«È probabile che il tempo abbia già impreso a sfoltire l’opera di Pasolini.
Né qui si è voluto discorrere della sua narrativa più nota, che ci sembra di
affannoso respiro; mentre alcune pagine di fierissima compattezza stilistica,
poemi in prosa, più intensi, spesso, di quelli delle raccolte di versi, si
leggono in Alì dagli occhi azzurri; dove si avverte l’incontro di
Pasolini con l’onirismo ‘infame’ di uno scrittore come Jean Genet. Ma la sua
opera che, in un suo senso, è mostruosa, ossia obbediente a uno dei precetti di
Rimbaud (“bisogna farsi un’anima mostruosa”, 1870), in un altro senso si
richiama perfettamente al passaggio fra manierismo e barocco. Là dove quasi
tutti i poeti suoi contemporanei o immediati predecessori si mantenevano una via
d’uscita, una via di salvezza mediante il riserbo, il silenzio o la cosiddetta
‘decenza’, di cui Montale aveva parlato, egli aveva avvertito la necessità
morale dell’ ‘indecenza’, del “testimoniare lo scandalo”, del trionfo
dell’indegnità e dell’eccesso. Alla sua morte alcuni autori e critici della
‘Nuova Avanguardia’ invecchiata, che già lo avevano combattuto in vita, hanno
scritto o detto che con lui era morto l’ultimo rappresentante dell’equivoca
simbiosi di vita e di opera. Certo. Ma perché quella convivenza, tardoromantica
e decadente, non si dia più, troppe cose devono scomparire nella struttura
sociale e nell’organizzazione culturale; fra cui la stessa possibilità di una
letteratura “d’avanguardia”. In attesa, anche chi, per coerenza a una propria
idea di poesia e di rivoluzione, credette di dover opporre alla disperata
voracità e genialità di Pasolini una masschera di insensibilità filistea, onora
quella sua fulminea parabola autodistruttiva e disprezza la prudente
amministrazione di sé, che è stata di tanti suoi critici».
(Franco Fortini,
Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993, pp. 171-172)
1. Il
teorema del cinema: racconto o espressività?
Qual è il compito del cinema? Rappresentare o raccontare? Mostrare
attraverso immagini di puro flusso visuale il desiderio poetico racchiuso nel
suo autore o narrare in maniera anche ellittica o disincarnata una storia
esemplare (non foss’altro che per il piacere che dà a chi lo guarda)? Far vedere
o far guardare (riprendendo una determinata e classica dichiarazione di Jean-Luc
Godard) (1)? L’accusa rivolta a Pasolini di essere un “burocrate” (2) non deve
far pensare a un possibile disprezzo di Godard nei suoi confronti; tutt’altro.
Solo che alla domanda su che cosa sia più importante se guardare o
vedere, se raccontare o mostrare, i due registi
risponderebbero in modo totalmente diverse: se Godard non raccontava storie ma
le mostrava soltanto concentrandosi sulle immagini (si pensi all’assenza di
narrazione di Pierrot le fou del 1965, ad esempio), in Pasolini la
narrazione non può prevalere sulla poesia (anche se finisce per fare corpo con
essa) ma è, tuttavia, la sostanza della scrittura cinematografica. Il caso di
Teorema (1968) è a questo riguardo esemplare. Questo film controverso e
bellissimo è, in realtà, a mio avviso, il vero turning point nella
produzione cinematografica di Pasolini. In esso, per la prima volta, le immagini
fanno vedere qualcosa e non mostrano soltanto. In realtà, dimostrano una
tesi (poeticamente dispiegata) che fa corpo con il dispiegarsi del film. A che
conclusioni era, infatti, arrivato Pasolini nelle sue riflessioni sul “cinema di
poesia” (quelle che poi saranno consegnate al corpus dottrinario di
Empirismo eretico del 1972)? :
«Il “cinema di poesia” – come si presenta a qualche anno alla sua nascita –
ha dunque in comune la caratteristica di produrre film dalla doppia natura. Il
film che si vede e si accepisce normalmente è una “soggettiva libera indiretta”
(3) , magari irregolare e approssimativa – molto libera, insomma: dovuta al
fatto che l’autore si vale dello “stato d’animo psicologico dominante nel film”
– che è quello di un protagonista malato, non normale – per farne una continua
mimesis – che gli consente molta libertà stilistica anomala e
provocatoria. Sotto tale film, scorre l’altro film – quello che l’autore avrebbe
fatto anche senza il pretesto della mimesis visiva del suo protagonista:
un film totalmente e liberamente di carattere espressivo-espressionistico. Spia
della presenza di tale film sotterraneo non fatto, sono, appunto, come abbiamo
visto nelle analisi particolari, le inquadrature e i ritmi di montaggio
ossessivi. Tale ossessività contraddice non solo la norma del linguaggio
cinematografico comune, ma la stessa regolamentazione interna del film in quanto
“soggettiva libera indiretta”. È il momento, cioè, in cui il linguaggio,
seguendo un’ispirazione diversa e magari più autentica, si libera dalla
funzione, e si presenta come “linguaggio in se stesso”, stile. Il “cinema di
poesia” è in realtà, dunque, profondamente fondato sull’esercizio di stile come
ispirazione, nella maggior parte dei casi, sinceramente poetica: tale da
togliere ogni sospetto di mistificazione alla pretestualità dell’uso della
“soggettiva libera indiretta”. Tutto questo, cosa significa? Significa che si
sta formando una tradizione tecnico-stilistica comune: una lingua, cioè, del
