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domenica 13 dicembre 2020

Pasolini - Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Biblioteca nazionale centrale - Roma


Stupore e speranza per un “demone meschino” di 70 anni fa 
Pier Paolo Pasolini
16 settembre 1973
Tempo  pag. 64-65
Biblioteca nazionale centrale - Roma
***
Recensione a F. Sologub, Il demone meschino, Trad. di Pietro Zveteremich, Garzanti, Milano 1973. Il ricordo della recente lettura del libro di Sologub è in una citazione dei personaggi di Ljudmila e Sasa nell'Appunto 10 Ter. di Petrolio.
(Walter Siti)
***
Oggi anche in Descrizioni di descrizioni- a cura di Graziella Chiarcossi
con il titolo:   Fëdor Sologub, Il demone meschino




Biblioteca nazionale centrale - Roma
   Apro la finestra di vecchio legno, con dei complicati chiavistelli, e mi appare una calle, con l’acqua verde, le case rosse intorno, piccole, lavorate come oggetti, i cortili interni circondati da tetti e comignoli. Una campana suona con foga; e appena smette, eccone un’altra più lontana, come di latta, che rintocca disperatamente, a distesa. Sul piccolo marciapiede della calle, oltre la gradinata di un ponticello passano due donne, una ancora giovane, e una vecchia che si appoggia al bastone. Vanno a messa, certamente, oppure in visita mattutina a qualche signora amica, dove le attende il caffè, o un liquore dolce. Degli uomini parlano a bassa voce fra loro sulla tolda di una piccola barca, nuova, gialla, ammassata con delle altre lungo la riva di pietra. Ecco una terza campana, più lontana ancora, e più solenne, mista ad altre campanelle. È domenica mattina: non c’è dubbio, la Chiesa chiama con accenti severi, mentre la gente è stranamente leggera e lieta, senza mostrarlo. Un ardente sole settembrino che già più non scalda sembra tutto assorbire e rendere silenzioso nella sua luce... Ecco, ecco, due piccoli soldati che scendono i gradini del ponte... tre ragazzi con delle magliette molto colorate e i capelli tosati che camminano con malcelato fervore... Un gruppo di donne con un bambino, su cui si chinano tutte...

   Verso questi miei simili che vivono una giornata di vita piccolo-borghese di un’epoca finita per sempre, anche se durata solo fino a pochi anni fa, io provo un sentimento forte, intenso, carico di espressività.

   La loro vita mi appare misteriosa, si, come quella di un popolo defunto in millenni remoti, oppure come quella di un popolo di formiche, di castori. Nel tempo stesso, mi è profondamente famigliare. C’è, tra me e loro, una complicità, o un'alleanza, o un patto, che mi ha legato ad essi dalla nascita, obbligatoriamente, come il battesimo lega a una chiesa: se le parole precise di questo patto, sono andate perdute, resta la certezza di averle sapute e un vago ricordo, che è tutto. Tuttavia l’immensa quantità di cose in comune - sentimenti, necessità, abitudini, convinzioni — apparendomi in loro, mi si presenta come dotato di un altro spirito, che mai io possiederò in quella sua interezza che spiega totalmente la vita: tutt’al più potrei esprimerlo. Sono infatti scrittore: e questo rapporto di nostalgia per la intensità, la completezza, la purezza della vita - che si manifesta solo nelle vite altrui, sia in quelle tragiche che in quelle ridicole, sia in quelle povere che in quelle ricche - è il rapporto che mi permette di esprimerla. O, meglio, che mi ha permesso di esprimerla. Per molti anni, per quasi un’intera esistenza, il mio rapporto con gli uomini è stato dominato da questa idea rispettosa e sgomenta della loro necessità, al di là del male e del bene. La condizione era quella piccolo-borghese, sovrapposta ingiustamente sopra una condizione popolare. Ma ne nasceva un tutto, di cui faceva parte anche la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, di una cultura potenziale contro la cultura reale.

