"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Commento
La poesia descrive una recessione immaginata come catastrofe sociale e culturale: paesaggi urbani e rurali impoveriti, giovani che tornano sconfitti, famiglie che vivono la privazione, un senso di deserto umano e la memoria di un passato più pieno. La scena è intensa e visiva, contaminata da nostalgia e minaccia, con elementi simbolici (mandolino, zoccolo del cavallo, vecchi palazzi) che trasformano la crisi economica in una fine del mondo intima e mitica.
Pier Paolo Pasolini non propone una semplice critica economica: lo «sviluppo» diventa un giudice morale, un dispositivo simbolico che rimodella desideri, rapporti sociali e forme di vita. Lungi dall’essere un inevitabile progresso tecnico, lo sviluppo capitalistico è per Pasolini un modello culturale da respingere radicalmente, non da migliorare o adattare.
Negli anni del boom economico Pasolini osserva la trasformazione dell’Italia con occhio antropologico e polemico. L’autore contesta l’idea che la sinistra debba limitarsi a correggere gli effetti collaterali della crescita: proporre nuovi modelli di sviluppo equivale ad accettare il paradigma dominante. La sua provocazione oggi risuona nel dibattito su decrescita, sostenibilità e senso della politica.
Pasolini distingue tre atteggiamenti possibili verso lo sviluppo:
• accettarlo e provare a risolverne le conseguenze con politiche tecniche;
• restare nel suo orizzonte proponendo varianti o «nuovi modelli»;
• rifiutarlo radicalmente come categoria normativa della vita sociale.
La sua scelta è netta: non basta rifiutare alcuni aspetti dello sviluppo, bisogna rifiutare lo sviluppo stesso. Non si tratta di errori tecnici o di cattiva gestione, ma di principi «maledetti» che fondano una società borghese come ideale e che trasformano ogni ambito della vita in merce o funzione produttiva.
Per Pasolini lo sviluppo non è solo crescita di PIL o industrializzazione: è una trasformazione che ridefinisce gusti, linguaggi, rapporti familiari e ruoli sociali. Il risultato è una perdita di spessore umano:
la socialità si assottiglia in consumo e massa;
la cultura popolare viene omologata a standard produttivi;
le forme di vita contadine o comunitarie vengono cancellate come «arretrate».
Pasolini parla di una sostituzione di valori: il successo economico diventa il metro dell’esistenza, mentre relazioni, cura e senso vengono declassati o resi funzionali all’accumulazione.
Proporre «nuovi modelli di sviluppo» significa, secondo Pasolini, confermare la legittimità del paradigma capitalistico. Anche una sinistra che mira a correggere gli effetti sociali e ambientali dello sviluppo conserva la logica dello stesso: migliorare il motore invece di cambiare direzione. Questa forma di riformismo si trasforma spesso in managerialismo: la politica si occupa di ottimizzare processi produttivi piuttosto che di interrogare finalità e senso. Pasolini avverte un paradosso: i comunisti che collaborano alla modernizzazione totale rischiano di diventare realistici alla peggior maniera, amministratori di una trasformazione che spoglia la società della sua umanità.
Pasolini non accetta l’idea di uno sviluppo lineare e irreversibile. Anzi, ipotizza che crisi e recessioni possano riportare la società a condizioni in cui siano possibili ripartenze diverse. In questo senso la crisi non è solo calamità da evitare, ma occasione per ripensare radicalmente priorità e strumenti. Se si dovrà «ricominciare daccapo», lo sviluppo ripartito deve avere principi totalmente diversi da quelli del passato. Questa prospettiva non è nostalgica: non vuole tornare a un passato ideale, ma pretende che la politica si assuma il compito di immaginare forme di vita non funzionali all’accumulazione.
Le parole di Pasolini tornano oggi in molte discussioni:
il movimento per la decrescita critica l’idea che la crescita illimitata sia desiderabile o sostenibile;
la crisi climatica rende evidente l’insostenibilità del modello produttivista;
le forme di precarietà lavorativa e l’alienazione da performatività riproducono le denunce pasoliniane sulla perdita di senso.