cinema di poesia. Tale lingua tende a porsi ormai come diacronica rispetto alla
lingua della narrativa cinematografica: diacronia che sembrerebbe destinata ad
accentuarsi sempre più, come accade nei sistemi letterari. Tale tradizione
tecnico-stilistica nascente si fonda sull’insieme di quegli stilemi
cinematografici, che si sono formati quasi naturalmente in funzione degli
eccessi psicologici anomali dei protagonisti scelti pretestualmente: o meglio in
funzione di una visione sostanzialmente formalistica del mondo (informale in
Antonioni, elegiaca in Bertolucci, tecnicistica in Godard ecc. ecc.). Esprimere
tale visione interiore richiede necessariamente una lingua speciale, coi suoi
stilismi e i suoi tecnicismi compresenti all’ispirazione, che, essendo appunto
formalistica, ha in essi insieme il suo strumento e il suo oggetto. La serie
degli “stilemi cinematografici”, così nati e catalogati in una tradizione appena
fondata e ancora senza norme se non intuitive e direi pragmatiche – coincidono
tutti con dei processi tipici dell’espressione tipicamente cinematografica. Son
fatti linguistici puri, e quindi richiedono espressioni linguistiche specifiche.
Elencarli significa tracciare una possibile “prosodia” non ancora codificata e
funzionante, ma la cui normatività è già potenziale (da Parigi a Roma, da Praga
a Brasilia) » (4).
Il linguaggio del cinema, dunque, è fatto di figure stilistiche il cui
significato è mutuato dalla letteratura e il cui senso è dato dalla realtà che
mostrano: un insieme di rapporti tra oggetti rappresentati e modalità di
funzionamento della rappresentazione che costituiscono il modo in cui il cinema
rimanda la realtà al suo spettatore. Non rivelazione mimetica né pura metafora
del reale, il cinema affronta e si confronta con una realtà fatta di ambiguità
stilistiche: ne faranno fede successivamente le “passeggiate nei boschi
cinematografici” di Totò e Ninetto in Uccellacci e uccellini del 1966 e
la riflessione altrettanto meta-cinematografica di Edipo re del 1967. In
essi le icone del reale si inseguiranno in un percorso metaforico
conseguente alla natura stessa del rapporto esistente tra immagini e realtà.
Ma quale sarà la differenza tra questi film e Teorema di due anni dopo?
Fino a che punto Teorema sarà soltanto “cinema di poesia” e non
nasconderà tra le sue pieghe una più precisa “volontà narrativa”?
2.
Il corpo seduttivo e l’epifania del sacro
Teorema viene realizzato nel cuore del Sessantotto e ne subisce
(apparentemente) tutte le vicissitudini sociali, politiche e ideali. Ma non è un
film del Sessantotto e/o sul Sessantotto. E’ un film sulle contraddizioni del
Sessantotto, semmai – ma è soprattutto un film sull’impatto del Sacro su una
società ormai de-sacralizzata e de-mitizzata come quella che la borghesia
prepara all’interno della cultura italiana di quegli anni (e i cui esiti si
vedranno meglio in futuro). L’occasione della sua uscita nelle sale sembra tanto
importante a Pasolini che per l’occasione decide di non pubblicare soltanto la
sceneggiatura del film (come era accaduto con tutti i suoi film precedenti – da
Accattone in poi) ma di trasformarla in un romanzo (5). Era dal 1959
(l’anno di Una vita violenta (6) che Pasolini non utilizzava questa forma
linguistica che all’inizio (con Ragazzi di vit del 1955) gli era sembrata
la più congeniale ai suoi intenti e al suo progetto stilistico di
scrittura:
«Il 1968 cinematografico di Pasolini si apre con la realizzazione di
Teorema, un film che, nella sua disarmata e feroce provocazione, verrà
attaccato con violenza da ogni parte: dallo Stato, che lo porrà sotto sequestro
intentando nei confronti dell’autore un processo per oscenità; dai benpensanti e
dalle destre, accomunati dal disgusto per l’uso spregiudicato e “perverso” della
sessualità; dalla critica della sinistra “militante”, da cui sarà accusato di
“misticismo”, “reazionarietà” e “religiosità”; e infine anche dal mondo
cattolico, che dopo aver conferito al film a Venezia il premio dell’OCIC (Office
Catholique International du Cinéma), ha successivamente preso le distanze dalle
dichiarazioni dell’autore, soprattutto riguardo all’associazione tra sessualità
e senso del sacro. Teorema è insomma il film che più di ogni altro
traccia con definitiva nettezza la posizione di progressivo, totale isolamento
intellettuale di Pasolini, che sarà trasformato di lì a poco in una specie di
“mostro del dissenso” da esorcizzare “facendolo parlare”. Dell’importanza
cruciale che l’autore attribuiva al “teorema” che è alla base del film, è segno
il fatto che egli abbia esitato a lungo sulla forma attraverso cui esprimerlo:
nato come una tragedia in versi (7), Teorema si sviluppa poi come abbozzo
letterario composito, a cavallo tra la versificazione e il racconto-inchiesta
per frammenti, per assumere infine autonomia dall’opera letteraria in quanto
traccia cinematografica, traccia nella quale Pasolini approfondisce ed
estremizza la ricerca formale già intrapresa con Edipo re, quella della
rinuncia progressiva all’espressione verbale, e alla preponderanza dell’immagine
silenziosa, piena, liberata dal vincolo didascalico borghese» (8).