   Sapevo, certo, che, nell’orbita del potere, i piccolo-borghesi erano neirenorme maggioranza dei teppisti, delle persone che non avevano interesse per niente, dei conformisti criminali, dei potenziali fascisti: questo in quanto piccolo-borghesi. In essi sussisteva, però, l'altra natura, quella della classe da cui erano appena provenuti, o da cui si andavano formando, e che costituiva la maggioranza della nazione.

   Ora, in pochi anni, tutto è cambiato. Il piccolo-borghese non solo si è definitivamente distinto dalla classe popolare — prevalentemente contadina — da cui proveniva, ma, fornito di mezzi come nessuna classe privilegiata ha mai posseduto nella storia, ha cominciato, ottenendo immediatamente clamorosi risultati, a borghesizzare l’intera nazione. Resta, attaccata allo stupendo passato, con tutte le sue ingiustizie, qualche piccola isola, come questa Venezia di una domenica mattina.


Teppismo
ferocia
e volgarità

   Le caratteristiche «negative», «nere», del piccolo-borghese, si sono stabilizzate una volta per sempre: hanno perso la loro barbarie (o tendono a perderla), ma sostanzialmente sono le stesse: teppismo, ferocia, disinteresse per ogni cosa, paura, conformismo, volgarità. Nulla è più ormai al di fuori di questo. Dunque il rapporto di uno scrittore con gli altri uomini non può che essere radicalmente mutato. Ciò che rende ancora misteriosa l’esistenza umana è solo la sua volontà collettiva, con le sue scelte, riguardanti soprattutto il futuro. Ma questo non basta a far amare gli uomini, a far provare verso di essi quello slancio di innamorata curiosità, che, mista al terrore, spingeva uno scrittore a scrivere: cioè a descrivere.

   Leggo con infinito stupore un libro scritto sessanta-settanta anni fa in Russia, Il demone meschino di Sologub. Trattandosi di un vero e proprio capolavoro, tutte le considerazioni che potrei fare oggi leggendo un romanzo «di una volta », sono rese da esso immensamente più significative ed emozionanti. Sologub parla della vita di una città (che egli chiama «la nostra città»), e una vicenda dei suoi abitanti, imperniata intorno alla storia «comica» di un professore di ginnasio, Peredònov. Peredònov è uno di quei pazzi - che si trovano anche in Dostoevskij - studiati e descritti prima della psicanalisi: si tratta di un paranoico, afflitto da mania di persecuzione (che lo porterà ad ammazzare arbitrariamente uno dei suoi amici, il più stupido e innocuo): egli è un teppista, che non ha interesse per niente, un conformista così miserabile che giunge a fare la spia e a scrivere delle denunce anonime con la stessa facilità con cui imbratta e distrugge gli oggetti della padrona di casa, per pura volgarità. Come personaggio e come caso patologico, Peredònov interessa però meno che come simbolo. In esso è sintetizzato espressivamente tutto ciò che caratterizza un piccolo-borghese: e, poiché nel libro è detto ripetutamente che in gioventù egli ha letto le opere proibite, i testi rivoluzionari, come simbolo egli comprende in sé anche il piccolo-borghese di sinistra (Peredònov è stato costretto dalla sua paranoia a diventare reazionario: ma avrebbe potuto benissimo, restando quello che era, proseguire per la strada della contestazione alla società borghese zarista). Intorno a Peredònov si muove un mondo di uomini e donne in tutto simili a lui. È inconcepibile che si possa aver scritto un romanzo così crudele, dove, almeno per la prima metà, nessuno e niente si salva. Come ha potuto Sologub, che è un uomo così delicato, scrivere cosi spietatamente una storia simile? Ha potuto farlo perché egli aveva, con l'insieme degli uomini, un rapporto come quello che ho descritto qui sopra, dominato dal rispetto e dalla necessità, che ne assicurano una eterna freschezza. Sologub vuole fare un romanzo «comico»: e ci riesce, non c’è dubbio. Ci riesce perché prova un profondo piacere espressivo nell'usare i canoni di quel particolare umorismo che è l'umorismo russo, per «descrivere» i suoi personaggi e le loro azioni. È incantevole il modo con cui egli presenta i personaggi man mano che viene il loro turno. Alle volte il succedersi di questi turni è addirittura meccanico (come nella serie di visite che Peredònov va a fare ai pezzi grossi, per ingraziarseli, pronto a qualsiasi bassezza): teoricamente sembrerebbe insostenibile inserire nel racconto una dopo l’altra tutte queste scene che cominciano invariabilmente con la descrizione del personaggio e dell’ambiente che appaiono agli occhi di Peredònov e del lettore. Eppure Sologub ci riesce, con la massima facilità. Vuol dire che il suo rapporto con quelle persone è sempre pieno, intenso, carico di espressività. La vita — anche se vissuta dalla classe privilegiata di quella città russa di provincia in modo cosi miserabile - è trionfale. Infatti il fondo su cui questi piccoli mostri piccolo-borghesi si muovono è un fondo innocente: da una parte la natura, coi suoi soli e le sue piogge (sempre mirabilmente descritti, in due parole), e dall’altra quell’entità non detta, oscura, immensa che è il popolo. L’innocenza della natura e del popolo riescono a infiltrarsi fin dentro il cuore di quella piccola società che esprime il potere locale, descritta da Sologub: riesce a infiltrarsi attraverso la presenza dei ragazzi. I figli dei mostri sono degli angeli. Lo sono tutti, per partito preso. Essi, al contrario degli adulti, sono rispettosi, pieni di interesse per ogni cosa, intelligenti, razionali, ingenui, capaci di rivolta, freschi, allegri: e belli anche fisicamente. La lucidità e la spietatezza, con cui i ginnasiali giudicano gli adulti, non li priva della loro illusione sulla vita come un insieme di realtà positive e di valori. Il rapporto di Sologub con gli uomini - quel rapporto che gli permette di descriverli - è simboleggiato, nella sua purezza, dal rapporto coi ragazzi, coi «ginnasiali» (che Peredònov si diverte a far frustare, andando a spiare ai loro genitori malefatte inesistenti). Ai ragazzi Sologub concede una parte minima del suo romanzo, in pratica si limita a nominarli e riferire su loro delle notizie: non li descrive mai (eccetto uno, come dirò): sono un puro termine di paragone, una ontologia lucente di «allegri occhi». Il loro motivo viene introdotto nelle prime pagine, quando un quattordicenne ginnasiale, fratello di una delle pretendenti di Peredònov, viene notato (ma la cosa, subito, non stupisce, perché nei romanzi russi i ragazzi sono notati abitualmente, là dove nella narrativa occidentale — a meno che non siano protagonisti — sono completamente rimossi): finché, tale motivo, esplode in Sàsa. Un’amica della concubina di Peredònov che l'aiuta nelle sue manovre — il motivo comico del libro — per farsi sposare) di punto in bianco, per un puro arbitrio che resterà senza spiegazione, dice che nel ginnasio c'è un certo Sasa, il quale è in realtà una donna travestita da ragazzo. Questa follia non sembra tale né a Peredònov né agli altri suoi simili. Non c’è dubbio che nel ripugnante eros di Peredònov ci sono molti resti di omosessualità repressa, quella delle SS, quella della polizia, ecc.: e del resto il fondo di tutto questo ambiente piccolo-borghese e pieno di una barbarie ancora recente. La notizia arbitraria sulla presunta natura femminile di Sasa, fa nascere la «seconda storia» del romanzo.

   Ci sono tre sorelle, tra le pretendenti alla mano dello scapolo Peredònov: si tratta di tre ragazze, e quindi di tre personaggi appartenenti all’ontologia felice e positiva dell universo stilistico del libro. Esse sono eternamente allegre, di una meravigliosa allegria enunciata e non spiegata. Lo sono, e basta. Una di queste tre sorelle, Ljudmìla, si incuriosisce di Sasa, vuole andare a vederlo, e tutta elegante, esageratamente profumata, col suo ombrellino, va a trovarlo presso la vecchia che lo tiene a pensione. Scoppia subito un violento, impossibile, arbitrario amore tra questa ragazza, quasi ventenne, e l'adolescentino completamente innocente: l’eros si scatena senza giungere a nessun compimento. E il corpo narrativo, che lo contiene, si inserisce di forza - con tutto il carico della sua cultura decadente, raffinata - nel corpo principale del romanzo, che quanto a cultura è classicamente russo: appartiene cioè tradizionalmente a un’area in cui si sono potuti scrivere romanzi come questo fino a un periodo molto più tardo, rispetto alla coeva narrativa europea (Babel' Platonov, fino a Bulgakov).    


Personaggi
che rinnegano
l'umorismo


Biblioteca nazionale centrale - Roma
   I personaggi piccolo-borghesi di Sologub non possiedono l’umorismo che caratterizza il loro creatore. L’hanno appena perduto. Lo rinnegano, anzi, probabilmente, come tipico di quell’universo povero e contadino da cui si sono appena distinti. Si tratta di una vera e propria abiura. Il loro riso, per essi, non ha senso se non offende qualcuno o qualcosa; o se non è ghignante esibizione della propria superiorità. L'umorismo che invece Sologub adotta ancora con tanta felicità sua e del lettore è appunto quello povero e contadino: non prende in giro e non offende nulla. È semplicemente buon umore e trasporto verso gli altri, anche i volgari e i malvagi. Nelle descrizioni del teppismo e dell’ignoranza degli eroi di Sologub, prevale, sul senso letterale, una felicità che ne condiziona il giudizio. È vero del resto che quegli eroi sono ancora pervasi da una barbarie recente, che ogni tanto li ritrascina indietro, in un mondo dove essi erano infinitamente migliori, tuttavia è proprio nelle caratteristiche formali dell’umorismo di Sologub che essi vengono liberati dal giudizio morale che grava su di loro. L’umorismo cattolico, o, prima di tutto, protestante, che si è formato come «mezzo espressivo» nel momento in cui la borghesia occidentale diventa la borghesia moderna, nel Seicento - il Cervantes, Shakespeare, Ariosto sono i modelli primi e ancora puri - non ha avuto mai la leggerezza meravigliosa ed evangelica di quello russo. 


Nessuno
riesce
antipatico

   Qui, il mondo contadino si è protratto nella sua totalità infinitamente più a lungo. Probabilmente, anzi, in potenza, nella Russia di oggi è ancora possibile un romanzo come quello di Sologub, perché la Rivoluzione ha preservato l’universo arcaico dalla borghesizzazione, e dal suo umorismo privo di felicità.

   Alla fine del libro, nessuno di questi personaggi orrendi riesce antipatico: Sologub è riuscito a compiere il miracolo di guardare lucidamente e spietatamente una realtà odiosa senza odiarla.

   Probabilmente, per tornare ai giorni nostri, questo miracolo è forse ancora parzialmente possibile: ma non descrivendo, però, i piccoli borghesi integrati, quelli dell’enorme maggioranza: il loro fascismo si è in realtà smussato in una forma di edonismo consumistico che li ha staccati per sempre da ogni epoca precedente; e i fascisti dichiarati sono dei turpi fossili. Il miracolo di Sologub si può forse ottenere descrivendo dei piccoli borghesi di sinistra, rivoluzionari: sono essi, in realtà, spesso, a essere teppisti, volgati, ignoranti, ricattatori, privi di umorismo, fanatici in superficie, cinici e simulatori nel profondo, come i personaggi di Sologub: ad avere cioè intatte tutte le caratteristiche della vecchia borghesia, dato che essi si oppongono a quella moderna e attuale, rifiutandola, almeno teoricamente. Ma, malgrado questo, è proprio tra essi che si possono trovare dei personaggi odiosi da descrivere senza odio, come ha fatto Sologub. Solo che intorno ad essi, purtroppo, manca un universo che non sia quello loro, particolare. Bisogna essere affascinati e innamorati di tutti gli uomini, per sceglierne una parte e condannarne un’altra.
 Fëdor Sologub: "Il demone meschino", Garzandi editore, lire 3mila, pagine 310 ).


   Pier Paolo Pasolini
  16 settembre 1973
Tempo


Curatore, Bruno Esposito

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