"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini, racconto la mia vita
Autobiografia
l'Unità
Martedì 4 novembre 1975
Piar Pialo Pasolini scrisse, nel 1960, la scheda autobiografica che ripubblichiamo qui di seguito. Lo scritto apparve In una raccolta di profili di narratori Italiani edita dal « Sodalizio del Libro » di Venezia, a cura di Elio Filippo Accrocca.
... Mio padre , quando sono nato, era tenente di fanteria: apparteneva a un' un'antica famiglia dì Ravenna, e aveva sperperato tutto il patrimonio — passionale, sensuale e violento di carattere: ed era finito in Libia, senza , un soldo; cosi aveva cominciato la carriera militare; da cui sarebbe poi stato deformato e represso fino al conformismo più definitivo. Questo non lo potè accontentare e quindi lo angosciò sempre , fino a una forma quasi paranoidea negli ultimi anni, al ritorno dalla sua terza guerra. Aveva puntato su di me, sulla mia carriera letteraria, fin da quando ero piccolo, dato che ho scritto le prime poesie a sette anni: aveva intuito, pover'uomo, ma non aveva previsto, con le soddisfazioni, le umiliazioni.
Credeva di poter conciliare la vita di un figlio scrittore col suo conformismo. L'inconciliabilità lo ha fatto impazzire: nell'atto stesso di capire non capiva più niente... La sua acutissima intelligenza non gli serviva: era uno strumento che non a mai il «suo o uso. E ci esasperava, ruggiva, smaniava: a al mondo per soffrire, e quanto ci ha fatti soffrire, me e mia ! Quando nel 1942 usci il mio primo libretto, Poesie a Casarsa (in friulano! Fatto assurdo per lui, che, ufficialetto di promo pelo, era capitato a Casarsa, e li aveva conosciuto mia madre, impadronendosene subito, con la sua prepotenza infantile e centralistica): lo ricevette nel Kenia, dove era prigioniero. Ma, malgrado la assurdità del linguaggio usato, era dedicato a lui, e questo lo consolava, lo faceva gongolare. Quando tornò io ero a Casarsa, sfollato con mia madre: ero perduto come in una sconfinata intimità i che faceva del Friuli la mia folle sede oggettiva. Mio fratello Guido era morto, partigiano. Mia madre ed io eravamo mezzi distrutti dal dolore. Egli fini cosi a Casarsa, in una specie di nuova prigionia: e cominciò la sua angoscia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i miei primi libretti, in friulano, segui i miei primi piccoli successi critici, mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi , guarisse, avrebbe della sua malattia lo stesso ricordo che ho io di quegli anni. Nei primi mesi del '50 ero a Roma, con mia madre: mio sarebbe venuto anche lui, quasi due anni dopo, e da piazza Costaguti saremmo andati ad abitare a Ponte Mammolo: già nel cinquanta avevo cominciato a scrivere le prime pagine di Ragazzi di vita. Ero disoccupato, ridotto in condizioni di vera disperazione: avrei potuto anche morire. Poi con l'aiuto del poeta in dialetto abruzzese Vittorio Clemente trovai un posto d'insegnante in una scuola privata di Cìampino, per venticinquemila lire al mese. Due anni di lavoro accanito, di pura lotta: e mio padre sempre là, in attesa, solo nella a cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti. Poi Bassani mi fece entrare nella prima sceneggiatura cinematografica: e avevo finito i Ragazzi di vita che Bertolucci segnalò a Garzanti. Mio padre potè finalmente occuparsi di un trasloco che gli dava soddisfazione, che vellicava in lui il piacere del comando, della vanità, del decoro borghese. Andammo a stare a Monteverde, in via Fonteiana: lasciai la scuola, continuai a lavorare, a scrivere versi, a andare avanti con Una vita violenta, a sceneggiare, quando capitava: con la collaborazione a Le notti di Cabiria potei comprarmi anche una «seicento»: che poi diventò una millecento. Ebbi qualche premio, il premio «Città di Parma» per Ragazzi dì vita, il «Viareggio» per Le ceneri di Gramsci (prima ne avevo avuti una dozzina di altri minori: per versi dialettali, critica ecc.). Ma la vita nella mia casa era sempre la stessa, sempre uguale alla morte. Mio padre soffriva, ci faceva soffrire: odiava il mondo che aveva ridotto a due tre dati ossessivi e inconciliabili: era uno che batteva continuamente, disperatamente, la testa contro un muro. La sua agonia vera durò molti mesi: respirava a fatica, con un continuo lamento. Era malato di fegato, e sapeva che era grave, che solo un dito di vino gli faceva male, e ne beveva almeno due litri al giorno. Non si voleva curare, in nome della sua vita retorica. Non ci dava ascolto, a me e a mia madre, perché ci disprezzava. Una notte tornai a casa, appena in tempo per vederlo morire.
Io ora continuo la solita vita: lavoro la mattina a casa: ho da mete a posto un nuovo volume di versi, La ricchezza: sto buttando giù gli appunti per il terzo romanzo, Il Rio della Grana, comincio a tradurre l'Eneide. E poi i lavori pratici, il cinema, la redazione di « Officina » ecc. Il dopopranzo esco, e vado a spasso, quasi sempre almeno fino alle due di notte: passo dalle borgate e dalla periferia più affamata, a qualche, non frequente, riunione con gli amici. Bertolucci, Bassani, Gadda, Moravia, la Morante, Citati... Oppure, anche, qualche volta nei salotti della Bellonci, della De Giorgi, della Mastrocinque, della Astaldi... Ma la maggior parte della mia vita la trascorro al di là del confine della città, oltre i capolinea, come direbbe, ermetizzando, un cattivo poeta neorealista.
Amo la vita ferocemente, cosi disperatamente, che non me ne può e bene, dico i dati fisici della vita, il sole, l'erba, la giovinezza: è un vizio molto più tremendo di quello della cocaina, non mi costa nulla, e ce n'è un'abbondanza sconfinata, senza limiti: e io divoro, divoro...
Come andrà a finire, non lo so...
Pier Paolo Pasolini.
Veramente toccante quando parla della sua vita.❤
RispondiEliminaGrazie del commento
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