"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
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Elisa Avigliano |
Pier Paolo Pasolini
Gli uomini colti e la cultura popolare
(Salvatore Di Giacomo, Lettere a Elisa 1906-1911, a cura di
Enzo Siciliano, Editore Garzanti, 1973; Abele De Blasio, La
camorra a Napoli, 4vol. Edizioni del Delfino, 1973)
Non poteva evidentemente essere altrimenti, e quindi non è il caso di recriminare: ma è veramente un peccato che De Martino anziché occuparsi della cultura popolare della Lucania non si sia occupato della cultura popolare di Napoli. Del resto nessun etnologo o antropologo si è mai occupato, con la stessa precisione e assolutezza scientifica usata per le culture popolari contadine, delle culture popolari urbane. E' inconcepibile uno studio come quello dedicato da Levi-Strauss ad alcuni piccoli popoli selvaggi - isolati e puri - per il popolo di Napoli, per esempio. L'impurezza delle «strutture» della cultura popolare napoletana è fatta per scoraggiare uno strutturalista, che, evidentemente, non ama la storia con la sua confusione. Una vota che egli abbia identificato le «strutture» di una società nella loro perfezione, egli ha esaurito la sua sete di riordinamento del conoscibile. A nessuna perfezione possono essere ricondotte «strutture», appunto, della cultura popolare napoletana.

Un piccolo popolo chiuso da millenni o secoli nei suoi codici, vive ancora, nell'accezione degli etnologi, in illo tempore: non ha stratificazioni; la convenzionalizzazione, rigidissima peraltro, dei rapporti sociali ha un solo strato: non sono concepibili, né previste, possibilità di infrazioni. Nelle manifestazioni espressive - canti, danze, riti ecc' - le invenzioni non implicano un'evoluzione dell'inventum. In una cultura popolare urbana, invece, la storia della cultura dominante è intervenuta continuamente con violenza, imponendovi e depositandovi i suoi valori: la tipica «astoricità» della cultura popolare, che è essenzialmente «fissatrice», è stata così costretta a dei mutamenti incessanti: a cui essa, sistematicamente, ha dovuto applicare i caratteri della «fissazione».
Le novit storiche vengono accepite nell'universo della cultura popolare urbana (e, dal XIX secolo in poi, anche in quella contadina) solo a patto di essere immediatamente tradotte nei propri termini tradizionali non dialettici. Solo in questi ultimi anni, sia le culture popolari urbane, estremamente complesse, che quelle contadine - ancora abbastanza pure, come appunto nei piccoli popoli selvaggi studiati dagli etnologi - sono state radicalmente sovvertite dal nuovo tipo di cultura del potere.

L'emigrazione nelle città industriali e soprattutto il consumismo con la sua imposizione di nuovi modelli umani hanno istituito con le antiche culture popolari un rapporto completamente nuovo, e quindi, all'interno dell'universo capitalistico, rivoluzionario.
Due anni fa, in una bancarella di Porta Portese, un venditore ambulante napoletano ha venduto delle «carte vecchie» a un compratore colto. I venditori ambulanti che risalgono da Napoli a Porta Portese appartengono ancora, nei limiti del possibile, alla vecchia cultura popolare: nella loro testa la connessione dei pensieri, dei giudizi, delle valutazioni, dei rapporti sociali, obbedisce a regole di cui il borghese conosce solo la lettera, e, naturalmente, il contingente culturale imposto dalla sua classe, almeno dal Seicento in poi, e con particolare riferimento agli ultimi decenni. Ad ogni modo il rapporto tra l'ambulante napoletano di Porta Portese e l'acquirente colto risulta tipico fino all'assolutezza: si tratta infatti della compravendita di un bene di equivoca provenienza. Il malandrino napoletano sarà rimasto sicuramente convinto di avere «fregato» il compratore «micco» che si interessa di «carte vecchie»; e il compratore sarà rimasto soddisfatto sia dell'acquisto eccezionale, sia del fatto di essersi comportato onestamente con quella «maschera» napoletana. Le «carte vecchie» erano un pacco di corrispondenza amorosa tra Salvatore Di Giacomo ed Elisa Avigliano, la sua futura moglie.

Le lettere infatti rivelano un Di Giacomo terribilmente piccolo borghese, nel migliore e nel peggiore senso della parola. La lingua italiana che vi è usata esclude, direi teologicamente, il dialetto. E' la lingua del privilegio, così assimilato da essere innocente e immemore. Ed è anche la lingua di una psicologia viziata, che pone le ansie di un narciso piccolo borghese al centro dell'universo, senza spazio per altro. Lo sfondo è quello di una Napoli borghese e colta (biblioteche, caffè, teatri, editori, il golfo visto con gli occhi «alienati» di un alloglotta). C'è forte anche quel sapore esotico che distingue la cultura borghese napoletana dalla cultura borghese italiana: un suo internazionalismo storico, i rapporti diretti con la Francia e la Germania ecc'. Bastano le poche, squisite citazioni che Siciliano fa della poesia di Di Giacomo nella sua prefazione, per farla leggere sotto una luce nuova. La reale «struttura prima» di questa poesia è il rapporto tra il borghese Di Giacomo e la cultura popolare napoletana, colta al suo strato più alto, dove solo era possibile lo scontro, apparentemente amoroso, di classe. L'ingenuità e la purezza di Di Giacomo sono stupendamente mimetiche: ma mimetiche di un modello inventato.


(Tempo, 22 febbraio 1974)
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