"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Ombre Rosse n° 5 agosto 1968 |
"Cultura al servizio della rivoluzione".
Il 14 dicembre 1968, sulla rivista "Tempo" n. 51, nella sua rubrica "Il Caos", Pier Paolo Pasolini risponde agli studenti di "Ombre Rosse:
"...La poesia invece: Non è merce perché non è consumabile..."
Di seguito, possiamo leggere sia l'articolo apparso sul n° 5 di "Ombre Rosse" e sia, la risposta di Pasolini su "Il Caos".
CULTURA AL SERVIZIO DELLA RIVOLUZIONE
@ Biblioteca Gino Bianco
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1a PARTE: ANALISI
« Gli intellettuali non ci interessano per quello che fanno,
ma per quello che fanno per noi »
Ombre Rosse n° 5 agosto 1968-Biblioteca Gino Bianco |
Nell'ambito del cinema come in altri settori culturali, un sistema politico a capitalismo complesso alla ricerca di una sua razionalizzazione, come quello italiano, contempla sia una struttura puramente commerciale-consumistica, immediatamente funzionale, sia delle frange di copertura ideologica che hanno lo scopo di:
a) prospettare pseudo-alternative che possono contribuire all'ammodernamento del sistema;
b) garantire agli intellettuali una palestra di esercitazioni inoffensive che forniscano la illusione di una pseudo-autonomia, alibi soggettivo per la loro effettiva integrazione.In questo modo il sistema attua, relegandoli in un orizzonte specializzato, una delle sue esigenze organiche: la divisione del lavoro caratteristica fondamentale della società capitalistica e termine di verifica delle società che pretendono di attuare socialismo.
Ciò facendo, il sistema ottiene anche la canalizzazione di possibili istanze contestative all'interno della specializzazione: l'impulso a cambiare il mondo viene trasformato in azione di aggiornamento-modificazione delle strutture espressive.
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La seconda alternativa b) è rappresentata, ad esempio, nel settore cinematografico da iniziative come quella del festival di Pesaro, il cui ruolo è assolutamente chiaro una volta che se ne consideri la genesi storico-politica (centro-sinistra, ex ministro Corona, direttore il critico ufficiale del PSU, Miccichè). Le indicazioni di politica economica e culturale, al cui interno Pesaro si colloca, sono le stesse portate avanti dai partiti all'opposizione e riassumibili in tre grandi mistificazioni:
a) Distinzione e difesa della politica cinematografica del capitale di stato, nazionale, piccolo rispetto a quello privato, internazionale, grande.
Il capitale non può essere distinto in « buono » e « cattivo ». Il capitale è uno solo.b) Cultura « alternativa ».
Le sue contraddizioni interne ci riguardano solo nella misura in cui ci permettono di individuare i punti in cui è possibile colpirlo meglio. Che le proposte pseudoalternative di questo tipo provengano da forze al governo o dalla opposizione democratica, non presenta grandi differenze qualitative: si tratta solo di variazioni della stessa prospettiva. Le strutture distributive proposte — statali o private — vivono in ogni caso grazie alle riserve d'aria del sistema e stimolano una efficiente differenziazione del mercato (es.: grandi magazzini e boutiques, circuito commerciale e cinema d'essai, Bevilacqua e Sanguineti, « Dottor Zivago » e « Sovversivi », De Laurentiis e Doria).
Una politica culturale che accetti la linea sopra esposta è ammissibile esclusivamente sul piano tattico (intendiamo per tattico una scelta politica che si realizzi in un arco di tempo inferiore al secolo...). Questa è invece portata avanti dall'opposizione di sinistra su un piano sostanzialmente strategico, ed è coerente pertanto solo ad una prospettiva riformistico-parlamentare.
I) Impossibilità per la cultura di essere proletaria e rivoluzionaria in un contesto
borghese. In una società borghese la cultura, anche quella che si inserisce nella tradizione progressista della cultura borghese e si propone di contestare e demistificare il sistema, rimane pur sempre borghese.
2) La cultura è solo falsamente « alternativa », in quanto l'unica reale alternativa si pone prioritariamente a livello strutturale e non a livello sovrastrutturale.c) Libertà di cultura.
