Dicono che Totò fosse principe. Una sera che eravamo a cena insieme diede una mancia di ventimila lire a un cameriere. Di solito i principi non danno simili mance, sono molto taccagni. Se Totò era principe, era dunque un principe molto strano. In realtà conoscendolo risultava un piccolo borghese, un uomo di media cultura, con un certo ideale di vita piccolo borghese. Come uomo. Ma come artista, qual è la sua cultura? La sua cultura è la cultura napoletana sottoproletaria, è di lì che viene fuori direttamente. Totò è inconcepibile al di fuori di Napoli e del sottoproletariato napoletano.
Come tale Totò
legava perfettamente con il mondo che io ho descritto, in chiave diversa perché
il mondo da me descritto era in chiave comica e tragica, mentre Totò ha portato
un elemento clownesco, da Pulcinella, però sempre tipico di un certo
sottoproletariato che è quello di Napoli. Un comico esiste in quanto fa una
specie di clichè di se stesso, egli non può uscire da una certa selezione di se
che egli opera. Nel momento in cui ne uscisse non sarebbe più quella figura,
quella silhouette che il pubblico è abituato ad amare e conoscere e con cui ha
un rapporto fatto di allusioni e di riferimenti.
Anche Totò ha fatto
il clichè di Totò, che è un momento inderogabile per un comico per esistere.
Entro i limiti di questo clichè, i poli entro cui un attore si muove sono molto
ravvicinati. I poli di Totò sono, da una parte, questo suo fare da Pulcinella,
da " marionetta disarticolata "; dall'altra c'è un uomo buono, un napoletano
buono starei per dire neorealistico realistico, vero. Ma questi due poli sono
estremamente avvicinati, talmente avvicinati da fondersi continuamente. È
impensabile un Totò buono, dolce, napoletano, bonario, un po' crepuscolare, al
di fuori del suo essere marionetta. È impensabile un Totò marionetta al di fuori
del suo essere un buon sottoproletario napoletano.
Il problema del
rapporto tra regista e attore è un tasto molto delicato. Non voglio certo
pretendere di risolverlo qui. Quando dicevo che ogni comico oggettiva se stesso
in una specie di figura assoluta, stilizzata, di clichè di se stesso, volevo
dire che l'attore comico crea se stesso, inventa se stesso, quindi compie
un'operazione poetica, artistica, di carattere e livello estetico e non
semplicemente comunicativo e strumentale. E quindi nel momento in cui Totò ha
creato e inventato se stesso ha continuato sempre a inventarsi; la sua opera di
inventore continua, non cessa nel momento in cui si inserisce dentro
l'invenzione di un altro. Praticamente il Totò in un film mio o in un film di un
altro regista è inscindibile dal film; teoricamente invece lo è, si può
scindere, e si può trovare dentro la creazione del regista il momento creativo
dell'attore. Evidentemente egli è sempre inventore, è sempre un creatore, sempre
un artista in qualsiasi film si trovi. Se lo si trova nel film di un autore, è
difficile capire qual è il momento suo dell'invenzione, se invece lo si trova in
un film mediocre o addirittura in un film brutto, allora invece questa
operazione è molto più facile. Si scopre immediatamente il momento creativo di
Totò, e lo si gode di più.
Il recupero che viene fatto oggi
di Totò mi sembra un recupero puramente casuale, che non ha altro senso che
quello di proporre alla volgarità degli anni Settanta la volgarità degli anni
Cinquanta. Sono convinto che i film che ha fatto Totò durante gli anni Cinquanta
sono tutti orribili, squallidi e volgari. Non per colpa sua, perchè in questo
caso bisogna ipotizzare una dissociazione assolutamente netta, precisa,
drastica, tra autore del film e attore. In quanto attore Totò si è autocreato ed
è vissuto autonomamente, ma i film che ha fatto sono oggettivamente brutti. Se
ne salvano alcuni, ma non sono quelli del recupero attuale. Si recuperano i
brutti film di Totò perché sostanzialmente nulla è cambiato, e anzi
probabilmente quanto a volgarità e a sottocultura gli anni Settanta non hanno
nulla da invidiare agli anni Cinquanta. In realtà non c'è stato un caso Totò
negli anni Cinquanta. Negli anni Cinquanta Totò è stato uno dei tanti prodotti,
una delle tante merci che si sono consumati quasi senza accorgersene, non è
stato un caso di cultura. Perché negli anni Cinquanta c'erano altri problemi,
altri casi molto più interessanti, più vivi, più reali, anche se come tutte le
cose umane naturalmente oggi superati. Invece oggi Totò è una scoperta, che ha
carattere di una scoperta cosiddetta culturale, mentre secondo me non lo è. Il
che significa che negli anni Settanta si sono scatenate delle forze, degli
interessi che erano rimasti sopiti allora e che esplodono adesso.
