"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini nell’era di Internet (II)
Di Guido Nicolosi
Indice:
5. La “Soggettiva Libera Indiretta”
Pasolini ha introdotto la soggettiva libera indiretta nel tentativo di dimostrare l’esistenza concreta, empirica, di un indicatore semiotico in grado di rendere verificabile uno stile poetico nel cinema. Essa, in effetti, rappresenta la traslazione cinematografica del discorso libero indiretto letterario. Quindi, per Pasolini, l’esistenza del cinema di poesia è subordinata all’uso cinematografico della tecnica dell’immersione dell’autore all’interno dell’animo del suo personaggio: “l’adozione, da parte dell’autore, non solo della psicologia del suo personaggio, ma anche della sua lingua”. É impossibile non ritrovare, in questa definizione del discorso libero indiretto, lo stile letterario dello stesso Pasolini; basterebbe pensare all’uso
dialettale e all’identificazione “spirituale” del narratore con i personaggi, in romanzi come “Una vita violenta” o “Ragazzi di vita”. Pasolini ha individuato nel naturalismo il momento fondante di tale stile letterario: citare il “I Malavoglia” di Verga (Verismo) è fin troppo scontato. Eppure Pasolini ha ritrovato tracce dell’uso di tale tecnica anche nel più lontano passato, ai primordi della lingua italiana, in autori come Dante (il criticatissimo “La volontà di Dante a essere poeta”).
Ciò che ha interessato maggiormente Pasolini, è stata la necessità di distinguere, però, tra un uso proprio ed un uso pretestuale del libero indiretto. L’uso pretestuale si ha quando l’autore, borghese e privo di qualsiasi forma di coscienza di classe, usa la lingua del personaggio come pretesto, appunto, per l’espressione della propria, personale visione del mondo (Weltanschauung). Al contrario, l’uso proprio è legato ad una “adozione” linguistica, ma anche psicologica, che si realizza non solo quando l’autore riporta i discorsi del personaggio in forma diretta, ma anche quando è l’autore a descrivere, a parlare: “il “libero indiretto”[...] è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette e quindi implica l’uso della lingua del personaggio”.
Naturalmente, nel cinema, al discorso diretto corrisponde la soggettiva, mentre, come abbiamo detto, secondo Pasolini, è la soggettiva libera indiretta che sostituisce il libero indiretto. Ma nel cinema la questione si complica, in quanto non è possibile per l’autore adottare una lingua diversa dalla sua, sia gergo o dialetto, appartenente al suo personaggio. Nel cinema esiste un’unica “lingua”, “interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo”. Come può, cioè, il regista materializzare il suo calarsi nella psicologia e nella lingua dal personaggio? Per quanto sia assodato che soggetti appartenenti a classi sociali differenti, di fatto, vedano cose diverse, rimane il problema di come si possa, in termini istituzionalizzati, esprimere ciò attraverso le immagini. É qui che Pasolini si è richiamato ad una necessità stilistica. La soggettiva libera indiretta è una operazione stilistica e non meramente linguistica, che si concretizza in “un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito”. Ciò si esplica nella liberazione delle possibilità espressive che sono state storicamente soffocate dalla tradizione prosaica del cinema.
Costa ha definito la soggettiva libera indiretta di Pasolini come la materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Così, se il personaggio è un nevrotico, che distorce nevroticamente la sua realtà, l’autore deve trasferire questa nevrosi nelle immagini, non solo in quelle soggettive, ma in tutte le inquadrature, il montaggio, la luce, la scenografia, la fotografia, ecc. L’esempio fatto da Costa, è quello dell’esperienza espressionista, in cui si ha una costante deformazione percettiva e stilistica del pro-filmico [Costa, 1993]. Naturalmente, così come avveniva per il discorso libero indiretto, anche per la cinematografica soggettiva libera indiretta si ha un uso proprio ed uno pretestuale. Dove l’uso pretestuale è quello in cui l’autore, con la soggettiva l.i., in realtà impone al suo personaggio una sua condizione personale, per lo più borghese. Lo stile, cioè , non rispecchia affatto l’animo del personaggio, bensì la condizione esistenziale soggettiva dell’autore, priva di alcuna coscienza “sociologica”. Pasolini ha individuato quest’uso pretestuale in autori come Antonioni, Bertolucci e Godard.
6. Le critiche di Metz
Metz ha criticato alcune delle affermazioni di Pasolini sul cinema di poesia, rispondendo ad esse nell’ottica generale della sua semiologia del cinema [Metz, 1968]. In primo luogo, ha detto Metz, se è vero che il cinema, sebbene privo di ciò che è l’idioma per lo scrittore, riesce a comunicare, ciò non giustifica l’ipotesi pasoliniana di un linguaggio anteriore già “codificato” o in linea di principio codificabile. Cioè, gli im-segni di Pasolini che, per quanto labili, egli considerava virtualmente organizzabili, vengono criticati nella misura in cui Pasolini li ha definiti come insieme preliminare al cinema. Se il film comunica, malgrado la sua natura non linguistica, ciò è dovuto, secondo Metz, al banale motivo che le immagini sono “la duplicazione fotografica, di uno spettacolo reale che ha sempre e già un senso”. In realtà Metz non ha rifiutato tout court la teoria degli im-segni, ma non ha basato su di essi il processo d’intellezione filmica, che è ottenuto “senza nessun altro codice all’infuori di quello della percezione con i suoi condizionamenti psicosociologici e culturali, in breve senza nessun codice di linguaggio”. Ciò che Pasolini ha chiamato im-segni, per Metz, sono dei codici culturali, ben lungi dal rappresentare il primo stadio del linguaggio cinematografico, come l’idioma per lo scrittore. Tale primo stadio (“livello di organizzazione”) è invece rappresentato dalla analogia visiva. Il tavolo è riconosciuto dal lettore grazie all’uso del termine “tavolo”, arbitrario e immotivato, frutto di una determinazione culturale, lo spettatore lo riconosce sulla base di un’analogia visiva1. Le codificazioni culturali, a cui si riferisce Pasolini parlando di im-segni, intervengono nell’immagine (analogica) che è un momento diverso rispetto alla codificazione che riguarda il linguaggio cinematografico, cioè il momento della sintagmatica. Il fatto di vedere un’immagine raffigurante un’automobile, è chiaro, implica un riferimento ad un certo codice culturale che, significando le caratteristiche dell’auto, ci aiuta a comprendere meglio l’immagine e le sue specificità storico-culturali. Ma il primo passo è dato dal riconoscimento di un’automobile: il senso denotato; il resto rappresenta un condizionamento psicosociologico, importante, ma ad un livello diverso rispetto alla codificazione filmica (sintagmatica). Il fatto che questa sia una “concatenazione di “motivi”" implica, naturalmente, che anche a tale livello possano intervenire codici culturali in grado di “motivare” particolari concatenazioni. Così, per esempio, la logica affermatasi nella nostra civiltà e le sue figure tipiche come il parallelismo o l’antitesi, possono spiegare la facile comprensione del sintagma parallelo. Ma ciò che specifica il cinema è “il sistema complessivo che dispone queste varie codificazioni”.