I) In una società schiavistica quale quella borghese la richiesta di libertà di cultura,fatta alla categoria degli intellettuali, è chiaramente una illusione o una mistificazione. Gli intellettuali, schiavi sul piano strutturale, si creano una falsa coscienza di libertà a livello sovrastrutturale. La richiesta di libertà di cultura, cioè di rendere liberi gli intellettuali (ammesso che sia oggettivamente possibile) non ha alcun senso; per noi ha senso solo la lotta per la libertà di tutta la società. « Ogni attività intellettuale che non serva alla lotta per la Liberazione Nazionale, è facilmente digerita dal nemico e assorbita dal gran pozzo nero che è la cultura del Sistema. Il nostro impegno come uomini di cinema e come appartenenti a un paese in stato di dipendenza, non scende a compromessi con la Cultura Universale, nè con l'Arte, nè con l'Uomo in astratto. Noi sentiamo anzitutto un impegno per la liberazione della nostra patria e dell'uomo in concreto, che è in questo caso l'argentino e il latino americano » (Solanas). Questa affermazione ci trova completamente d'accordo, evidentemente con le opportune mediazioni che richiede la situazione dell'Europa occidentale.
2)Tutte le avanguardie artistiche nella misura in cui non si pongono il problema della prospettiva del collegamento con le masse svolgono una funzione oggettivamente reazionaria. In particolare si rifiuta di considerare come rivoluzionaria la proposta della guerriglia nel cinema. Queste posizioni sono neutralizzate dal sistema e sono addirittura funzionali in taluni casi alla logica interna di esso che necessita, come copertura ideologica, di un « ricambio» a livello sovrastrutturale.
Rigettiamo la mistificazione di certi artisti di considerare la loro auto-proiezione
soggettiva come esperienza non parziale ma totale.
3) Solo in una società autenticamente socialista il cui obiettivo fondamentale è la realizzazione dell'« uomo totale » (abolizione della divisione sociale del lavoro) ha senso parlare di libertà della cultura. Per un film incompiuto di Eisenstein, per un romanzo non pubblicato di Bulgakov, ci sono stati migliaia di vecchi bolscevichi e di operai rivoluzionari spediti in Siberia, milioni di mugichi quotidianamente oppressi o sterminati. Rifiutiamo di scegliere tra cultura e massa. Non accettiamo quel tipo di costruzione del socialismo che reprime sia le masse sia la cultura. È possibile però che nel processo reale di edificazione si ponga un problema di priorità di esigenze: evidentemente nella misura in cui tale problema è solo tattico e non strategico noi siamo con le masse.
Il ricatto che deriva dall'accusa di « zdanovismo» significa proporre da un lato il problema a livello di difesa di una categoria, gli intellettuali, separata e privilegiata e non a livello di scelta rivoluzionaria e dell'altro individuare nella libertà un valore assoluto, eterno, e non un valore storico.
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Su questa base e in queste prospettive qualsiasi affermazione «rivoluzionaria » perde di significato e finisce per essere l'oggettiva copertura di operazioni di sottogoverno o un esempio di falsa coscienza o, al limite, di malafede. A riprova di quanto accennato, sempre restando sull'esempio del festival di Pesaro, tutto l'interesse teorico delle tavole rotonde organizzate negli anni passati era stato concentrato sull'analisi linguistica del film, attraverso relazioni di addetti ai lavori o di improvvisatori. Quest'uso dell'analisi linguistica riflette un concetto dell'arte come specializzazione (collegata come già s'è detto alla strutturale divisione del lavoro) e l'individuazione dell'essenziale dell'opera nello specifico stesso.
In questo modo si realizza una neutralizzazione ideologica del discorso, sottraendo all'attività artistica e culturale la possibilità di veicolare istanze e significati eversivi.
L'opera viene ad essere così considerata come una combinazione funzionale di materiali, e la sua analisi ridotta a una verifica del suo meccanismo di funzionamento, riflettendo così le esigenze di
de-ideologizzazione avvertite dal sistema.
Variante culturale della medesima ideologia borghese è stata nella Pesaro degli anni passati come in generale nella critica cinematografica « avanzata », un'esaltazione, ideologicamente acritica, di un « nuovo » cinema indiscriminato, che ha avallato e lanciato colla stessa enfasi espressioni di una visione del mondo francamente reazionaria (sia che si trattasse di film dell'est sia dell'ovest) e film effettivamente eversivi, impoveriti e castrati mediante l'applicazione di una analisi puramente linguistica o di mozioni sensibilistiche misticheggianti.