Non a
caso Teorema (prima che scorrano i titoli di testa del film) si apre
sulla visione di un intervistatore (il recentemente scomparso Cesare Garboli)
che chiede angosciato agli operai di una grande fabbrica che si recano al lavoro
se la borghesia possa redimere e riscattare se stessa: “Un borghese, anche se
dona la sua fabbrica, in qualsiasi modo agisca, sbaglia?”. Poi scorrono i sobri
titoli di testa. Un postino che significativamente si chiama Angelo (Ninetto
Davoli ancora una volta) porta un telegramma alla villa di un industriale
milanese, corteggia un po’ la domestica Emilia (una splendida e ancora giovane
Laura Betti) e va via: è l’annuncio (la notizia che aprirà la strada all’evento)
dell’arrivo dell’Ospite, un giovane bellissimo e misterioso che verrà tra poco a
risiedere presso la famiglia che abita nella grande casa in campagna. I membri
di essa sono quelli che tradizionalmente ne permettono (e da sempre) la
sopravvivenza in tutte le epoche del dominio della borghesia: un padre, una
madre, un figlio e una figlia.
L’Ospite arriva: l’icona prescelta da
Pasolini per incarnarlo è il corpo allora ancora prestante di Terence Stamp. Il
giovane (che dalle dispense che consulta risulta forse essere uno studente in
ingegneria) più che dallo studio sembra però maggiormente attirato dalla lettura
dell’edizione Feltrinelli delle Oeuvres/Opere di Arthur Rimbaud
nell’edizione e traduzione a cura di Ivos Margoni (l’unica allora ad essere
disponibile, peraltro, in un testo decente). Singolare destino di un attore come
Stamp! (sfiorito poi assai in fretta e passato a ruoli di uomo maturo): due anni
dopo, nel 1970, interpreterà proprio il ruolo di Arthur Rimbaud in Una
stagione all’inferno, un film del poeta Nelo Risi sullo scrittore francese e
sul suo sodalizio letterario ed erotico con Verlaine dal risultato incerto (una
pellicola non perfettamente riuscita e un po’ troppo aneddotica con una
sceneggiatura scritta in collaborazione con Raffaele La Capria).
La prima ad
essere soggiogata, dominata, affascinata dalla vista del giovane bellissimo è la
domestica Emilia che rivela il proprio desiderio di essere posseduta da lui
mediante un goffo tentativo di suicidio attuato attaccandosi maldestramente al
tubo del gas:
«Un po’ alla volta la contemplazione di quel corpo diventa insostenibile. Ed
essa si rivolta inferocita contro la propria tentazione. Torna a scappare, ma
questa volta in maniera ancora più clamorosa: ossia piangendo e quasi urlando,
come presa da un attacco di isteria. Calpesta l’erba del giardino, come una
pecora matta, rientra affannosamente in casa. Riattraversa il soggiorno, si
precipita dentro la cucina, e, con un gesto violento ma un po’ sognante e
idiota, stacca il tubo del gas, come se volesse addirittura ammazzarsi. Il
giovane, stavolta, per forza di cose, ha dovuto accorgersi di lei, e
interessarsene. Non può non aver sentito quel pianto e quei singhiozzi pazzi,
non può aver intravisto la fuga della donna, che chiaramente pretendeva di
essere guardata e presa in considerazione da lui. Quindi la segue quasi
correndo, come lei, e la raggiunge nella cucina. Qui la vede, appunto, compiere
quei suoi gesti esaltati di pazza protesta. La soccorre. Le strappa il tubo del
gas dalle mani, cerca di animarla, di confortarla, di trovar modo di
interrompere quel seguito inconsulto di dolore che non riconosce più nulla. La
trascina nella sua stanzetta e la distende sul letto: la distende, mentre già
Emilia comincia ad agitarsi e a sospirare con meno folle affanno e a mostrare il
desiderio di essere calmata e consolata»(9) .