Il testo va letto nella doppia chiave di documento sociale e poema visivo. La scelta di immagini popolari — «calzoni coi rattoppi», «pezzo di pane», «mandolino» — avvicina il lettore alla concretezza della privazione, mentre la lingua elevata e simbolica trasforma la descrizione in un’evocazione quasi escatologica: «La sera sarà nera come la fine del mondo». Anche se la voce è traduttiva, lo spirito pasoliniano resta riconoscibile nella tensione fra critica sociale e lirismo: la denuncia delle disuguaglianze si fa scena, teatro di memorie e di timori collettivi.
Il cuore del testo è la rappresentazione della povertà come fatto collettivo e duraturo. Le fabbriche che «crolleranno un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera» non sono solo edifici che chiudono: sono simboli di un modello produttivo che si sfalda. Il ritorno dei lavoratori — i giovani «tornati da Torino o dalla Germania» — segnala l’illusione migratoria e il fallimento delle promesse di riscatto economico. La minestra scarsa e il pane misurato diventano misure quotidiane di una recessione che tocca il corpo. La descrizione dei giovani è ambivalente: «pieni di giovani straccioni» e più avanti «i banditi avranno i visi di una volta» raccontano di individui che rientrano cambiati, talvolta disillusi e pericolosi. La violenza è minima ma rivelatrice: armati «solo di un coltello», questi giovani incarnano una tensione sociale che non esplode in grandi rivolte ma in microaggressioni e insicurezze quotidiane. I vecchi, «padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori», riacquistano autorità domestica ma in un quadro di miseria che rende la loro padronanza effimera. Il testo consegna forti immagini di memoria: i «palazzi ... come montagne di pietra» e lo zoccolo del cavallo che «ricorderà ciò che è stato» trasformano il passato in una presenza palpabile nel presente. La natura — il prato, il fiume, le querce — non resiste alla decadenza ma resta a osservare, testimone silenziosa di ciò che si perde. Il mandolino che qualcuno «tirerà fuori» parla di una nostalgia che è al tempo stesso conforto e rimpianto.
Il linguaggio alterna realismo popolare e lirismo simbolico. Le immagini sensoriali sono ricorrenti: odori («aria saprà di stracci bagnati»), suoni («grilli», «tuoni», «zoccolo del cavallo»), colori («tramonti rossi», «sera nera»). Questo repertorio sensoriale non serve solo ad abbellire il testo, ma a rendere la recessione qualcosa di percepibile, tangibile. L’uso di accostamenti ossimorici — città «grandi come mondi» ma «piene di gente che va a piedi» — mostra la contraddizione tra grandezza formale e decadenza fattuale. Le scelte lessicali, semplici e popolari, garantiscono immedesimazione: il lettore non è chiamato a interpretare metafore astratte, ma a riconoscere la concretezza di una vita ridotta.
Bruno Esposito
La recessione
di Pier Paolo Pasolini
La poesia La recessione di Pasolini nella sua versione originale, pubblicata in "La nuova gioventù" che è la è seconda forma de "La meglio gioventù" (Einaudi, 1974), è' una poesia in friulano, poi tradotta in italiano dallo stesso Pasolini e adattata a testo musicale.
La canzone La recessione, cantata da Alice su testo di Pier Paolo Pasolini e musicata da Mino De Martino, è contenuta nel suo album "Mezzogiorno sulle Alpi" (1992).
La recessione
(testo per la canzone da P.P. Pasolini)
Vedremo calzoni coi rattoppi;
rossi tramonti su borghi vuoti di macchine
pieni di povera gente
che sarà tornata da Torino o dalla Germania.
I vecchi saranno padroni dei loro muretti
come poltrone di senatori;
e i bambini sapranno che la minestra è poca,
e cosa significa un pezzo di pane.
E la sera sarà più nera della fine del mondo,
e di notte sentiremo solo i grilli o i tuoni;
e forse qualche giovane
tra quei pochi tornati al nido
tirerà fuori un mandolino.
L'aria saprà di stracci bagnati.
Tutto sarà lontano.
Treni e corriere passeranno ogni tanto
come in un sogno.
Le città grandi come mondi
saranno piene di gente che va a piedi,
con i vestiti grigi e dentro agli occhi una domanda
che non è di soldi ma è solo d'amore,
soltanto d'amore.
Le piccole fabbriche
sul più bello di un prato verde
della curva di un fiume
dal cuore di un vecchio bosco di querce
crolleranno un poco per sera,
muretto per muretto,
lamiera per lamiera.
E gli antichi palazzi
saranno come montagne di pietra
soli e chiusi come erano una volta.