Quest'ultima operazione riflette d'altra parte una concezione dell'opera d'arte come assoluto attraverso la quale la borghesia, nel momento stesso in cui riduce tutto a merce si crea un alibi nobilitante e spirituale di autosublimazione nell'idealizzazione di valori assoluti.
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In opposizione a questa situazione (che ha in Pesaro solo un piccolo esempio significativo) si possono indicare tre ipotesi di lavoro teorico (*):
a) una funzione non « oggettiva », nel costante rigetto della mistificazione della neutralità della cultura;
b) un aperto rifiuto dell'ideologia della specializzazione-competenza dell'intellettuale;
c) la necessità del giudizio politico, anche fazioso e settario, per verificare, chiarire e motivare le ipotesi di lavoro culturale.
(*) Ipotesi delineate nell'editoriale del n. 4 di « Ombre rosse marzo 1968.
2a PARTE: PROPOSTE
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a) un cinema di fatto borghese anche quando critico rispetto ai valori del sistema;
b) un cinema di aggressione e demistificazione nei limiti che il sistema può concedere (operazione che comunque non può andare oltre un cinema intellettuale, di creazione individuale e dunque fondamentalmente borghese);
c) un cinema espressione di un collettivo di militanti che si pone del tutto al di fuori del sistema e ha come compito di intervenire attivamente nel processo rivoluzionario.
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Il film come atto politico.
Il film come atto politico vale quel che valgono le parole d'ordine che propone.
Per parola d'ordine s'intende la prospettiva politica di fronte ai temi proposti.
La linea di demarcazione di un cinema al servizio della rivoluzione è costituita dalla demistificazione dei rapporti di potere all'interno del sistema, dalla chiara volontà di distruzione di essi, e dall'analisi della lotta di classe.
a) dentro il sistema.
L'esistenza in Europa delle libertà borghesi, cioè di sistemi democratici parlamentari, dove non esistono dittature fasciste, consente la _possibilità di utilizzare fino in fondo i margini e le contraddizioni del sistema.A partire dal rifiuto del riformismo (miglioramento delle strutture esistenti del sistema stesso) e della cogestione, di fronte alle strutture del sistema è possibile un duplice atteggiamento: il boicottaggio e la strumentalizzazione a fini altri.
In ogni caso, l'operazione non può andare oltre un cinema intellettuale, di creazione individuale, che risulta rivoluzionario in maniera indiretta e mediata.
Lungo questa linea, occorre rifiutare l'idillio, l'ironia, 1'« oggettività » (connotazione di un'arte di classe borghese), mentre risultano utili l'aggressione e la demistificazione.
b) « fuori » del sistema.
Ma crediamo con Guevara che un intellettuale per essere rivoluzionario debba annullarsi in quanto intellettuale, per partecipare semplicemente al movimento reale di operai, contadini e studenti. Ciò non significa che non possa usare anche i mezzi del cinema. Significa che deve negarsi come classe separata che conduce la sua battaglia solo all'interno del mondo della cultura. Il militante rivoluzionario e cineasta, in collegamento organico con i movimenti di massa, partecipa anche con i mezzi del cinema all'elaborazione di una politica rivoluzionaria.
Questo può avvenire solo fuori delle strutture cinematografiche del sistema.
Distrutta la concezione del film come creazione artistica individuale, quello che conta è l'elaborazione politica e collettiva; si tratta prima che di un film, di un'azione, di un fatto politico realizzato con i mezzi del cinema.
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a) tipo di film: film didattico
Usando i materiali più diversi ritenuti più funzionali al discorso (il documento, l'apologo, l'analisi teorica, la citazione, il fumetto, la pantomima, il disegno animato, il cinema diretto, ecc.), questo tipo di cinema mira alla spiegazione dei fatti politici mostrando la realtà della lotta di classe. Si presenta come preminentemente didattico e di proposta politica; assolve una funzione di confronto, di discussione, di elaborazione e di presa di coscienza. Si tratta di uno strumento per informare, stimolare a far crescere politicamente le masse.
b) luoghi di proiezione
Per arrivare ai suoi naturali destinatari, che sono gli operai, i contadini e gli studenti, occorre utilizzare tutti i canali possibili. Allo stato attuale si potrebbero indicare i canali del Movimento Studentesco (facoltà occupate, i centri universitari cinematografici, i collegi universitari, i circoli d'istituto...) , canali parzialmente disponibili (case della cultura, Arci, camere del lavoro...) e se ne potrebbe prospettare la creazione di nuovi (proiezioni di quartiere, in osterie ecc...)
c) Momento e caratteristiche delle proiezioni
Le occasioni delle proiezioni possono essere duplici: di intervento immediato e di verifica nel momento delle tensioni o addirittura della lotta, o di riflessione e di preparazione nei momenti di stasi.
In alcuni casi assicurare la proiezione sarà occasione di lotta, costituirà un momento della lotta stessa.
COMPITO DEL CINEMA AL SERVIZIO DELLA RIVOLUZIONE E' CONTRIBUIRE A CAMBIARE IL MONDO
Questo documento, come la presa di posizione sull'andamento del festival di Pesaro pubblicato nelle pagine seguenti, diffusi durante la manifestazione, sono stati elaborati e sottoscritti da un gruppo di studenti del Movimento Studentesco e da alcuni redattori di « Ombre Rosse ».
Articolo e materiale tratto dalla
Gli studenti di "Ombre Rosse" (17)
Pier Paolo Pasolini
Tempo n. 51 a. XXX,14 dicembre 1968
Rubrica "Il Caos"
Che significa, si chiederà l'innocente lettore, "presenti a Pesaro"? Eh! "Pesaro" significa il "Festival del Nuovo Cinema di Pesaro": ma tra noi competenti basta dire "Pesaro" e ci capiamo. É diventato un luogo dello spirito...
Tempo n. 51 a. XXX,14 dicembre 1968 |
Mi sembra che tale frase sia ingenua, e risenta del complesso di inferiorità razziale di Carmichael. Meravigliosa e rispettabile ingenuità, dunque. Cosa sono gli intellettuali? Dei privilegiati, forse, tra i reietti? Oppure dei reietti un po' più privilegiati degli altri? Hanno forse... delle forti raccomandazioni, dentro il sistema, per cui possono "fare qualcosa" per i reietti allo stato puro, totalmente innocenti? Gli intellettuali - ancora - detengono forse una sorta di potere, per cui "possono fare qualcosa per i più disgraziati di loro"? Ma se fosse così, se gli "intellettuali" godessero di qualche "raccomandazione", misteriosa, all'interno del sistema, oppure se avessero qualche potere autonomo, che con quello del sistema finirebbe poi con l'identificarsi, perché chiedere loro alleanza e aiuto? Non sarebbero dei nemici o dei falsi amici?
La realtà è questa: che anche l'intellettuale è un reietto, nel senso che il sistema lo relega al di fuori di se stesso, lo cataloga, discrimina, gli affibbia un cartello segnaletico: onde: o renderlo dannato, o integrarlo. Si sa. Anche se apparentemente un po' meno sfortunato del "povero negro", l'intellettuale vive in sostanza l'identica esperienza di "diversità" del negro. I due sono fratelli nella segregazione, e nella lotta che devono ingaggiare contro il sistema per "limitare" (altro non possono fare) la sua capacità di "catalogarli e integrarli".
Il "negro" Carmichael è così sprofondato nella sua "diversità" di negro, che tutto ciò che è bianco gli appare fortunato. Ma, evidentemente, si sbaglia. Svariate sono "le vite non degne di essere vissute" (Himmler), ivi comprese molte vite di bianchi (nessuno ricorda mai che tra i destinati alle camere a gas, ci sono anche gli zingari e gli omosessuali, per esempio). Così Carmichael tende a vedere gli intellettuali come dei padri, che possono fare qualcosa per lui. Ora, io, invece, intellettuale (perduto nella mia "diversità" altrettanto umiliante, anche se spesso consolata, che quella dei negri), io considero Carmichael, come un padre: e son io che penso che lui può fare qualcosa per me.
Al di là di questo gioco, risulta dunque chiara una cosa: che non esiste differenza tra ciò che un intellettuale "fa" e ciò che un intellettuale "fa per qualcuno" (nel nostro caso i negri). E non parlo solo dell'intellettuale progressista, che è schierato politicamente con quelle forze che lottano al fianco dei negri, ma anche dell'intellettuale che cerca, e ottiene - nella sua vita pratica e nella sua ideologia politica - di essere integrato (nel caso, s'intende, di un intellettuale che "fa", cioè "fa poesia"). Infatti anche questo tipo di intellettuale, suo malgrado, "facendo" ("facendo poesia") "fa per qualcuno" anche se indirettamente, molto indirettamente.
La frase di Carmichael è dunque pleonastica. E, secondo me, andrebbe corretta così: "L'intellettuale, nostro fratello di sventura e coabitante nel nostro ghetto, qualunque cosa scriva, implicitamente ci serve: meglio però sarebbe se ci servisse esplicitamente". (Per analogia a questo parallelo negro-intellettuale, mi viene in mente di consigliare il lettore di rileggere - come io sono stato consigliato dal critico torinese Carluccio - le pagine di Marcel Proust dedicate al parallelo ebreo-omosessuale, nella "Recherche", tomo Ii, "Sodome et Gomorrhe", pagg. 614 e segg. dell'edizione della "Pléiade").
Una rivolta esistenziale, fatta cioè attraverso il proprio corpo, non solo come "teofania", apparizione nel presente, ma anche come continuità nel tempo (ossia una rivolta attuata attraverso la propria esistenza pratica e corporea), avviene al livello della struttura o della sovrastruttura?
Un negro che presenti la sua "faccia" - nient'altro che la sua faccia, ossia la sua negritudine esistenziale - in un cocktail tutto di purissimi anglosassoni, in un quartiere residenziale, dove è proibito abitare perfino ai "sudeuropei"!, compie evidentemente un atto di rivolta. Col suo stesso "esserci", col suo stesso "esserci come negro".
Ebbene, l'opera di un autore è come la faccia di un negro. É con la sua stessa presenza, con il suo "esserci", che è rivoluzionaria. E ciò, secondo me, non avviene affatto a livello sovrastrutturale, ma strutturale. Infatti l'intera struttura è messa in ballo e in pericolo, dal solo "esserci" della faccia di un negro o dell'opera di un autore. Un'altra domanda. L'"auto-proiezione soggettiva" (è la terminologia del pezzo del Movimento Studentesco sopra citato) di un artista è una esperienza parziale o totale?
Parziale, evidentemente. Ma solo la parzialità è esaustiva! Quindi hanno ragione gli studenti: un artista è mistificatore quando vuole far passare per totale la propria "auto-proiezione" soggettiva parziale. Ma gli studenti hanno torto a non considerare tale parzialità come profondità, come "effettiva" e non "proclamata", totalità. Figurarsi! É tutta la vita che mi oppongo agli intellettuali che presentano la propria esperienza come "totale", e quindi "metastorica"; implicando per la poesia quella nozione di "assolutezza" attraverso cui la borghesia si crea un "alibi nobilitante", mentre essa in realtà riduce tutto a merce: altro che assolutezza!
Ma gli studenti, autori di questo articolo, si pongono un falso dilemma: la poesia infatti per loro sarebbe: o merce, o valore metastorico. Cioè essi si pongono nei panni di un borghese, e vedendo la "poesia" così, attraverso i suoi occhi, non possono che disprezzarla: sia come merce, sia come valore metastorico.
La poesia invece:
a) Non è merce perché non è consumabile. É ora di dirlo: questo di paragonare l'opera a un prodotto, e i suoi destinatari a dei consumatori, può essere una divertente, spiritosa metafora. Ma nient'altro. Anzi, se qualcuno dice sul serio una cosa simile, è un imbecille. La poesia infatti non è prodotta "in serie": non è dunque un prodotto. E un lettore di poesia può leggere anche un milione di volte una poesia: non la consumerà mai. Anzi, strano a dirsi, forse, la milionesima volta, la poesia gli potrà sembrare più strana, nuova e scandalosa che la prima volta. Inoltre non c'è frigorifero o scarpa prodotta a Varese, che sia consumabile anche dai posteri (mi si scusi la facile spiritosaggine).
b) La poesia non è "valore metastorico", perché non si fa e non si legge fuori dalla storia. Essa è se mai iperstorica, perché la sua carica di ambiguità non si esaurisce in alcun momento storico concreto.
Pier Paolo Pasolini
Tempo n. 51 a. XXX,14 dicembre 1968
Rubrica "Il Caos"
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