L’Ospite dormirà in casa
dividendo la camera con il Figlio Pietro (Andrès José Cruz Soublette) che è suo
coetaneo. Quest’ultimo apprenderà dalle proprie difficoltà di rapporto con
l’Ospite (farà fatica a spogliarsi davanti a lui prima di andare a letto) della
propria vera “vocazione” e finirà per avere un rapporto sessuale (timido e
incerto) con lui:
«Piano piano egli tira giù la leggera coperta posata sul corpo nudo
dell’ospite, facendola scivolare lungo le sue membra. La mano gli trema, e gli
esce quasi un gemito dalla gola. Ma a quel gesto, che lo scopre fino al ventre,
l’ospite di colpo si risveglia. Guarda il ragazzo curvo che compie su di lui un
atto così assurdo, e subito i suoi occhi si riempiono di quella luce che già gli
conosciamo... di quella luce di padre pieno di una confidenza materna... che
insieme è comprensiva e dolcemente ironica. Pietro alza gli occhi dal ventre,
già scoperto fino alla prima peluria del grembo, e incontra quello sguardo. Non
fa in tempo a comprenderlo: la vergogna e il terrore lo accecano. Piangendo e
nascondendosi il viso, va a gettarsi sul suo letto e si rintana con la testa
contro il cuscino. L’ospite si alza, allora, e va a sedersi sul bordo del letto
di Pietro: sta lì un poco immobile a guardare quella nuca scossa dai singhiozzi,
poi – col cameratismo di un coetaneo – l’accarezza» (10).
Sarà poi la
volta della Madre, di Lucia (una splendida Silvana Mangano): stesa in costume da
bagno a prendere il sole sul terrazzo grande della villa, osserva l’Ospite che
fa il bagno e gioca con un cane a rincorrersi e a farsi riportare degli oggetti.
Presa da un improvviso desiderio di farsi vedere nuda, si strappa il costume di
dosso e si offre allo sguardo e poi al corpo eccitato del suo ospite tanto più
giovane di lei:
«Con un rapido gesto, quasi sgarbato, Lucia afferra allora il costume, come
per infilarselo. Ma poi, quella certa luce d’un calcolo appena divinato le torna
negli occhi fissi sulle mattonelle rosse del terrazzino: la decisione di
rimanere nuda, e di mostrarsi nuda a lui, era già presa: con la stessa ingenuità
quasi isterica e l’acquiescenza di bestia insensibile che avevano dominato la
determinazione di Emilia, o quella di Pietro, qualche giorno prima (o dopo).
Naturalmente, a differenza di Emilia, essa combatte contro questa
determinazione: il pudore e la vergogna – che la sua classe sociale vive in lei
– stanno per riprendere il naturale sopravvento; e allora essa deve lottare
contro quel pudore e quella vergogna. E ancora una volta, per vincere gli
ostacoli della sua educazione e del suo mondo, deve agire prima di caspire.
Improvvisamente, stringe in pugno il costume, si alza e lo getta giù, fuori dal
parapetto della terrazzina, dall’altra parte dello stagno, verso la boscaglia.
Lo guarda, là in fondo, tra erba e rovi, irrecuperabile: il suo stare là è
profondamente significativo, la sua perdita e la sua inerzia hanno la violenza
espressiva che hanno gli oggetti nei sogni. Ora Lucia è nuda: si è costretta
ad esser. Non può avere più pentimenti o ripensamenti. Si volta: il ragazzo
è ormai sulla terra cosparsa di ciuffi d’erba sotto lo chalet. Lei lo vede. Lo
vede entrare nello chalet, e poi lo vede riuscire, guardarsi intorno, chiamarla.
Come una martire, sporgendosi appena dal parapetto Lucia gli grida: “Sono qui!”.
Egli si volta, le sorride, con tutta l’inncenza e la normalità della suac
giovinezza: e sale agile la scaletta che porta al terrazzino. Compare così
contro cielo con i suoi occhi che la guardano subito» (11).
Anche Odetta,
la Figlia (l’allora moglie di Jean-Luc Godard, l’attrice francese Anne
Wiazemsky), che vive già l’epoca dei suoi primi turbamenti sessuali, dei primi
toccamenti e amoreggiamenti “borghesi” (quelli dove poi non si riesce mai ad
andare fino in fondo) è attratta e presa dal fascino “paterno”
dell’Ospite:
«Essa alza i grossi globi dei suoi occhi su di lui, con la sua boccuccia
semiaperta di adenoidea incantata, e lo interroga: poi riabbassa gli occhi
sull’album e lo sfoglia a cercare, con una meticolosità pari all’assenza, gli
altri pezzi forti dei suoi ricordi famigliari. E l’ospite le sorride. Ma ecco
che una sua mano, in un gesto naturale e inavvertito, si posa sopra la coscia,
sul grembo, dietro la schiena di Odetta. Essa, a quel gesto, si volta, e guarda
la mano – con quella sua assenza meticolosa: poi alza gli occhi su di lui
attenta a non cambiare espressione, a mantenere in essi la stessa luce. Ma egli
le sorride, paterno e materno, più caldamente, e, come se essa fosse una cosa
morta e inerte, l’afferra sotto le ascelle, e la tira su da terra, sollevandola
fino alla sua altezza. L’album delle fotografie rotola sul pavimento, e le due
bocche si incontrano. È il primo bacio di Odetta, ed essa lo riceve rigida e
piena della sua carne intensa, in ginocchio, sostenuta dalle braccia potenti del
ragazzo, per cui è così leggera...» (12).