Un ulteriore momento di dissenso tra i due si è avuto sul punto in cui Pasolini ha affermato che la convenzione cinematografica è stilistica più che grammaticale. Pasolini ha riportato anche l’esempio dell’immagine delle ruote di un treno che corrono tra il vapore, la quale rappresenta, appunto, uno stilema più che un sintagma.
Metz ha riscontrato in questa posizione una contraddizione, in quanto essa dimostrerebbe come lo stesso Pasolini non abbia realmente creduto ad uno stadio pre-linguistico, codificabile, rappresentato dagli im-segni.
E d’altra parte, convenendo sul fatto che quell’esempio rappresenti uno stilema, Metz ha ribadito il fatto che esso non ha nulla a che fare con la “sintassi cinematografica”. La grammatica, infatti, non può stabilire un contenuto di un’immagine, così come di un enunciato; essa riguarda la struttura delle concatenazioni, la loro organizzazione. L’esempio pasoliniano del treno é, per Metz, uno stereotipo culturale. La grande sintagmatica, di cui Metz si è occupato, può prescrivere “concatenazioni fisse di elementi non fissi”, come affermava la retorica classica. Per tale motivo Metz ha fatto propria l’affermazione pasoliniana che, nella semiologia del cinema, retorica e grammatica non sono separabili.
Naturalmente, la concretizzazione cinematografica del “cinema di poesia” ha scandalizzato, con la sua costante trasgressione “eversiva” delle convenzioni narrative tradizionali. Le infrazioni ai canoni cinematografici affermati, oggi diventate nuovo canone convenzionale, allora hanno rappresentato un tentativo di modificare il cinema e la sua tradizione narrativa. Il fare “sentire” la macchina da presa cambiando gli obiettivi nella stessa inquadratura, l’uso mai fatto prima così marcatamente dello zoom, camera a spalla e raccordi di montaggio “sbavati”, la controluce voluta ecc., sono stati tutti elementi che hanno ricercato un’accentuazione del momento soggettivo, volto a smantellare la tradizione prosastica a vantaggio di una accezione spiccatamente poetica.
Metz, come sappiamo, ha contestato la reale portata di questa nuova concezione del cinema moderno, cercando, pur apprezzandone il valore, di ridimensionarne gli effetti. A suo avviso, cioè, quel nuovo “mito libertario” affermatosi negli anni sessanta e di cui Pasolini è stato grande, ma non unico, esponente, ha rappresentato moltissimo per il cinema. Egli ha detto: “Rifiutare Jean-Luc Godard o Alain Resnais, nel 1966, significa in qualche modo mettersi al di fuori del cinema”. Però, affrontando criticamente tutte le parole d’ordine di quel cinema, egli non ha saputo individuare una sola istanza che realmente colpisse a morte la struttura di fondo che da sempre ha retto la rappresentazione cinematografica. Tutte le nozioni “rivoluzionarie” (il cinema del piano, il realismo, il cinema del cineasta, il cinema della sdrammatizzazione e dell’improvvisazione, la morte dello spettacolo) sono insufficienti. In particolare, ha sostenuto Metz, si è errato nel sovrastimare la presenza di narratività nel passato e nel sottostimare quella del presente. Il superamento della sintassi e della grammatica non si è verificato, per Metz, semplicemente perché il cinema ha obbedito non a regole sintattiche, bensì ad alcune “leggi semiologiche fondamentali”, che per loro natura non sono superabili. Tali sono le articolazioni sintagmatiche individuate da Metz che, a prescindere dalle modificazioni della “punteggiatura” cinematografica, permangono nel permeare, dandogli vita, ogni racconto su pellicola, che lo si voglia o no “sotto pena di diventare inintelligibile”.
7. La “Lingua scritta della Realtà”
“Non è il cinema un’ arte metonimica, ma è la realta che è metonimica. Sono i fenomeni del mondo che sono i sintagmi del linguaggio della realtà.” [P.P.Pasolini]
Giustamente Adelio Ferrero ha definito la posizione semiologica assunta da Pasolini, con la relazione “La lingua scritta della realtà”, la più ardua e la più “scandalosa” [Ferrero, 1977]. Possiamo tranquillamente asserire che è con questa relazione che meglio si delinea la qualità “pansemiotica” a cui si è riferito Eco.
Pasolini ha preso le mosse da un assunto di fondo, che consiste nell’identificare la poesia con l’azione. L’azione poetica é, certo, rinchiusa all’interno di simboli linguistici, ma ciò avviene per pura necessità comunicativa. In realtà, la poesia sfrutta tali simboli come veicoli, per poi rivivere di nuovo come azione, nel destinatario. Essendo questo l’assunto, è facile capire come il cinema per Pasolini sia diventato, in quanto cinema di poesia, un linguaggio dell’azione, anzi “La lingua scritta dell’azione”. Infatti, coerentemente, la realtà è vista come “del cinema in natura”, dove l’azione stessa è considerata come il più antico e il più importante dei linguaggi umani, con tutte le implicazioni irrazionaliste che ciò comporta. Per questo Pasolini ha visto nella “semiologia del linguaggio dell’azione umana” la filosofia per eccellenza, una filosofia straordinariamente coincidente con la fenomenologia Husserliana. Ciò è particolarmente vero dal momento in cui il cinema è stato in grado di riprodurre tutte le variabili del reale, riducendo le limitazioni prosodiche, lasciando il cinema muto a rappresentare la vera forma di “cinema d’arte” e una sorta di storia della stilistica cinematografica.
Ma, una volta di più, è stato il dibattito a distanza con C. Metz e la sua impostazione puramente semiologica, ad animare in Pasolini una necessità chiarificatrice. In primo luogo, dopo aver contestato la classica idea di lingua fondata sulla doppia articolazione, Pasolini ha comunque riconosciuto nel cinema le condizioni per l’individuazione di tale doppia articolazione.