E la sera sarà più nera della fine del mondo,
e di notte sentiremo i grilli e i tuoni
e forse qualche giovane
tra quei pochi tornati al nido
tirerà fuori un mandolino.
L'aria saprà di stracci bagnati.
Tutto sarà lontano.
Treni e corriere passeranno ogni tanto
come in un sogno.
I banditi avranno i visi di una volta
coi capelli corti sul collo
e gli occhi di loro madre,
pieni del nero delle notti di luna
e saranno armati solo di un coltello.
Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra,
leggero come una farfalla,
e ricorderà ciò che è stato,
in silenzio, il mondo
e ciò che sarà.
La recessione (poesia in friulano di P.P. Pasolini)
I jodarìn borghèssis cui tacòns;
tramòns ros su borcsvuèis di motòurs
e plens de zòvinsstrassòns
tornàas da Turin o li Germàniis.
I vecius a saràn paròns dai so murès
coma di poltronis di senatòurs;
i frus a savaràn che la minestra a è pucia,
e se c'ha val un toc di pan.
La sera a sarà nera coma la fin dal mond,
di not si sentiràn doma che i gris
o i tons; e forsi, forsi, qualchi zòvin
- un dai pus zòvins bons turnàas al nit -
a tirarà fours un mandulìn. L'aria
a savarà di stras bagnàs. Dut
a sarà lontàn. Trenos e corieris
a passaràn di tant in tant coma ta un siun.
Li sitàs grandis coma monds
a saràn plenis di zent ch'a vas a piè
cui vistìs gris, e drenti tai vuj
'na domanda, 'na domanda ch'a è,
magari , di un puc di bès, di un pàssul plasèir,
ma invessi a è doma di amòur. I antics palàs
a saràn coma montaglia di piera
soj e sieràs, coma ch'a erin ièir.
Li pìssulis fabrichis tal pì bièl
di un prt verd ta la curva
di un flun, tal còur di un veciu
bosc di roris, a si sdrumaràn.
un puc par sera, murèt par murèt
lamiera par lamiera. I bandìs
(i zòvin tornàs a ciasa dal mond
cussì divièrs da coma ch'a èrin partìs)
a varàn li musis di 'na volta,
cui ciaviej curs e i vuj di so mari
plens dal neri da li nos di luna -
e a saràn armàs doma che di un curtìa.
Il sòcul dal ciavàl al tociarà
la ciera, lizèir coma 'na pavèa,
e al recuardarà se ch'al è stat,
in silensiu, il mond e chel ch’al sarà.
Ma basta con questo film neorealistico.
Abbiamo abiurato da ciò che esso rappresenta.
Rifarne esperienza val la pena solo
se si lotterà per un mondo davvero comunista.
La recessione (traduzione in italiano di P.P. Pasolini)
Vedremo calzoni coi rattoppi; tramonti rossi su borghi vuoti di motori e pieni di giovani straccioni tornati da Torino o dalla Germania.
I vecchi saranno padroni dei loro muretti come di poltrone di senatori; i bambini sapranno che la minestra è poca, e quanto vale un pezzo di pane.
La sera sarà nera come la fine del mondo, di notte si sentiranno solo i grilli o i tuoni; e forse, forse, qualche giovane (uno dei pochi giovani buoni tornati al nido)
tirerà fuori un mandolino. L’aria saprà di stracci bagnati. Tutto sarà lontano. Treni e corriere passeranno di tanto in tanto come in un sonno.
Le città grandi come mondi saranno piene di gente che va a piedi, coi vestiti grigi e dentro gli occhi una domanda, una domanda che è,
magari, di un po’ di soldi, di un piccolo aiuto, e invece è solo di amore. Gli antichi palazzi saranno come montagne di pietra, soli e chiusi, com’erano una volta.
Le piccole fabbriche sul più bello di un prato verde, nella curva di un fiume, nel cuore di un vecchio bosco di querce, crolleranno
un poco per sera, muretto per muretto, lamiera per lamiera. I banditi (i giovani tornati a casa dal mondo così diversi da come erano partiti)
avranno i visi di una volta, coi capelli corti e gli occhi di loro madre, pieni del nero delle notti di luna - e saranno armati solo di un coltello.
Lo zoccolo del cavallo toccherà la terra, leggero come una farfalla, e ricorderà ciò che è stato, in silenzio, il mondo e ciò che sarà.


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