Infine, Paolo (Massimo
Girotti), il Padre, pur spesso ammalato ma sempre trionfante agli occhi dei
figli come il pater familias per eccellenza, è preso anche lui dal
desiderio di congiungersi sessualmente con l’Ospite:
«Eppure il corpo dell’ospite, ricco di carne ma senza alcuna mollezza,
abbondante ma puro, tutto, insomma, fecondità figliale, arde lì accanto, al
volante, come fosse nudo, dalla grazia del torace e delle braccia tese, alla
violenza delle cosce rinserrate tra le grinze della tela quasi estiva. Il padre
– Paolo! – lo guarda, e, prima di averlo deciso, lo accarezza. Gli passa
la sua mano – che non ha mai accarezzato che la propria moglie o una serie di
amanti belle ed eleganti, nel modo dovuto – appena appena, sui capelli, il
collo, la spalla. L’ospite sorride lieto; senza nessuno stupore, col suo sorriso
infantile e generoso. Si volta, anzi, raggiante, verso Paolo, dando subito alla
carezza che ha ricevuto da lui una festosa naturalezza; gli si mostra grato; e
lo ricompensa con la sua giovanile allegria; quasi umilmente, come appunto uno
nato da una classe inferiore – gli fa capire che non c’è alcuna violazione ad
alcunché in quel gesto, che per un borghese è insensato. Tuttavia, in quel
sorriso, non balena neanche per un istante la dolcezza di chi si dona. Al
contrario, non c’è che la sicurezza di chi dona. Ciò rende Paolo ancora più
figlio. Quella indecisa carezza (da cui la mano si è subito ritirata) non è
segno di possesso, ma preghiera a chi possiede. Ora, Paolo è uno di quegli
uomini abituati da sempre al possesso. Egli ha sempre, da tutta la vita (per
nascita e per censo) posseduto; non gli è balenato neanche mai per un istante il
sospetto di non possedere» (13).
Dopo essersi congiunto
carnalmente con tutti i membri della famiglia, l’Ospite se ne tornerà da dove è
venuto. La sua presenza non sarà più indispensabile per avvertire e comprendere
l’immanenza del Sacro.
I membri di essa a questo punto vanno pesantemente in
crisi. La sola che si salverà sarà Emilia, la domestica: abbandonata la famiglia
presso cui lavorava, ritornerà nel borgo rurale da cui proveniva. Cibandosi solo
di ortiche, aspetterà il ritorno dell’Ospite nel quale ha ormai riposto tutta la
sua fede e la sua fiduciac del futuro. Dopo un’esperienza mistica che la porterà
a lievitare oltre i tetti delle case (come avveniva al San Giuseppe Desa da
Copertino in A boccaperta di Carmelo Bene (14)), la donna farà dono al
mondo delle sue lacrine e si farà seppellire viva per poter ritornare alla Madre
Terra da cui è venuta, rinunciando sacrificalmente anche ad attendere il ritorno
dell’Ospite per diventarne a sua volta la legittima incarnazione. La domestica
Emilia, l’unico personaggio non-borghese, incarnerà, dunque, la speranza in un
mondo migliore che c’è già e non è ancora (come avrebbe detto Ernst Bloch). E
d’altronde, Egli “era venuto, non era ritornato e forse non tornerà mai più” (è
uno dei passi del Rimbaud delle Illuminations letti dall’Ospite durante
il suo soggiorno nella villa).
Pietro, presa coscienza della propria
omosessualità e divenuto artista dell’avanguardia più outré, finirà con
il pisciare platealmente sui propri quadri e giungere alla conclusione che
l’artista come tale “non vale niente, è un essere inferiore, un verme che si
contorce e striscia per sopravvivere”. Lucia finirà per vivere la propria
sessualità in modo assolutamente ed eccessivamente promiscuo cercando di
ritrovare in innumerevoli coiti con uomini più giovani di lei le sensazioni
provate con l’Ospite ma invano. Odetta finirà in manicomio dopo essersi chiusa
in se stessa e aver ceduto a una paralisi isterica che le impedisce di
comunicare con nessuno. Il Padre, infine, dopo essere divenuto simile all’
Ivàn Il’ìc di Tolstoj (di cui alcune significative pagine sono richiamate
nel romanzo di Pasolini nella bella traduzione di Tommaso Landolfi), dona la
propria fabbrica agli operai (sono quelli cui l’intervistatore – Cesare Garboli
rivolge la domanda con cui si apre il film) e vaga per Milano in cerca di una
risposta alla propria inquietudine. Giunto alla Stazione Centrale, in preda a un
improvviso raptus, si denuderà completamente e regalerà tutto ai poveri,
quasi un novello San Francesco (15). Poi fuggirà nel deserto a gridare il
proprio nulla e la propria impossibilità a essere quello che vorrebbe,
condannato, invece, soltanto al proprio annichilimento. Tutti i membri della
famiglia, dunque, dopo la visita dell’Ospite e la sua parousia, sono
condannati a morire nell’anima e a non manifestare il cambiamento che quella
visita avrebbe fatto sperare. L’Ospite giunge invano: il suo tocco guarirà
soltanto chi è già fuori dai parametri morali e culturali della
borghesia.