Come ben sappiamo, secondo la famosa analisi di Martinet, che secondo quanto lo stesso Pasolini ha affermato, rappresenta la fase finale della linguistica di Saussure, un linguaggio si basa su una doppia articolazione. La prima articolazione si realizza mediante la combinazione di unità dotate di significato autonomo, chiamati monemi o morfemi (spesso si semplifica facendoli coincidere con le parole). La seconda si basa sulla combinazione di unità minime non dotate di significato o fonemi. Sono i fonemi che combinandosi tra di loro danno vita ai monemi. Per questo, sulla base dell’analisi di Jakobson, parlando, noi abbiamo a disposizione un doppio asse. Il primo è quello della selezione, in cui scegliamo quelle unità che disponiamo sul secondo asse, quello delle combinazioni. Esiste, dunque, a nostra disposizione, a livello di lingua o codice e non di parole, un paradigma, da cui noi possiamo scegliere, come se fosse un’urna da cui estrarre, le unità che poi combiniamo sintagmaticamente. Ciò si realizza su più livelli, per cui esiste un paradigma di fonemi che combiniamo in monemi, ma esiste un paradigma di monemi, che combiniamo sintagmaticamente per dar vita a delle frasi, e così via. Metz ha fatto propria questa impostazione di Martinet, riconoscendo l’impossibilità nel cinema di parlare di una seconda articolazione. I fonemi, come abbiamo visto, sono unità minime prive di significato autonomo, che implicano un rapporto di assoluta arbitrarietà tra significato e significante. Se la loro esistenza, nel caso delle lingue parlate, è scontata, nel cinema tutto ciò risulta molto più problematico. É stato lo stesso Saussure a definire la lingua come arbitraria, nella misura in cui non esiste alcuna necessità logica o naturale tra significato e significante. Ogni lingua ritaglia in maniera immotivata (arbitraria) i propri segni (significante + significato) [Prampolini, 1994]. Per tale motivo noi possiamo asserire che esiste una socialità dei segni della lingua parlata, come usa dire Bettetini, in quanto il significato (concetto) non è un modello psichico individuale, ma superindividuale e collettivo, ereditato dalla comunità linguistica tramite una certa socializzazione. Diversamente, per i segni audiovisivi, non possiamo parlare di socialità, se non minima e non istituzionale10 [Bettetini, 1968]. É questa la causa della doppia faccia del fenomeno dell’universalità del cinema, che anche Pasolini ha esaltato: il cinema è universale in quanto “la percezione visiva, nei diversi luoghi del mondo, varia meno degli idiomi”. Ma è universale anche perché sfugge alla doppia articolazione, a causa della forte vicinanza tra significato e significante. É impossibile scomporre il significante (immagine) senza disgregare anche il significato [Metz, 1968].
Pasolini ha, di fatto, rivoluzionato tutto ciò, asserendo la possibilità di individuare la doppia articolazione nel cinema. Egli ha negato che sia l’immagine (inquadratura) l’unità minima, ed ha asserito che in realtà “l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono un’inquadratura”. Egli ha definito tali unità “cinemi”, per assonanza con i fonemi. E come i fonemi linguistici sono dati e finiti, i cinemi hanno la peculiarità della “obbligatorietà”, dato che non possiamo che scegliere gli oggetti che la vita reale ci offre. Pasolini arriva a definire la lingua del cinema attraverso una lunga parafrasi del Martinet, che noi riportiamo integralmente: “La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione secondo il quale si analizza — in maniera identica nelle diverse comunità — l’esperienza umana, in unità riproduttici il contenuto semantico e dotate di un espressione audiovisiva, i monemi o inquadrature; l’espressione audiovisiva si articola a sua volta in unità distintive e successive, i cinemi, o oggetti, forme e atti della realtà [...], i quali sono discreti, illimitati, e unici per tutti gli uomini a qualsiasi nazionalità questi appartengano”.
Così come la lingua scritta si presenta a noi come convenzione che ha il compito di fissare la lingua orale, il cinema viene visto da Pasolini come il momento scritto della lingua naturale che è l’azione: “l’intera vita, nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente”. Il cinema, allora, è visto come un modo di fissare la lingua dell’”agire nella realtà”. Però, la lingua scritto-parlata assume, nella sua struttura grammaticale, una costituzione “parallela” rispetto alla realtà. Si tratta, secondo Pasolini, di un parallelismo che si esprime su una linearità orizzontale, che specifica la distanza evocativa esistente tra realtà e lingua scritto-parlata. Al contrario, nel caso del cinema, esiste un rapporto “verticale”, una “linea, cioè, che pesca” nella realtà, nei suoi oggetti (i cinemi), che specifica la vicinanza riproduttiva tra il reale e la lingua audio-visiva. Entrambe traducono la realtà, ma una lo fa per evocazione, l’altra per riproduzione.
Nella seconda parte della relazione Pasolini ha cercato di costruire una grammatica filmica che materializzasse le sue posizioni teoriche sulla “cinelingua”.
Egli ha individuato quattro “modi “grammaticali
1) Modi della riproduzione
2) Modi della sostantivazione
3) Modi della qualificazione
4) Modi della verbalizzazione
Il primo punto rappresenta una sorta di ortografia cinematografica, comprendente le tecniche riproduttive che vanno dalla soluzione dei problemi cromatici e di luce, al funzionamento della cinepresa e della presa diretta ecc..
Il secondo punto affronta delle questioni sostantivali. In primo luogo, la questione della limitazione dei cinèmi, limitazione necessaria a chi si appresta a comunicare audiovisivamente. In realtà, ha detto Pasolini, è sempre impossibile fare una “lista chiusa”, cioè limitata, dei cinèmi che debbono rientrare nell’ambito di una composizione d’inquadratura. Ciò che si può attuare è una tendenziale chiusura della lista dei cinèmi, che si ripercuote sui monemi cinematografici (inquadrature), i quali sottostanno, per ciò, ad una “infinitosemia” che si riduce a tendenziale monosemia. L’esempio fatto da Pasolini, in cui la tendenziale limitazione si esplica nell’ “impossibilità” di trovare oggetti esotici nell’ambito di un’inquadratura di un insegnante occidentale, serve da spunto, poi, per svelare come l’universalità del “lessico” cinema, si specifica in una differenziazione etnico-storica. Secondariamente, Pasolini ha affermato come il monema cinematografico corrisponda alla proposizione relativa della lingua scritto-parlata, dato che ogni inquadratura rappresenta qualcosa che è lì o fa o dice ecc. Naturalmente il monema non coincide necessariamente con un’inquadratura, dato che ci si trova spesso davanti a dei piano-sequenza, dove i monemi vengono “accumulati”.
Il terzo punto, dopo avere individuato le definizione tecniche della qualificazione, tenta di differenziare, analogamente alla qualificazione verbale, le forme della qualificazione filmica: attiva, passiva, deponente. Si ha il primo caso quando si realizza, mediante una prevalenza della cinepresa sul soggetto, un’accentuazione dei momenti “lirico-soggettivi” (cinema di poesia). Il secondo caso si verifica nella situazione opposta, mentre il terzo rappresenta una forma intermedia tra i primi due.
Infine, il quarto punto realizza una classificazione analoga, ma riferita alla verbalizzazione. I modi relativi, in realtà, coincidono con il montaggio che si differenzia in:
1) montaggio denotattivo
2) montaggio connotativo
Il primo tipo di montaggio è stato fatto coincidere, da Pasolini, con il momento sintattico. Si tratta di un montaggio esclusivamente strumentale alla comunicazione di un discorso, il racconto. Esso, naturalmente, si specifica nelle classiche giunzioni ellittiche di natura oppositiva che danno vita alle “frasi”. Secondo l’esempio pasoliniano, l’accostamento oppositivo dell’immagine di un maestro a quella di alcuni scolari che ascoltano dà vita alla frase: il maestro insegna agli scolari. La durata dell’inquadratura è l’elemento essenziale stabilito da tali “attacchi “.