Nel mio film io ho scelto Totò
per la sua natura, diciamo così, doppia. Da una parte c’è il sottoproletariato
napoletano, e dall’altra c'è il puro e semplice clown, il burattino snodato,
l'uomo dei lazzi e degli sberleffi. Queste due caratteristiche insieme mi
servivano a formare il mio personaggio. Ed è per questo che l'ho usato. Nel mio
film Totò non si presenta come piccolo borghese, ma come proletario o come
sottoproletario, cioè come lavoratore. E il suo non accorgersi della storia è il
non accorgersi della storia dell'uomo innocente, non del piccolo borghese che
non vuole accorgersene per i suoi miseri interessi personali e
sociali.
lo uso attori e non
attori. Praticamente mi comporto con loro nello stesso modo, li prendo per
quello che essi sono, non m'interessa la loro abilità. Se prendo un non attore,
lo prendo per quello che lui è. Mettiamo Ninetto Davoli. Non era attore quando
ha cominciato a recitare con Totò, e l'ho preso per quello che era, non ne ho
fatto un altro personaggio. La stessa cosa ho fatto di Totò. Naturalmente un
attore porta in questa operazione la sua coscienza e magari anche la sua
opposizione al fatto di essere usato per quel brano di realtà che lui è. Molte
volte non lo accetta, allora resiste, ecc. Ma sostanzialmente il risultato
espressivo finale non tiene conto degli apporti professionali di un attore, ma
di quello che l'attore è, anche in quanto attore. Quando dico che prendo una
persona per quello che è intendo soprattutto come uomo. Nel fondo di Totò c'era
una dolcezza, un atteggiamento buono e al limite qualunquistico, ma di quel
tipico qualunquismo napoletano che non è qualunquismo, che è innocenza, che è
distacco dalle cose, che è estrema saggezza, decrepita saggezza. Quindi quando
io dico Totò nella sua realtà intendo Totò nella sua realtà di uomo, e aggiungo
anche di attore.
La mia ambizione in Uccellacci è stata quella di
strappare Totò dal codice, cioè di decodificarlo. Com'era il codice attraverso
cui uno poteva interpretare Totò allora? Era il codice del comportamento
dell'infimo borghese italiano, della piccola borghesia portata alla sua estrema
espressione di volgarità e aggressività, di inerzia e di disinteresse culturale.
Totò innocentemente faceva tutto questo facendo parallelamente, attraverso
quella dissociazione di cui parlavo prima, un altro personaggio che era al di
fuori di tutto questo. Però evidentemente il pubblico lo interpretava attraverso
questo codice, allora io per prima cosa ho cercato di passare un colpo di spugna
su questo modo di interpretare Totò. E ho tolto tutta la sua cattiveria, tutta
la sua aggressività, tutto il suo teppismo, tutto il suo ghignare, tutto il suo
fare gli sberleffi alle spalle degli altri. Questo è scomparso completamente dal
mio Totò. Il mio Totò è quasi tenero e indifeso come un implume, è sempre pieno
di dolcezza, di povertà fisica, direi. Non fa le boccacce dietro a nessuno.
Sfotte leggermente qualcuno, ma come un altro potrebbe sfottere lui, perché è
nel modo di comportarsi popolare quello di sfottere qualcuno, ma è una
sfottitura leggera e mai volgare. Quindi come prima cosa ho cercato di
decodificare Totò, e avvicinarlo il più possibile alla sua vera natura, che
veniva fuori in quel modo strano che dicevo. Una volta fatto questo, l'ho
opposto in quanto protagonista all'intellettuale marxista ma borghese. Ma è un
antagonismo che sta nelle cose, non sta in Totò o nel corvo che fa
l'intellettuale, sta nelle cose. Che cosa ho opposto? Ho opposto un personaggio
innocente fuori dall'interesse politico immediato, cioè fuori dalla storia, a
chi invece fa della politica il suo vero e più profondo interesse e vive in
quella che lui crede essere la storia. Cioè ho opposto esistenza a cultura,
innocenza a storia.
Il rapporto di Totò con il dialetto è molto
realistico. Totò ha probabilmente deciso sin dalle origini di non essere un
attore dialettale napoletano, come in un certo senso, Eduardo De Filippo e i
tipici attori dialettali. Ha voluto essere un attore dialettale, di origine
napoletana, ma non strettamente napoletano. La sua lingua è stata una specie di
mimesi del dialetto o del modo di parlare del napoletano, del meridionale,
emigrato in una città burocratica come Roma. E allora ecco gli inserti di lingua
burocratica, di lingua militaresca, di modi di dire dei vari gerghi del parlare
comune, per esempio quello sportivo, mettiamo. Nell'uso che io ho fatto di Totò
ho eliminato tutto questo, ho eliminato le parole dette fra virgolette, le
citazioni burocratiche o militaresche o sportive, e gli ho dato un linguaggio
che non è un linguaggio puramente dialettale, mettiamo o il napoletano o il
romano, ma un misto dei due. È la lingua che può parlare un immigrato
meridionale che vive da venti, trent'anni a Roma e quindi ha perso le sue
caratteristiche linguistiche mescolandole con le nuove. (1973)
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