Teorema non è però neppure quello che i critici di Pasolini
schierati “a sinistra” vollero fargli dire e mostrare. Non è un film “ambiguo” –
come continuò a definirlo un critico (pure avvertito e certo qualificato) come
fu Adelio Ferrero:
«La conferma viene da Teorema-film, dove l’autore avverte il bisogno
di trasporre un discorso molto ripiegato e personale su un piano più largo e, al
limite, “esemplare”: quanto più, insomma, la sua esperienza esistenziale preme
verso una trascrizione immediata, in termini di confessione e di “urlo”, tanto
più egli sente l’esigenza di una mediazione costituita, in questo caso, da
un’improbabile borghesia e dalla sua crisi d’identità. La pretesa estrazione e
struttura borghese dei personaggi di Teorema è così astratta e
programmatica da indurre il regista a questa singolare “spiegazione”
programmatica: “L’indignazione e la rabbia contro la borghesia classica, come la
si è sempre intesa, non ha più ragione di essere dal momento in cui la borghesia
sta cambiando rivoluzionariamente se stessa, cioè sta identificando tutto l’uomo
al piccolo borghese”. Dove la sovrapposizione “ideologica” risulta
particolarmente fragile e scoperta, pur nel tono apodittico e asseverativo della
“conclusione”. La verità è che tutti i personaggi di Teorema, da quelli
dichiaratamente borghesi all’ospite misterioso alla domestica miracolata, sono
le provvissorie e labili figure di una metafora lirico-autobiografica, a mezza
strada tra il referto psicoanalitico e la confessione per poesia, di cui è
protagonista assoluto l’autore stesso. Il quale però, non avendo, o non avendo
ancora, l’audacia di situare il suo apologo, come sarebbe giusto, fuori di ogni
riferimento spazio-temporale determinato e di farlo recitare davanti a fondali
neutri (non a caso a questa idea di teatro – “il teatro di Parola” – Pasolini
stava pensando e lavorando negli stessi anni), ricorre appunto alla mediazione
di un’”estrinseca” trama, mutuata in parte da Pinter e dal “teatro della
minaccia”, e di un ambiente al quale non è estranea la suggestione del
Deserto rosso di Antonioni (16): la fabbrica con i suoi casermoni
squallidi e funzionali, un silos perduto nel silenzio dei campi e, in genere,
tutto il paesaggio “industriale”, lievemente sporcato da un velo di nebbia e di
smog. Ma bastano pochi, rapidi scorci di una quotidianità allontanata e sospesa,
sui quali il film si apre, ad avvertire lo spettatore che quella cui sta per
assistere è una sorta di allucinazione poetica, come accadeva appunto in
Edipo re»(17) .
Ferrero non coglie la natura mutata della
scrittura cinematografica di Pasolini. Il nodo che Teorema esplora in
maniera radicale, invece, riguarda proprio il rapporto tra il Sacro e la società
borghese nel l’epoca del neo-capitalismo trionfante. Come ha scritto Giuseppe
Conti Calabrese:
«Il suo ‘empirismo’ scaturisce anche dalla volontà di trovarsi, sempre
partecipe, sul fronte degli avvenimenti, sulla “linea del fuoco” e, come diceva,
gettando “il corpo nella lotta”. Il suo modo di procedere, così eterodosso, è
per intuizioni contigue attraverso la continua formulazione di nuove ipotesi:
far nostro il rischio della scienza. Pasolini non vuole comprendere la
realtà nel senso di riconoscervi una verità in quanto ‘corrispondenza’ tra un
soggetto della conoscenza e gli oggetti a cui essa si rivolge, finendo con
l’affermarsi come unica, con pretese di validità universale. Dichiara, invece,
di battersi solo per verità parziali di cui preferisce fare esperienza quali
diversi modi di essere al mondo che devono guidarlo alla scoperta della realtà,
immerso in essa in maniera lacerante e indifesa. Libertà di un pensiero
decisamente ‘eretico’ che a partire dal suo sentimento del sacro, lo conduce
nella percezione della realtà, a quella cognizione del diverso antitetica a ogni
forma di sintesi teorica, lasciandolo sempre in una disposizione problematica.