Il secondo tipo di montaggio, invece, opera a livello espressivo, di contenuto. Esso è stato definito anche montaggio ritmico, per volere evidenziare l’importanza che assume, in tale tipo di montaggio, il ritmo. Infatti con questa forma di montaggio viene definita la durata dell’inquadratura in sé e, soprattutto, in relazione con le altre inquadrature. Per tale motivo, parzialmente, montaggio connotativo e denotativo coincidono. La durata specifica la connotazione nella misura in cui essa, rendendo noto quanto il regista ha inteso soffermarsi su una figura, un dettaglio, un personaggio, carica di espressività variabile quella stessa figura o personaggio. Quanto, invece, al ritmo vero e proprio (durata in relazione alle altre inquadrature), esso è sempre presente e consiste, per Pasolini, in un “ritmema”, che rappresenta l’elemento realmente convenzionale ed arbitrario del cinema. Sono, infatti, solo i ritmi, nel cinema, a non coincidere, se non incidentalmente, con la realtà.
Naturalmente, con coerenza, Pasolini ha applicato questo nuovo schema, con interezza, al proprio discorso teorico sul cinema di poesia, ribadendone la distinzione dal cinema di prosa. Una distinzione adesso carica di verifiche sintattiche e grammaticali.
Pasolini ha spinto fino all’estremo, come era sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica meramente cinematografica come il montaggio e un elemento esistenziale, fortemente legato al vivere della realtà, come la morte.
Il cinema, ha detto Pasolini, è cosa diversa dal singolo film che noi guardiamo quotidianamente. Il cinema, come entità sostanzialmente astratta, è un infinito piano sequenza. Attraverso l’uso della lingua del cinema, infatti, si resta nell’ambito della realtà senza soluzione di continuità, in continuum che non utilizza le interruzioni di una lingua simbolica, arbitraria. Quest’ultima, abbiamo detto, evoca la realtà e ciò facendo la interrompe. Pensando al cinema, Pasolini, ha pensato ad un immaginario occhio virtuale, in grado di non perdere alcuna delle azioni che riguardano la vita di ognuno, con nessuna interruzione, in ogni dettaglio.
Nella concretezza dei singoli film, invece, ciò non si realizza, specie nei films dello stesso Pasolini, che fa un uso estremamente parsimonioso del piano sequenza. L’uso del montaggio, che spezza la continuità del cinema, è stato giustificato da Pasolini, con la necessità di mantenere una condizione non naturalistica anche nel film. Così come la nozione del cinema come infinito piano-sequenza è assolutamente non naturalistica, l’uso concreto del piano-sequenza, nel film, ha un effetto naturalistico. Diventa quindi necessario smantellare tale naturalismo per riequilibrare le sorti di cinema e film. La continuità viene recuperata a livello “sintetico” grazie al montaggio. Fondamentalmente, per Pasolini, la differenza tra film e cinema è analoga alla distinzione, che la linguistica saussuriana pone, tra langue (qui il cinema) e parole (qui il film).
Tornando al parallelo tra montaggio e morte, esso si realizza in quanto la morte da alla vita ciò che il montaggio da al film, cioè il senso. Finché un uomo o una donna sono vivi, la loro vita è “un caos di possibilità”, in quanto tutto può ancora succedere loro, modificando il corso e quindi il significato della loro vita. Finché vivi, essi sono solo potenzialità ; la morte dona loro un senso, azzerando il possibile, annullando il divenire. La morte trasforma il presente del vivente in passato. Chiarisce ogni azione alla luce di un finito susseguirsi di altre azioni, compiute nel passato e mai più modificabili, riassunte in vero “fulmineo montaggio” della vita. Lo stesso avviene nel passaggio dal cinema astratto al film concreto, a cui il montaggio da un senso finale trasformando, anche in questo caso, il presente in passato. Un passato che “per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, …ha sempre i modi del presente (é cioè un presente storico)”.
É possibile, da questa trattazione sommaria, evincere il carattere della semiotica pasoliniana. Un’elaborazione che seppur attenta, analitica e di enorme spessore euristico, assume sovente i tratti di una speculazione che oscilla tra il filosofico e il poetico. Egli stesso, d’altronde, ha spesso sottolineato come fosse suo impegno, dar vita ad una filosofia del cinema. Tutto ciò ribadisce la nostra convinzione, gia esplicitata in precedenza, che il giusto approccio alla semiologia pasoliniana debba essere in grado di distinguere ciò che, in quanto scientifico, ha un valore diverso, non maggiore, ma diverso, da ciò che possiamo, con Costa, definire una semiologia en poète [Costa, 1993]
8. Reazioni critiche
“Una donna guarda una pianura. Il soggetto, il verbo e l’oggetto di tale azione sono decifrabili allo stesso modo nella realtà e nel cinema. [...] La donna ci risponde “come segno iconico di se stessa”, allo stesso modo nella realtà e nel cinema.”. Potremmo affermare che in queste poche righe sia riassunta, in un’epitome essenziale, l’intera struttura semiotica che sta alla base della “semiologia della realtà” di Pasolini. Naturalmente, come era facile prevedere e come lo stesso Pasolini ha voluto, le reazioni critiche accademiche a tale impostazione rivoluzionaria e “scandalosa”, sono state numerosissime. Antonio Costa ha, in un recente saggio, ribadito un concetto interessante. Secondo Costa, le critiche specialistiche mosse alla semiologia pasoliniana sono per lo più condivisibili, in quanto attaccano una “confusione” che Pasolini ha fatto tra lingua e realtà e tra codice e natura. Ma, in realtà, lo stesso Pasolini non è stato interessato più di tanto a tali critiche. Il suo obiettivo principale, assolutamente realizzato, è stato quello di teorizzare in modo trasgressivo ed eversivo rispetto ad una omologazione linguistica e culturale imperante [Costa, 1993]. Come spesso è accaduto, cioè, la sua posizione, lungi dall’essere fine a se stessa, ha mirato a creare focolai di riflessione, di critica antiaccademica, volta a guadagnare degli spazi di lotta contro un appiattimento culturale delle libere menti.
Delle critiche e del dibattito instaurato con C. Metz abbiamo già accennato.
É, invece, importante ricordare che anche Umberto Eco ha ampiamente messo in discussione la validità semiotica del discorso pasoliniano. In particolare, tra i due, si è creata una divergenza che ha riguardato, in primo luogo, la presunta unione tra referente e segno, postulata, di fatto, dalla “Metafisica Pansemiotica” pasoliniana. Per tale motivo Eco ha messo in relazione la posizione di Pasolini con alcuni tratti della semiologia del Peirce.
Più volte Pasolini ha ribadito il principio cardine della sua semiologia, cioè che gli oggetti sono “oggetti autorivelantesi” come segni di se stessi. Un albero, davanti ai nostri occhi, non è altro che un oggetto che assume una funzione segnica e quindi comunicativa, perché la “Realtà parla con se stessa” e quindi i “sema” parlano ad altri “sema”. La realtà assume, in Pasolini, la veste di Codice dei Codici, il cosiddetto Ur-Codice. Da Eco, tale codice sottostante veniva fatto coincidere con la percezione sensoriale di cui le scienze come la psicologia devono occuparsi. Pasolini, invece, definisce gli oggetti reali come unità minime di Ur-Codice che, sulla base del principio dell’interazione dei codici, si ripropongono, ad un livello soprastante, come unità minime di seconda articolazione (cinèmi) di quell’altro codice culturale che è il cinema. Il Peirce, così come ha riportato Eco, a fronte dei problemi posti dalle particolari relazioni che possono intercorrere tra referente, significato e significante, distinse tra Qualisegni, Sinsegni e Legisegni. Il Sinsegno venne definito una replica di un modello astratto (Legisegno), che può implicare dei Qualisegni (qualità che sono segni, come il colore). Ebbene, se è possibile definire la Monna Lisa come Sinsegno, Pasolini ha usato tale definizione per proporre l’idea di un “sinsegno naturale” rappresentato dalla Monna Lisa in persona.
Una seconda distinzione posta dal Peirce fu quella, basata sul tipo di legame presunto col referente, tra Indice, Icona e Simbolo. Si tratta di una tripartizione fondamentale per la semiologia filmica, come dimostra l’enorme uso che ne è stato fatto da tanti autori. L’Indice è un segno che ha un rapporto fisico con l’oggetto che indica (es. la banderuola ed il vento). Il Simbolo è un segno arbitrario, che ha un rapporto convenzionale con l’oggetto (es. il segno linguistico). L’Icona, il più controverso, è un segno che assomiglia, in virtù di una corrispondenza di alcune proprietà, all’oggetto rappresentato [Eco, 1973]. Anche in questo caso, Pasolini , riferendosi ad un noto paradosso del Morris, ha usato tale classificazione a sostegno della propria tesi. Infatti, l’Icona, per definizione, implica una somiglianza di proprietà tra segno e referente e quindi, portato all’estremo, un segno assolutamente iconico annulla la sua stessa nozione, coincidendo con l’oggetto stesso: “il vero e completo segno iconico della Regina Elisabetta non è il ritratto di Annigoni, ma la Regina stessa”.
Eco ha evidenziato i rischi che nascono da un uso troppo libero della tripartizione di Peirce, in particolare con riferimento all’ambigua definizione di icona e alla mancanza di rigorosità nella definizione dello stesso concetto di segno. Iniziamo da quest’ultimo punto. Affinché si possa parlare correttamente di segno, in termini semiotici, è necessaria la soddisfazione di alcune fondamentali condizioni. In primo luogo, il segno è definito come “qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, o per qualcos’altro”, dove l’accento è posto su questa qualità sostitutiva essenziale. Il segno, cioè, rappresenta l’oggetto, ma non s’identifica mai con esso. Lo stesso Peirce ha sottolineato come il segno rappresenti solo alcuni aspetti dell’oggetto, ma non la sua totalità. Secondariamente, ha ribadito Eco, il segno è inserito in un processo di comunicazione del tipo: fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario. In realtà, poi, il segno è inserito, in termini più rigorosi, all’interno di un processo di significazione. Quindi, nel momento in cui non si pone l’esistenza di un Codice, non esiste nemmeno significazione. Il Codice, infatti, stabilendo un corpo di regole condivise e convenzionali, garantisce la comprensione tra emittente e destinatario. La non esistenza di un Codice riduce il processo comunicativo a semplice processo di stimolo-risposta, in cui non viene soddisfatta la condizione essenziale nel definire un segno, che stabilisce che esso stia per qualcos’altro. Lo stimolo, infatti, non sta per, ma provoca qualcos’altro. Altra condizione essenziale, nel definire il segno, consiste nella reversibilità intellettuale del processo segnico. Per tale ragione dobbiamo definire, ed è questo il punto di scontro tra Eco e Pasolini, i segni non come dei fenomeni naturali, bensì come dei dati culturali, noti sulla base di codificazione sociale, esperienza ed apprendimento. Noi tutti, cioè, viviamo immersi nei segni, ma non perché viviamo in natura, bensì perché viviamo in un mondo sociale. Basterà pensare, d’altronde, alle cosiddette funzioni-segno. Ogni uso di un oggetto implica inevitabilmente una semantizzazione. Come ha detto Barthes: “per il solo fatto che c’é società, ogni uso è convertito in segno di questo uso”. Ad esempio, un ombrello è un oggetto che svolge una funzione, quella di ripararci dalla pioggia. La sua funzione, però, non può non comportare il segno di una precisa condizione atmosferica. Affinché un oggetto fosse insignificante dovremmo immaginare qualcosa di improvvisato e lontano totalmente da qualsiasi modello a noi noto, il che è sostanzialmente impossibile [Barthes, 1964b]. Allo stesso modo, i cosiddetti “segni” naturali, possiamo considerarli e definirli come “indizi”. Perché se, come fa il Morris, consideriamo segno qualsiasi cosa venga interpretata come tale da qualche interprete (es. fumo come segno di un incendio), finiamo col confondere un processo inferenziale, di tipo logico deduttivo, con un fenomeno ben diverso, che è il processo di significazione, il quale necessita di un codice condiviso [Eco, 1973].
Inoltre, esiste una precisa semiotica degli oggetti. Molti semiologi concordano nell’affermare che un certo oggetto, il quale espleta una specifica funzione, comunica inevitabilmente tale funzione, anche quando essa non viene compiuta. Eco ha approfondito tale questione (con particolare riferimento all’architettura) dividendo la funzione prima (significazione di ciò per cui l’oggetto è stato fabbricato) dalla funzione seconda (serie di significati storico-culturali da cui non è possibile distaccarsi). Spesso, l’esempio più eclatante potrebbe essere dato dall’automobile nella nostra cultura, la funzione seconda sovrasta e occulta la stessa funzione prima. Senza addentrarci in ulteriori specificazioni e classificazioni, possiamo solo aggiungere che l’analisi precedente è valida anche per quei “segni” emessi spontaneamente, senza intenzione comunicativa. Peraltro, esistono intere branche scientifiche, come la prossemica, che studiano tali fenomeni. Ciò che, però, a noi interessa è che tutti quei segnali inintenzionali che, sebbene espressivi, sono privi di una precedente codifica culturale, devono essere considerati alla stessa stregua degli indizi o dei sintomi, diversi profondamente dai segni nell’accezione che qui ci interessa.
