida il lettore, con un movimento che sembra quasi quello della macchina da presa, già a partire dal viale che conduce allo stadio, notando subito come l’idea di trovarsi in mezzo all’allegra e scanzonata folla che ogni domenica si raduna per assistere a un incontro di calcio, di cui tanto era appassionato, non corrisponda affatto alla realtà di quello che osserva:


"Intorno a me camminava con calma, e quasi in silenzio, una folla del tutto nuova: i vestiti insieme più vivaci e modesti dei nostri, le facce e i corpi meno belli ma più sani, i sorrisi senza ironia e senza volgarità, ma anche un po’ senza vita. Erano quasi tutti stranieri: tra loro galleggiava la testa di qualche romano, sperduto, col sorriso un po’ spento tra le labbra, come appunto deve essere un romano all’estero, con il suo estro come fossilizzato e fatto cosciente, e perciò falso, vecchio. I gelatari gridavano Ice-cream!”. 
(P.P. Pasolini, Un mondo pieno di futuro, op. cit., p. 1527.)

Anche dentro lo stadio Pasolini nota subito la strano ordine, così diverso dal clima di una partita di calcio, che regna nella moderna struttura. La stragrande maggioranza del pubblico è composta da stranieri, così accanto a lui, «punticino sperduto nel babelico ovale», non si sentono che parole straniere, «le più inafferrabili», simili a stridi di rondini, quasi come doveva apparire a un greco dell’antichità un qualsiasi idioma barbaro. Pasolini parla anche di facce anonime, facce simili a quelle 


«dei deportati a Buchenwald o a Dachau: per questo mi sono simpatici, […] non ho mai assistito a uno spettacolo in così rassicurante e fraterna compagnia.»

Ma eccoci alla cerimonia, l’Inno di Mameli, l’arrivo del Presidente Gronchi. Pasolini racconta che la cerimonia si divide in due parti, molto diverse tra loro, la prima bella e anche commovente, per certi versi. La seconda brutta, «spiacevole». Sotto il sole che cala ecco cominciare la lunga sfilata delle nazioni partecipanti, sfilata che non somiglia affatto a un rituale macchinoso e arido, contrariamente alle previsioni. Apre la Grecia e chiude l’Italia, uniche, anche un po’ retoriche e fastidiose, eccezioni a quell’«istituzione meravigliosa» rappresentata dall’ordine alfabetico. Pasolini racconta degli applausi composti del pubblico, delle piccole trovate che ogni delegazione ha studiato per catturare l’attenzione della folla composta. Entusiasmo per tutti, solo la delegazione della Spagna franchista «spanderà intorno un certo disagio», con lo scrittore che non nasconde di provare una calorosa simpatia per quelle nazioni come il Ghana, la Liberia e, ancora di più, per le nazioni che si presentavano alla sfilata con delegazioni poco nutrite:


"Quelle piccole rappresentative, con la loro bandiera in testa, e per la maggior parte, incapaci di andare a passo di marcia, e con davanti i dirigenti, spesso pancioni e ansimanti, tutti sudati, man mano che si presentavano e passavano, diventavano qualcosa di enorme e imprevisto. Erano, veramente, tutta la loro nazione. Bastava il nome del cartello che li precedeva, e le loro facce quasi sempre umili, di gente modesta, spesso povera, perché l’intero loro mondo fosse evocato. Ed erano brani di storia contemporanea, vivi, come brandelli di carne, sorprendenti o strazianti. Il Giappone, Cuba, parevano portare dentro lo stadio, così puro, così anonimo, la concretezza vivente delle recenti battaglie, delle recenti morti, delle recenti passioni: ma tutto come purificato, diventato esperienza e dolore di ognuno di noi, e, come tale, superato, vinto dall’incalzare del tempo e della storia. Erano come improvvise ventate, una dopo l’altra: il distaccato, tranquillo riassunto, a passo di marcia, sotto lo sventolare delle bandiere, di tutta la nostra ultima storia. Che deve ancora farsi: e si farà, e richiederà nuove battaglie, nuovi morti, nuove passioni." 
(Ivi, p.1529.)

