Io produco una merce, la poesia, che è inconsumabile:
morirò io, morirà il mio editore, moriremo tutti noi,
morirà tutta la nostra società, morirà il capitalismo
ma la poesia resterà inconsumata.
(Pasolini alla trasmissione di Enzo Biagi,
“Terza B, facciamo l’appello”)
Gli studenti di "Ombre Rosse"
"Cultura al servizio della rivoluzione": è il titolo di un articolo firmato da "I rappresentanti del Movimento Studentesco presenti a Pesaro", apparso sul n. 5 di "Ombre Rosse" (una bella anche se, diciamo, alquanto terroristica, rivista di cinema che si pubblica a Torino).
Che significa, si chiederà l'innocente lettore, "presenti a Pesaro"? Eh! "Pesaro" significa il "Festival del Nuovo Cinema di Pesaro": ma tra noi competenti basta dire "Pesaro" e ci capiamo. É diventato un luogo dello spirito...
Epigrafe di questo scritto del Movimento Studentesco è una frase di Stokely Carmichael, del resto famosa: "Gli intellettuali non ci interessano per quello che fanno, ma per quello che fanno per noi". "Fare" va inteso nel senso greco di "poetare": non certo nel senso pragmatico di "agire": ché in tal caso la frase di Carmichael sarebbe ovvia.
Mi sembra che tale frase sia ingenua, e risenta del complesso di inferiorità razziale di Carmichael. Meravigliosa e rispettabile ingenuità, dunque. Cosa sono gli intellettuali? Dei privilegiati, forse, tra i reietti? Oppure dei reietti un po' più privilegiati degli altri? Hanno forse... delle forti raccomandazioni, dentro il sistema, per cui possono "fare qualcosa" per i reietti allo stato puro, totalmente innocenti? Gli intellettuali - ancora - detengono forse una sorta di potere, per cui "possono fare qualcosa per i più disgraziati di loro"? Ma se fosse così, se gli "intellettuali" godessero di qualche "raccomandazione", misteriosa, all'interno del sistema, oppure se avessero qualche potere autonomo, che con quello del sistema finirebbe poi con l'identificarsi, perché chiedere loro alleanza e aiuto? Non sarebbero dei nemici o dei falsi amici?
La realtà è questa: che anche l'intellettuale è un reietto, nel senso che il sistema lo relega al di fuori di se stesso, lo cataloga, discrimina, gli affibbia un cartello segnaletico: onde: o renderlo dannato, o integrarlo. Si sa. Anche se apparentemente un po' meno sfortunato del "povero negro", l'intellettuale vive in sostanza l'identica esperienza di "diversità" del negro. I due sono fratelli nella segregazione, e nella lotta che devono ingaggiare contro il sistema per "limitare" (altro non possono fare) la sua capacità di "catalogarli e integrarli".
Il "negro" Carmichael è così sprofondato nella sua "diversità" di negro, che tutto ciò che è bianco gli appare fortunato. Ma, evidentemente, si sbaglia. Svariate sono "le vite non degne di essere vissute" (Himmler), ivi comprese molte vite di bianchi (nessuno ricorda mai che tra i destinati alle camere a gas, ci sono anche gli zingari e gli omosessuali, per esempio). Così Carmichael tende a vedere gli intellettuali come dei padri, che possono fare qualcosa per lui. Ora, io, invece, intellettuale (perduto nella mia "diversità" altrettanto umiliante, anche se spesso consolata, che quella dei negri), io considero Carmichael, come un padre: e son io che penso che lui può fare qualcosa per me.
Al di là di questo gioco, risulta dunque chiara una cosa: che non esiste differenza tra ciò che un intellettuale "fa" e ciò che un intellettuale "fa per qualcuno" (nel nostro caso i negri). E non parlo solo dell'intellettuale progressista, che è schierato politicamente con quelle forze che lottano al fianco dei negri, ma anche dell'intellettuale che cerca, e ottiene - nella sua vita pratica e nella sua ideologia politica - di essere integrato (nel caso, s'intende, di un intellettuale che "fa", cioè "fa poesia"). Infatti anche questo tipo di intellettuale, suo malgrado, "facendo" ("facendo poesia") "fa per qualcuno" anche se indirettamente, molto indirettamente.