L’altra questione, sollevata da Eco, riguarda la definizione di icona. L’ambiguità di fondo del concetto, consiste nel fatto di attribuire all’icona alcune proprietà dell’oggetto. Eco ha concordato col già citato paradosso di Morris, in quanto tutti gli oggetti possono diventare a loro volta segni, in base ad una “semiotizzazione del referente”. Siamo nel caso definito dei segni ostensivi (es. domando una bottiglia di vino, ostentando una bottiglia vera). Prescindendo il fatto che, comunque, tali segni non sono totalmente iconici, perché differenti, in qualche elemento, dagli oggetti che rappresentano, essi svolgono tale funzione solo perché, a monte, esiste una convenzione culturale che stabilisce la relazione ostensiva. In realtà, ha detto Eco, l’icona intrattiene un rapporto di similarità con l’oggetto, ma ciò non può legittimare una teoria della motivazione profonda dei segni, che realizzerebbe, tra l’altro, una eccessiva dicotomizzazione concettuale tra segni motivati e segni arbitrari, a vantaggio di una presunta naturalità della rappresentazione iconica. Alla luce di una tale dicotomia, si potrebbe affermare che se la parola (significante) intrattiene una relazione artificiale e arbitraria col concetto, il disegno, mettiamo di una mano, è in grado di rappresentare il suo significato (mano) sulla base di una naturale coincidenza analogica tra la mano reale e il suo disegno. Eco, di fatto, si è opposto ad una tale concezione, ribadendo che:
D’altronde, lo stesso Peirce sostenne che l’icona ha proprietà configurazionali dell’oggetto. Ed infatti, per lui, un diagramma o un’espressione algebrica erano iconici più di una rappresentazione fotografica. Un diagramma è iconico perché esso, una volta compreso, ci aiuta a creare un’immagine mentale del concetto espresso. Ma allora il discorso sull’iconismo diventa un discorso sulle convenzioni che danno vita all’iconismo. Non esiste, infatti, nessuna ragione “naturale” che spieghi perché un diagramma debba entrare in relazione con, per esempio, un concetto politologico. E, d’altronde, lo stesso Peirce definì l’icona come immagine mentale, mentre considerò la rassomiglianza con la realtà, del segno, come assolutamente irrilevante.
É chiara, dunque, la posizione di Eco, rispetto alla semiotica pasoliniana. Il gestire significante dell’essere umano è frutto di convenzione culturale, la sua dimensione dell’azione è un “universo di segni” non leggibili, quindi, come natura.
Anche Garroni si è opposto alla semiotica pasoliniana, definendola, di fatto, la coerente appendice di un populismo neorealistico che ha pervaso tutta la sua produzione artistica. Per Garroni, infatti, la realtà non può entrare all’interno di un rapporto semiotico, in quanto essa rappresenta la pre-condizione materiale di ogni codice, non potendo, per tale ragione, mai essere, essa stessa, codice [Garroni, 1968].
Un ulteriore terreno di divisione teorica si è avuto sulla questione della doppia articolazione del linguaggio filmico. Su questa ipotesi, Bettetini non ha nascosto le sue perplessità e la sua preferenza è andata all’elaborazione sintagmatica di Metz. Alle unità fonetiche linguistiche, nel cinema, non corrisponde niente che abbia un valore speculativo essenziale, per Bettetini. Invece, alle unità di significato o morfemi, corrisponderebbero “gli elementi tecnici che compongono l’immagine”. Infine, alle unità relazionali corrisponderebbero le unità linguistiche del cinema, il quale sulla base della distanza ridotta tra significato e significante, non può prescindere da tali “aspetti relazionali”. A queste unità, Bettetini, ha dato il nome di “iconèmi”, che rappresentano il “frammento unitario del discorso filmico”. L’unitarietà è relativa al potere significante e l’iconèma é, quindi, paragonabile ad una “frase cinematografica” [Bettetini, 1968].
U. Eco ha proposto un modello diverso, dove può essere individuata, nell’ambito del linguaggio filmico, una triplice articolazione. Eco, rifacendosi alla cinesica, ha voluto ricordare i cosiddetti cinemorfi o “unità gestuali significanti”. I quali sono scomponibili in “figure cinesiche” o “cini”, che sono elementi discreti che non fanno parte del significato dei cinemorfi. Con la macchina da presa, cioè, si realizzerebbe l’identificazione degli elementi minimi che compongono in continuo dell’azione, unità discrete che in sé sono prive di significato. La triplice articolazione consisterebbe, dunque, nell’esistenza di:
1) figure cinesiche, senza significato unitario, che si combinano in segni cinesici
2) segni cinesici che si compongono in sintagmi, combinabili all’infinito
Figure cinesiche, segni cinesici, sintagmi. La terza articolazione, quindi, si fonderebbe proprio sulla natura dinamica della realtà riprodotta al cinema [Eco, 1967].
(fine seconda parte)
Note:
1. Interessante, a tal proposito, ricordare che anche Barthes si era espresso favorevolmente sulla qualità analogica della fotografia. In aperto dissenso con chi esaltava l’artificialità culturale e la relatività semantica della fotografia (prospettiva albertiana, bidimensionalità), egli ha ribadito la “qualità” sempre analogica dellla fotografia. La fotografia, insomma, come immagine senza codice, la cui lettura, però, è influenzata dai codici [Barthes, 1980].
2. è però vero che, dopo cento anni di storia del cinema, esistono delle immagini che hanno un significato condiviso dai diversi spettatori. L’esempio più classico é, forse, la rotazione delle lancette di un orologio che viene generalmente riconosciuto come immagine significante del trascorrere del tempo. Allo stesso modo, la dissolvenza incrociata è riconosciuta facilmente nel significato di un passaggio di luogo o di tempo. Però, dice Bettetini, queste immagini o tecniche, sebbene uguali, in ogni film vengono reinventate nello stile dell’opera, ribadendo la peculiarità e la differenza rispetto al linguaggio scritto-parlato.
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2000/11/pasolini-nellera-di-internet-ii/
Ciò che ha interessato maggiormente Pasolini, è stata la necessità di distinguere, però, tra un uso proprio ed un uso pretestuale del libero indiretto. L’uso pretestuale si ha quando l’autore, borghese e privo di qualsiasi forma di coscienza di classe, usa la lingua del personaggio come pretesto, appunto, per l’espressione della propria, personale visione del mondo (Weltanschauung). Al contrario, l’uso proprio è legato ad una “adozione” linguistica, ma anche psicologica, che si realizza non solo quando l’autore riporta i discorsi del personaggio in forma diretta, ma anche quando è l’autore a descrivere, a parlare: “il “libero indiretto”[...] è un vero e proprio discorso diretto senza le virgolette e quindi implica l’uso della lingua del personaggio”.
Naturalmente, nel cinema, al discorso diretto corrisponde la soggettiva, mentre, come abbiamo detto, secondo Pasolini, è la soggettiva libera indiretta che sostituisce il libero indiretto. Ma nel cinema la questione si complica, in quanto non è possibile per l’autore adottare una lingua diversa dalla sua, sia gergo o dialetto, appartenente al suo personaggio. Nel cinema esiste un’unica “lingua”, “interdialettale e internazionale: perché gli occhi sono uguali in tutto il mondo”. Come può, cioè, il regista materializzare il suo calarsi nella psicologia e nella lingua dal personaggio? Per quanto sia assodato che soggetti appartenenti a classi sociali differenti, di fatto, vedano cose diverse, rimane il problema di come si possa, in termini istituzionalizzati, esprimere ciò attraverso le immagini. É qui che Pasolini si è richiamato ad una necessità stilistica. La soggettiva libera indiretta è una operazione stilistica e non meramente linguistica, che si concretizza in “un monologo interiore privo dell’elemento concettuale e filosofico astratto esplicito”. Ciò si esplica nella liberazione delle possibilità espressive che sono state storicamente soffocate dalla tradizione prosaica del cinema.
Costa ha definito la soggettiva libera indiretta di Pasolini come la materializzazione di un certo modo di intendere la realtà di un personaggio in tutte le inquadrature, anche quelle chiamate oggettive. Così, se il personaggio è un nevrotico, che distorce nevroticamente la sua realtà, l’autore deve trasferire questa nevrosi nelle immagini, non solo in quelle soggettive, ma in tutte le inquadrature, il montaggio, la luce, la scenografia, la fotografia, ecc. L’esempio fatto da Costa, è quello dell’esperienza espressionista, in cui si ha una costante deformazione percettiva e stilistica del pro-filmico [Costa, 1993]. Naturalmente, così come avveniva per il discorso libero indiretto, anche per la cinematografica soggettiva libera indiretta si ha un uso proprio ed uno pretestuale. Dove l’uso pretestuale è quello in cui l’autore, con la soggettiva l.i., in realtà impone al suo personaggio una sua condizione personale, per lo più borghese. Lo stile, cioè , non rispecchia affatto l’animo del personaggio, bensì la condizione esistenziale soggettiva dell’autore, priva di alcuna coscienza “sociologica”. Pasolini ha individuato quest’uso pretestuale in autori come Antonioni, Bertolucci e Godard.
6. Le critiche di Metz
Metz ha criticato alcune delle affermazioni di Pasolini sul cinema di poesia, rispondendo ad esse nell’ottica generale della sua semiologia del cinema [Metz, 1968]. In primo luogo, ha detto Metz, se è vero che il cinema, sebbene privo di ciò che è l’idioma per lo scrittore, riesce a comunicare, ciò non giustifica l’ipotesi pasoliniana di un linguaggio anteriore già “codificato” o in linea di principio codificabile. Cioè, gli im-segni di Pasolini che, per quanto labili, egli considerava virtualmente organizzabili, vengono criticati nella misura in cui Pasolini li ha definiti come insieme preliminare al cinema. Se il film comunica, malgrado la sua natura non linguistica, ciò è dovuto, secondo Metz, al banale motivo che le immagini sono “la duplicazione fotografica, di uno spettacolo reale che ha sempre e già un senso”. In realtà Metz non ha rifiutato tout court la teoria degli im-segni, ma non ha basato su di essi il processo d’intellezione filmica, che è ottenuto “senza nessun altro codice all’infuori di quello della percezione con i suoi condizionamenti psicosociologici e culturali, in breve senza nessun codice di linguaggio”. Ciò che Pasolini ha chiamato im-segni, per Metz, sono dei codici culturali, ben lungi dal rappresentare il primo stadio del linguaggio cinematografico, come l’idioma per lo scrittore. Tale primo stadio (“livello di organizzazione”) è invece rappresentato dalla analogia visiva. Il tavolo è riconosciuto dal lettore grazie all’uso del termine “tavolo”, arbitrario e immotivato, frutto di una determinazione culturale, lo spettatore lo riconosce sulla base di un’analogia visiva1. Le codificazioni culturali, a cui si riferisce Pasolini parlando di im-segni, intervengono nell’immagine (analogica) che è un momento diverso rispetto alla codificazione che riguarda il linguaggio cinematografico, cioè il momento della sintagmatica. Il fatto di vedere un’immagine raffigurante un’automobile, è chiaro, implica un riferimento ad un certo codice culturale che, significando le caratteristiche dell’auto, ci aiuta a comprendere meglio l’immagine e le sue specificità storico-culturali. Ma il primo passo è dato dal riconoscimento di un’automobile: il senso denotato; il resto rappresenta un condizionamento psicosociologico, importante, ma ad un livello diverso rispetto alla codificazione filmica (sintagmatica). Il fatto che questa sia una “concatenazione di “motivi”" implica, naturalmente, che anche a tale livello possano intervenire codici culturali in grado di “motivare” particolari concatenazioni. Così, per esempio, la logica affermatasi nella nostra civiltà e le sue figure tipiche come il parallelismo o l’antitesi, possono spiegare la facile comprensione del sintagma parallelo. Ma ciò che specifica il cinema è “il sistema complessivo che dispone queste varie codificazioni”.
Un ulteriore momento di dissenso tra i due si è avuto sul punto in cui Pasolini ha affermato che la convenzione cinematografica è stilistica più che grammaticale. Pasolini ha riportato anche l’esempio dell’immagine delle ruote di un treno che corrono tra il vapore, la quale rappresenta, appunto, uno stilema più che un sintagma.
Metz ha riscontrato in questa posizione una contraddizione, in quanto essa dimostrerebbe come lo stesso Pasolini non abbia realmente creduto ad uno stadio pre-linguistico, codificabile, rappresentato dagli im-segni.
E d’altra parte, convenendo sul fatto che quell’esempio rappresenti uno stilema, Metz ha ribadito il fatto che esso non ha nulla a che fare con la “sintassi cinematografica”. La grammatica, infatti, non può stabilire un contenuto di un’immagine, così come di un enunciato; essa riguarda la struttura delle concatenazioni, la loro organizzazione. L’esempio pasoliniano del treno é, per Metz, uno stereotipo culturale. La grande sintagmatica, di cui Metz si è occupato, può prescrivere “concatenazioni fisse di elementi non fissi”, come affermava la retorica classica. Per tale motivo Metz ha fatto propria l’affermazione pasoliniana che, nella semiologia del cinema, retorica e grammatica non sono separabili.
Naturalmente, la concretizzazione cinematografica del “cinema di poesia” ha scandalizzato, con la sua costante trasgressione “eversiva” delle convenzioni narrative tradizionali. Le infrazioni ai canoni cinematografici affermati, oggi diventate nuovo canone convenzionale, allora hanno rappresentato un tentativo di modificare il cinema e la sua tradizione narrativa. Il fare “sentire” la macchina da presa cambiando gli obiettivi nella stessa inquadratura, l’uso mai fatto prima così marcatamente dello zoom, camera a spalla e raccordi di montaggio “sbavati”, la controluce voluta ecc., sono stati tutti elementi che hanno ricercato un’accentuazione del momento soggettivo, volto a smantellare la tradizione prosastica a vantaggio di una accezione spiccatamente poetica.