Il racconto pasoliniano si fa accorato, l’apertura delle Olimpiadi sembra la metafora dell’inaugurazione di un nuovo corso nella storia della civiltà umana. Una parata in cui è presente, a così pochi anni di distanza da un conflitto mondiale che come non mai aveva stravolto il senso stesso dell’essere uomo, l’intero mondo. Un mondo «incandescente» e pieno di futuro, descritto con toni che ricordano quelli che successivamente il regista avrebbe utilizzato negli straordinari “Appunti per un’Orestiade africana”. «Un mondo che sarà così diverso da quello che ci siamo abituati a considerare nostro: perché gli uomini di colore sono liberi, perché gli stati più poveri cominciano una loro vita civile»; ma anche perché Usa e Urss sono a una svolta decisiva che li porterà a possedere il cosmo, «a riordinare in un’altra organizzazione questa terra».
L’entusiasmo di Pasolini si spegne rapidamente, quando la sfilata lascia il posto alla seconda parte della cerimonia, quella durante la quale il ministro Andreotti pronuncia il discorso di benvenuto:


"E credo sia difficile immaginare un discorso più retorico e provinciale del suo. E interminabile, poi: tanto da finire miseramente tra gli zittii generali. Non parliamo dei rari romani, che cominciavano a fare «Uuuuuh!», «E piantala!», ma degli stranieri stessi, che, benché educatamente, davano segni di impazienza: veramente non riuscivano a concepire il filo conduttore di tanto municipalismo, di tanta povera retorica, di tanto ovvio orgoglio per l’opera svolta, che riduceva Roma (che noi, lo so, abbiamo visto prepararsi con tanto affanno) a un capoluogo di provincia." 
(Ivi, p.1530.)

Un discorso che deve aver davvero devastato il cronista Pasolini, tanto che da lì in avanti il tono muta decisamente, con il racconto che prosegue con il resoconto delle fasi più insopportabilmente “retoriche” della manifestazione: l’esecuzione dell’Inno olimpico, l’ingresso della bandiera olimpica, le tre salve di artiglieria, il volo dei piccioni e il suono di tutte le campane dell’Urbe. «Tutto ciarpame decadente e estetizzante, merce del peggior neo-classicismo e del peggior romanticismo», a cui viene assimilata anche l’accensione del sacro fuoco olimpico. Tuttavia la parte più sgradevole e pesante della manifestazione viene presto dimenticata, messa in un angolo come qualcosa che si deve stoicamente sopportare. Del resto:


"Ingoiare e digerire cose del genere è una nostra vecchia abitudine. Resterà la parte più bella: questa giovanile, colorita visione del mondo riunito in una pacifica sfida, questa evocazione dei momenti storici, come staccati dal male e dal bene, quasi pronti a far parte di una coscienza più alta e serena, quella che li giudicherà domani." 
(Ivi, p. 1531.)

© Alessandro Barbato

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*Interessantissimo è anche il secondo resoconto di Pasolini, pubblicato il 17 settembre 1960 e intitolato Dramma sul filo, in cui lo scrittore si sofferma sulla descrizione di alcune gare con toni epici e drammatici e dove peraltro sono contenute originali riflessioni sullo sport che si avvia a divenire “spettacolo”, commerciale e commercializzabile e dove lo scrittore spiega di preferire gli sport più popolari, come il calcio e la boxe, alla elitaria atletica leggera. Non a caso il pezzo contiene, quasi a contrapporsi ai fasti dei giochi olimpici, una rievocazione di una gara dilettantesca di tiro alla fune, consumata sulla spiaggia di Ostia, allo stabilimento Ondina, tra una comitiva di ragazze italiane e di coetanee ungheresi che si erano casualmente incontrate sull’arenile. Cfr.: P.P. Pasolini, Dramma sul filo, in Id., Romanzi e Racconti, op. cit., pp. 1532-1536.

Fonte:
Già pubblicato su: Pasolinipuntonet




Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi