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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

domenica 13 dicembre 2020

Pier Paolo Pasolini - Gli uomini colti e la cultura popolare

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Elisa Avigliano



Pier Paolo Pasolini

Gli uomini colti e la cultura popolare


(Salvatore Di Giacomo, Lettere a Elisa 1906-1911, a cura di

Enzo Siciliano, Editore Garzanti, 1973; Abele De Blasio, La
camorra a Napoli, 4vol. Edizioni del Delfino, 1973)



Non poteva evidentemente essere altrimenti, e quindi non è il caso di recriminare: ma è veramente un peccato che De Martino anziché occuparsi della cultura popolare della Lucania non si sia occupato della cultura popolare di Napoli. Del resto nessun etnologo o antropologo si è mai occupato, con la stessa precisione e assolutezza scientifica usata per le culture popolari contadine, delle culture popolari urbane. E' inconcepibile uno studio come quello dedicato da Levi-Strauss ad alcuni piccoli popoli selvaggi - isolati e puri - per il popolo di Napoli, per esempio. L'impurezza delle «strutture» della cultura popolare napoletana è fatta per scoraggiare uno strutturalista, che, evidentemente, non ama la storia con la sua confusione. Una vota che egli abbia identificato le «strutture» di una società nella loro perfezione, egli ha esaurito la sua sete di riordinamento del conoscibile. A nessuna perfezione possono essere ricondotte «strutture», appunto, della cultura popolare napoletana.

Un piccolo popolo chiuso da millenni o secoli nei suoi codici, vive ancora, nell'accezione degli etnologi, in illo tempore: non ha stratificazioni; la convenzionalizzazione, rigidissima peraltro, dei rapporti sociali ha un solo strato: non sono concepibili, né previste, possibilità di infrazioni. Nelle manifestazioni espressive - canti, danze, riti ecc' - le invenzioni non implicano un'evoluzione dell'inventum. In una cultura popolare urbana, invece, la storia della cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza, imponendovi e depositandovi i suoi valori: la tipica «astoricità» della cultura popolare, che è essenzialmente «fissatrice», è stata così costretta a dei mutamenti incessanti: a cui essa, sistematicamente, ha dovuto applicare i caratteri della «fissazione».

Le novit storiche vengono accepite nell'universo della cultura popolare urbana (e, dal XIX secolo in poi, anche in quella contadina) solo a patto di essere immediatamente tradotte nei propri termini tradizionali non dialettici. Solo in questi ultimi anni, sia le culture popolari urbane, estremamente complesse, che quelle contadine - ancora abbastanza pure, come appunto nei piccoli popoli selvaggi studiati dagli etnologi - sono state radicalmente sovvertite dal nuovo tipo di cultura del potere.

L'emigrazione nelle città industriali e soprattutto il consumismo con la sua imposizione di nuovi modelli umani hanno istituito con le antiche culture popolari un rapporto completamente nuovo, e quindi, all'interno dell'universo capitalistico, rivoluzionario.

Due anni fa, in una bancarella di Porta Portese, un venditore ambulante napoletano ha venduto delle «carte vecchie» a un compratore colto. I venditori ambulanti che risalgono da Napoli a Porta Portese appartengono ancora, nei limiti del possibile, alla vecchia cultura popolare: nella loro testa la connessione dei pensieri, dei giudizi, delle valutazioni, dei rapporti sociali, obbedisce a regole di cui il borghese conosce solo la lettera, e, naturalmente, il contingente culturale imposto dalla sua classe, almeno dal Seicento in poi, e con particolare riferimento agli ultimi decenni. Ad ogni modo il rapporto tra l'ambulante napoletano di Porta Portese e l'acquirente colto risulta tipico fino all'assolutezza: si tratta infatti della compravendita di un bene di equivoca provenienza. Il malandrino napoletano sarà rimasto sicuramente convinto di avere «fregato» il compratore «micco» che si interessa di «carte vecchie»; e il compratore sarà rimasto soddisfatto sia dell'acquisto eccezionale, sia del fatto di essersi comportato onestamente con quella «maschera» napoletana. Le «carte vecchie» erano un pacco di corrispondenza amorosa tra Salvatore Di Giacomo ed Elisa Avigliano, la sua futura moglie.

Enzo Siciliano, venuto in possesso del grosso manoscritto, l'ha pubblicato - premettendovi una puntigliosa introduzione, dove l'attrito tra l'assunto filologico (un po' impersonale) e un reale interesse, niente affatto spersonalizzato, per l'eros di Di Giacomo, produce impuntature quasi stridenti, malgrado la morbida eleganza. La quantità delle cose che non sappiamo è immensa, praticamente illimitata. Su questa usiamo ritagliare un piccolo quantitativo di conoscenze e informazioni che crediamo la nostra cultura. Per esempio, io avevo letto i volumi di poesia di Di Giacomo, e quindi credevo di conoscerlo. In realtà era una conoscenza di comodo, in fondo irrispettosa e interessata. Queste lettere di un fidanzamento durato venti anni irrompono come un'alluvione sulla mia conoscenza comoda di Di Giacomo. Va bene, non toccano il giudizio ultimo, finale e sintetico sulla sua poesia. Ma la rendono «altra». Lo scontro di classe che si è verificato nell'aneddoto del ritrovamento a Porta Portese delle vecchie lettere di Di Giacomo a Elisa, è in realtà all'origine di tutta la poesia digiacomiana.

Le lettere infatti rivelano un Di Giacomo terribilmente piccolo borghese, nel migliore e nel peggiore senso della parola. La lingua italiana che vi è usata esclude, direi teologicamente, il dialetto. E' la lingua del privilegio, così assimilato da essere innocente e immemore. Ed è anche la lingua di una psicologia viziata, che pone le ansie di un narciso piccolo borghese al centro dell'universo, senza spazio per altro. Lo sfondo è quello di una Napoli borghese e colta (biblioteche, caffè, teatri, editori, il golfo visto con gli occhi «alienati» di un alloglotta). C'è forte anche quel sapore esotico che distingue la cultura borghese napoletana dalla cultura borghese italiana: un suo internazionalismo storico, i rapporti diretti con la Francia e la Germania ecc'. Bastano le poche, squisite citazioni che Siciliano fa della poesia di Di Giacomo nella sua prefazione, per farla leggere sotto una luce nuova. La reale «struttura prima» di questa poesia è il rapporto tra il borghese Di Giacomo e la cultura popolare napoletana, colta al suo strato più alto, dove solo era possibile lo scontro, apparentemente amoroso, di classe. L'ingenuità e la purezza di Di Giacomo sono stupendamente mimetiche: ma mimetiche di un modello inventato.

In realtà tutto il suo mondo popolare è di maniera, o almeno visto solo in quello strato più alto in cui Di Giacomo poteva conoscerlo, e in cui la cultura della classe dominante è nell'atto di affidare i suoi valori alla cultura della classe dominata, e questa è nell'atto di farli suoi. La transustanziazione non è ancora avvenuta. Di conseguenza, in Di Giacomo non c'è la descrizione del «sottosviluppo» napoletano e della sua cultura «selvaggia». Tale descrizione c'è, invece, almeno in parte, in Ferdinando Russo, poeta più discontinuo, ma non meno grande di Di Giacomo. Ferdinando Russo ha compiuto quella discesa agli inferi (del «sottosviluppo») che Di Giacomo non ha creduto opportuno compiere. I due poeti sono complementari. E a loro due, insieme, è dedicata infatti l'opera di Abele De Blasio (La camorra di Napoli, composta di quattro volumi: Costumi dei camorristi, Il paese della camorra, La malavita a Napoli, Tatuaggio). Abele De Blasio ha condotto le sue ricerche proprio negli stessi anni in cui Di Giacomo e Russo poetavano, secondo un metodo di ricerca che aveva il suo maestro in Lombroso e le sue lucernae in altri antropologi, per così dire «veristi», oggi dimenticati. La sua rozzezza era dunque estrema.

 Il suo rapporto con la «plebe» napoletana era quello degli scrittori di «storie patrie», diffusi in tutte le provincie italiane: così che anche di fronte alle cose più atroci, non manca in Abele De Blasio un curioso moto di benevolenza e fierezza: alla fin fine si tratta di glorie folcloristiche. Di fronte ai napoletani poveri, egli si comporta come un entomologo che parla scherzosamente degli usi e dei costumi degli insetti: li antropomorfizza. D'altra parte è un motivo ricorrente di queste sue pagine quello di paragonare la cultura popolare napoletana alla cultura selvaggia dei popoli esotici. E, al di fuori di ogni principio di valore, tale punto di partenza era sostanzialmente corretto. His fretus, con molta modestia e lepidezza, Abele De Blasio accumula nei suoi libri - anche con molte ripetizioni - un materiale prezioso di notizie e informazioni. Ed è l'inferno. Almeno per un progressista medio. Il «tenore di vita» di alcune centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, risulta quasi inconcepibile a mente umana.

Il punto era quello in cui Napoli era stata lasciata dalla dominazione spagnola e dai Borboni. Le caratteristiche della cultura popolare - «altra» rispetto alla cultura borghese - che si era più o meno evoluta - e, quasi con invasata coscienza ideologica «estranea» ad essa - erano in quel momento codificate nelle «regole d'onore» della camorra. Un codice rigidissimo. Anche scritto, almeno per quel che riguarda le specifiche «paranze» camorriste (i «frieni»). Era l'assoluta naturalezza con cui i napoletani vivevano questo codice che li rendeva stranieri al potere e a chi in qualche modo vi appartenesse. Si trattava di un universo «reale» dentro un universo che, rispetto ad esso, era «irreale»: anche se questo secondo in realtà rappresentava il logico corso della storia. Il rovesciamento di prospettiva del napoletano che vede il mondo dall'interno del suo universo reale ma astorico, è uno scacco della storia. Se così non fosse, il mondo napoletano popolare non avrebbe una tale vitalità e un tale prestigio da presentarsi addirittura come una tremenda alternativa: anche oggi, che l'alternativa è monopolizzata dalla «coscienza di classe» proletaria (che detesta i sottoproletariati e quindi, borghesemente, le «culture popolari», verso cui non ha mai espresso una politica decente. Rispetto ai tempi di De Blasio le cose non sono poi, oggi, molto cambiate. Basta andare a Napoli. (O magari leggere il bellissimo documentario su Napoli scritto qualche anno fa da Antonietta Macciocchi.) Gergo, tatuaggi, regole d'omertà, mimica, forme di malavita, e l'intero sistema di rapporti col potere sono rimasti inalterati. Anche l'epoca rivoluzionaria del consumismo - che ha stravolto e mutato alle radici i rapporti tra cultura centralistica del potere e culture popolari - non ha fatto che «isolare» ancora di più l'universo popolare napoletano.

(Tempo, 22 febbraio 1974)



Curatore, Bruno Esposito

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