Non per questo i risultati a cui le sue riflessioni approdano si sottraggono a
qualsiasi dimostrazione: Pasolini stesso è disposto a verificarli pubblicamente,
inscrivendoli provocatoriamente in formulazioni “teorematiche” da comprovare. Un
esempio, del resto, lo si ha proprio con il film Teorema che “come indica
il titolo si fonda su un’ipotesi che si dimostra matematicamente per
absurdum. Il quesito è questo: se una famiglia borghese venisse visitata da
un giovane dio, fosse Dioniso o Jehova, che cosa succederebbe?”. Quest’opera è
tutta nel tentativo di mostrare come in epoca moderna una potente e violenta
manifestazione del sacro rivelerebbe un ‘sapere’, altrimenti inccessibile,
generalmente negato dalla cultura dominante, ma in grado di metterla
irrimediabilmente in crisi. Il “teorema” pasoliniano, dotato di una carica
eversiva, si sviluppa in alcuni precisi passaggi che consentono di osservare il
mutamento che avverrebbe in un nucleo familiare (visto quasi come un
laboratorio) nel trovarsi a fare esperienza del sacro. E’ perciò necessario
ripercorere e analizzare le varie fasi della dimostrazione tanto nel romanzo
quanto nel film, per comprendere caratteristiche e significato attribuiti a un
eventuale contatto tra uomo e divino, qualificato come “l’incontro con
l’alterità che non ha nulla a che fare con la psicologia. La religiosità non è
vista come religio catto-cristiana, ma in assoluto”. Quello che a
Pasolini interessa è la rilevanza fenomenologica della manifestazione divina,
indipendentemente da qualsiasi confessione, credenza e istituzione religiose, di
cui offre una visione quasi affine a quella teorizzata da Rudolf Otto, in
particolare laddove lo studioso tedesco individua nel tremendum il
predicato che meglio descrive la violenta apparizione della divinità,
determinata da quel carattere demoniaco avvertibile quando si manifesta con la
sua ira: qualcosa che “divampa e si rivela misteriosamente come una forza
recondita della natura – come si usa dire – come una corrente elettrica la quale
si scarica su chiunque si faccia vicino”(Rudolf Otto, Il sacro, Milano,
Feltrinelli, 1966, p. 27)»(18).
Nei diversi episodi che lo compongono,
Teorema trova le proprie diverse forme-sens (19) nell’esplorazione
dell’impossibile redenzione di una borghesia che vuole cambiare il proprio mondo
(interiore ed esteriore) senza cambiare se stessa. L’analisi di questa assoluta
impossibilità della borghesia a riformare internamente se stessa per riuscire a
riconciliarsi con i propri conflitti intestini e con le forme economico-sociali
che l’hanno preceduta diventerà poi il tema principe delle proposte filmiche e
letterarie che contraddistingueranno il Pasolini successivo, non ultimo il
grande “elenco delle perversioni umane” verificato nei fotogrammi di
Salò-Sade del 1975 e in quello che avrebbe dovuto essere il suo film più
devastante e apocalittico se fosse stato realizzato: il
Porno-Teo-Kolossal di cui ci restano soltanto le sinossi provvisorie
(20).
|
1) “Ci sono grosso modo due generi di cineasti. Quelli
che camminano per la strada con la testa bassa e quelli che camminano con la
testa alta. I primi per vedere quel che avviene attorno a loro sono costretti ad
alzare spesso e d’improvviso la testa e a girarla ora a sinistra ora a destra, e
cogliere con una serie di sguardi ciò che si presenta ai loro occhi. Essi
vedono. I secondi non vedono nulla, guardano, fissando la loro
attenzione sul punto preciso che li interessa. Al momento di girare un film, le
inquadrature dei primi saranno ariose, fluide (Rossellini), quelle dei secondi
precise al millimetro (Hitchcock). Nei primi sdi troverà un découpage
senza dubbio disparato ma sensibilissimo alla tentazione del caso (Welles), e
nei secondi dei movimenti di macchina non solo di straordinaria precisione in
teatro di posa ma con un valore astratto di movimento nello spazio (Lang).
Bergman fa parte piuttosto del primo gruppo, quello del cinema libero. Visconti
del secondo, quello del cinema rigoroso. Per conto mio, preferisco Monika
a Senso e la politica degli autori a quella dei registi” (“Bergman contro
Visconti”, in J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema, trad. it. e cura di
A. Aprà , Milano, Garzanti, 19812, p. 102). 2) Dalla Premessa di Pier
Paolo Pasolini a J. – L. GODARD, Il cinema è il cinema cit., pp. 13-14:
“Godard ha colto il “significato” del “significante” burocrate, come un
ornitologo che infilzi con l’ago un insetto al volo. Perché l’ha fatto, nei miei
confronti? Perché io mi occupo di linguistica e di semiologia (male, da
dilettante, come peraltro asseriscono alcuni professori universitari, autori –
cronologicamente dietro mia iniziativa – di fumosi e illeggibili scritti di
semiologia del cinema, forse culturalmente esatti, ma senza un’idea). Nel
momento in cui mi occupo di linguistica e di semiologia sono, per Godard,
dunque, un rompiscatole. E quindi un burocrate. Perché l’università è
burocratica; perché l’accademia è burocratica; perché la specializzazione è
burocratica; perché il lavoro è burocratico. E Godard, temendo di essere
mangiato da tutta questa burocrazia, sospende ogni “distinguo” e si difende
in blocco dai rompiscatole. In cosa consiste, insomma, l’evidente
equivoco del mio dolce, umanissimo amico Godard? Consiste nel credere
ingenuamente che ogni linguistica e ogni semiologia siano normative…”. 3)
Pasolini mutua questa figura stilistica dalla tradizione novecentesca più
classicamente “sperimentale” (Verga, Pirandello, Svevo, ad esempio, ma
soprattutto l’amato Gadda e il forse insospettabile Bassani). Il ricorso è
deliberatamente “letterario” e salta a piè pari tutti i possibili modelli di
riferimento neorealistico: il Visconti di La terra trema, ad esempio, o
il Rossellini “didattico” degli ultimi film per la TV. Il punto di riferimento
stilistico-retorico di Pasolini è, ovviamente, Lo stile indiretto libero in
italiano di Giulio Herczeg (Firenze, Sansoni, 1963). 4) P. P. PASOLINI,
Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 19812, pp. 183-184. 5) P. P.
PASOLINI, Teorema, Milano, Garzanti, 1968 e sgg. 6) Una vita
violenta esce presso Garzanti di Milano in quell’anno e sarà al centro di un
violentissimo dibattito sulla natura della narrativa cosiddetta “populista”che
vedrà campeggiare la figura polemica e criticamente negativa di Alberto Asor
Rosa (cfr. le parti centrali di Scrittori e popolo, Roma, Savonà e
Savelli, 1965 e sgg.) 7) Interessanti spunti su questa primitiva
“possibilità” dell’opera pasoliniana sono contenuti nella parte centrale del bel
saggio di Stefano Casi dedicato ai Teatri di Pasolini (Milano, Ubulibri,
2005). 8) S. MURRI, Pier Paolo Pasolini, Roma, Il Castoro, 1994, p.
97. 9) P. P. PASOLINI, Teorem cit. , pp. 28-29. 10) P. P. PASOLINI,
Teorema cit. , pp. 38-39. 11) P. P. PASOLINI, Teorema cit. ,
pp. 44-45. 12) P. P. PASOLINI, Teorema cit. , pp. 72-73. 13) P. P.
PASOLINI, Teorema cit. , pp 14) C. BENE, A boccaperta, Milano,
Linea d’Ombra Edizioni, 1993 (la prima edizione di questo straordinario testo di
Carmelo Bene è però del 1976). 15) In Cuore sacro, un film di Ferzan
Ozpetek di trentasei anni dopo fortemente debitore al Teorema di Pasolini, sarà
l’attrice Barbara Bobulova, nel ruolo di Irene Ravelli, una ricca e
precedentemente spietata imprenditrice-strozzina, a compiere questo stesso gesto
che fu del Poverello di Assisi. 16) Questa ipotesi è del tutto improbabile:
Pasolini amava quel film e lo difese spesso a spada tratta ma i suoi temi, i
suoi modi e l’approccio stilistico di Antonioni non gli erano certo congeniali
(cfr. Pier Paolo Pasolini, I film degli altri, a cura di T. Kezich,
Parma, Guanda, 1996, soprattutto pp. 78-82). 17)A: FERRERO, Il cinema di
Pier Paolo Pasolini, Venezia, Marsilio, 19942, pp. 99-100. 18) G. CONTI
CALABRESE, Pasolini e il Sacro, Milano, Jaca Book, 1994, pp.
89-91. 19) Per questo concetto chiave dell’analisi critica dei film, cfr. F.
VANOYE – A. GOLIOT-LÉTÉ, Introduzione all’analisi del film, trad. it. di
D. Buzzolan, Torino, Lindau, 1998, p. 132. 20) Su quello che avrebbe dovuto
essere il film successivo a Salò-Sade e che non è stato mai realizzato al
modo in cui Pasolini avrebbe voluto – I magi randagi di Sergio Citti del
1996 non essendone che la pallida ombra fiabesca – cfr. Laura Salvini, I
frantumi del tutto. Ipotesi e letture dell’ultimo progetto cinematografico di
Pier Paolo Pasolini, Porno-Teo-Kolossal, Bologna, CLUEB, 2005.
Fonte:
http://www.graffinrete.it/dismisura/articolo.php?a=1&f=3&p=10
| @Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
Curatore, Bruno Esposito
Grazie per aver visitato il mio blog
|
Nessun commento:
Posta un commento