La frase di Carmichael è dunque pleonastica. E, secondo me, andrebbe corretta così: "L'intellettuale, nostro fratello di sventura e coabitante nel nostro ghetto, qualunque cosa scriva, implicitamente ci serve: meglio però sarebbe se ci servisse esplicitamente". (Per analogia a questo parallelo negro-intellettuale, mi viene in mente di consigliare il lettore di rileggere - come io sono stato consigliato dal critico torinese Carluccio - le pagine di Marcel Proust dedicate al parallelo ebreo-omosessuale, nella "Recherche", tomo Ii, "Sodome et Gomorrhe", pagg. 614 e segg. dell'edizione della "Pléiade").
Una rivolta esistenziale, fatta cioè attraverso il proprio corpo, non solo come "teofania", apparizione nel presente, ma anche come continuità nel tempo (ossia una rivolta attuata attraverso la propria esistenza pratica e corporea), avviene al livello della struttura o della sovrastruttura?
Un negro che presenti la sua "faccia" - nient'altro che la sua faccia, ossia la sua negritudine esistenziale - in un cocktail tutto di purissimi anglosassoni, in un quartiere residenziale, dove è proibito abitare perfino ai "sudeuropei"!, compie evidentemente un atto di rivolta. Col suo stesso "esserci", col suo stesso "esserci come negro".
Ebbene, l'opera di un autore è come la faccia di un negro. É con la sua stessa presenza, con il suo "esserci", che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale. Infatti l'intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo "esserci" della faccia di un negro o dell'opera di un autore. Un'altra domanda. L'"auto-proiezione soggettiva" (è la terminologia del pezzo del Movimento Studentesco sopra citato) di un artista è una esperienza parziale o totale?
Parziale, evidentemente. Ma solo la parzialità è esaustiva! Quindi hanno ragione gli studenti: un artista è mistificatore quando vuole far passare per totale la propria "auto-proiezione" soggettiva parziale. Ma gli studenti hanno torto a non considerare tale parzialità come profondità, come "effettiva" e non "proclamata", totalità. Figurarsi! É tutta la vita che mi oppongo agli intellettuali che presentano la propria esperienza come "totale", e quindi "metastorica"; implicando per la poesia quella nozione di "assolutezza" attraverso cui la borghesia si crea un "alibi nobilitante", mentre essa in realtà riduce tutto a merce: altro che assolutezza!
Ma gli studenti, autori di questo articolo, si pongono un falso dilemma: la poesia infatti per loro sarebbe: o merce, o valore metastorico. Cioè essi si pongono nei panni di un borghese, e vedendo la "poesia" così, attraverso i suoi occhi, non possono che disprezzarla: sia come merce, sia come valore metastorico.
La poesia invece:
a) Non è merce perché non è consumabile. É ora di dirlo: questo di paragonare l'opera a un prodotto, e i suoi destinatari a dei consumatori, può essere una divertente, spiritosa metafora. Ma nient'altro. Anzi, se qualcuno dice sul serio una cosa simile, è un imbecille. La poesia infatti non è prodotta "in serie": non è dunque un prodotto. E un lettore di poesia può leggere anche un milione di volte una poesia: non la consumerà mai. Anzi, strano a dirsi, forse, la milionesima volta, la poesia gli potrà sembrare più strana, nuova e scandalosa che la prima volta. Inoltre non c'è frigorifero o scarpa prodotta a Varese, che sia consumabile anche dai posteri (mi si scusi la facile spiritosaggine).
b) La poesia non è "valore metastorico", perché non si fa e non si legge fuori dalla storia. Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto.
Tempo n. 51 a. XXX, 14 dicembre 1968
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