Metz, come sappiamo, ha contestato la reale portata di questa nuova concezione del cinema moderno, cercando, pur apprezzandone il valore, di ridimensionarne gli effetti. A suo avviso, cioè, quel nuovo “mito libertario” affermatosi negli anni sessanta e di cui Pasolini è stato grande, ma non unico, esponente, ha rappresentato moltissimo per il cinema. Egli ha detto: “Rifiutare Jean-Luc Godard o Alain Resnais, nel 1966, significa in qualche modo mettersi al di fuori del cinema”. Però, affrontando criticamente tutte le parole d’ordine di quel cinema, egli non ha saputo individuare una sola istanza che realmente colpisse a morte la struttura di fondo che da sempre ha retto la rappresentazione cinematografica. Tutte le nozioni “rivoluzionarie” (il cinema del piano, il realismo, il cinema del cineasta, il cinema della sdrammatizzazione e dell’improvvisazione, la morte dello spettacolo) sono insufficienti. In particolare, ha sostenuto Metz, si è errato nel sovrastimare la presenza di narratività nel passato e nel sottostimare quella del presente. Il superamento della sintassi e della grammatica non si è verificato, per Metz, semplicemente perché il cinema ha obbedito non a regole sintattiche, bensì ad alcune “leggi semiologiche fondamentali”, che per loro natura non sono superabili. Tali sono le articolazioni sintagmatiche individuate da Metz che, a prescindere dalle modificazioni della “punteggiatura” cinematografica, permangono nel permeare, dandogli vita, ogni racconto su pellicola, che lo si voglia o no “sotto pena di diventare inintelligibile”.
7. La “Lingua scritta della Realtà”
“Non è il cinema un’ arte metonimica, ma è la realta che è metonimica. Sono i fenomeni del mondo che sono i sintagmi del linguaggio della realtà.” [P.P.Pasolini]
Giustamente Adelio Ferrero ha definito la posizione semiologica assunta da Pasolini, con la relazione “La lingua scritta della realtà”, la più ardua e la più “scandalosa” [Ferrero, 1977]. Possiamo tranquillamente asserire che è con questa relazione che meglio si delinea la qualità “pansemiotica” a cui si è riferito Eco.
Pasolini ha preso le mosse da un assunto di fondo, che consiste nell’identificare la poesia con l’azione. L’azione poetica é, certo, rinchiusa all’interno di simboli linguistici, ma ciò avviene per pura necessità comunicativa. In realtà, la poesia sfrutta tali simboli come veicoli, per poi rivivere di nuovo come azione, nel destinatario. Essendo questo l’assunto, è facile capire come il cinema per Pasolini sia diventato, in quanto cinema di poesia, un linguaggio dell’azione, anzi “La lingua scritta dell’azione”. Infatti, coerentemente, la realtà è vista come “del cinema in natura”, dove l’azione stessa è considerata come il più antico e il più importante dei linguaggi umani, con tutte le implicazioni irrazionaliste che ciò comporta. Per questo Pasolini ha visto nella “semiologia del linguaggio dell’azione umana” la filosofia per eccellenza, una filosofia straordinariamente coincidente con la fenomenologia Husserliana. Ciò è particolarmente vero dal momento in cui il cinema è stato in grado di riprodurre tutte le variabili del reale, riducendo le limitazioni prosodiche, lasciando il cinema muto a rappresentare la vera forma di “cinema d’arte” e una sorta di storia della stilistica cinematografica.
Ma, una volta di più, è stato il dibattito a distanza con C. Metz e la sua impostazione puramente semiologica, ad animare in Pasolini una necessità chiarificatrice. In primo luogo, dopo aver contestato la classica idea di lingua fondata sulla doppia articolazione, Pasolini ha comunque riconosciuto nel cinema le condizioni per l’individuazione di tale doppia articolazione.
Come ben sappiamo, secondo la famosa analisi di Martinet, che secondo quanto lo stesso Pasolini ha affermato, rappresenta la fase finale della linguistica di Saussure, un linguaggio si basa su una doppia articolazione. La prima articolazione si realizza mediante la combinazione di unità dotate di significato autonomo, chiamati monemi o morfemi (spesso si semplifica facendoli coincidere con le parole). La seconda si basa sulla combinazione di unità minime non dotate di significato o fonemi. Sono i fonemi che combinandosi tra di loro danno vita ai monemi. Per questo, sulla base dell’analisi di Jakobson, parlando, noi abbiamo a disposizione un doppio asse. Il primo è quello della selezione, in cui scegliamo quelle unità che disponiamo sul secondo asse, quello delle combinazioni. Esiste, dunque, a nostra disposizione, a livello di lingua o codice e non di parole, un paradigma, da cui noi possiamo scegliere, come se fosse un’urna da cui estrarre, le unità che poi combiniamo sintagmaticamente. Ciò si realizza su più livelli, per cui esiste un paradigma di fonemi che combiniamo in monemi, ma esiste un paradigma di monemi, che combiniamo sintagmaticamente per dar vita a delle frasi, e così via. Metz ha fatto propria questa impostazione di Martinet, riconoscendo l’impossibilità nel cinema di parlare di una seconda articolazione. I fonemi, come abbiamo visto, sono unità minime prive di significato autonomo, che implicano un rapporto di assoluta arbitrarietà tra significato e significante. Se la loro esistenza, nel caso delle lingue parlate, è scontata, nel cinema tutto ciò risulta molto più problematico. É stato lo stesso Saussure a definire la lingua come arbitraria, nella misura in cui non esiste alcuna necessità logica o naturale tra significato e significante. Ogni lingua ritaglia in maniera immotivata (arbitraria) i propri segni (significante + significato) [Prampolini, 1994]. Per tale motivo noi possiamo asserire che esiste una socialità dei segni della lingua parlata, come usa dire Bettetini, in quanto il significato (concetto) non è un modello psichico individuale, ma superindividuale e collettivo, ereditato dalla comunità linguistica tramite una certa socializzazione. Diversamente, per i segni audiovisivi, non possiamo parlare di socialità, se non minima e non istituzionale10 [Bettetini, 1968]. É questa la causa della doppia faccia del fenomeno dell’universalità del cinema, che anche Pasolini ha esaltato: il cinema è universale in quanto “la percezione visiva, nei diversi luoghi del mondo, varia meno degli idiomi”. Ma è universale anche perché sfugge alla doppia articolazione, a causa della forte vicinanza tra significato e significante. É impossibile scomporre il significante (immagine) senza disgregare anche il significato [Metz, 1968].
Pasolini ha, di fatto, rivoluzionato tutto ciò, asserendo la possibilità di individuare la doppia articolazione nel cinema. Egli ha negato che sia l’immagine (inquadratura) l’unità minima, ed ha asserito che in realtà “l’unità minima della lingua cinematografica sono i vari oggetti reali che compongono un’inquadratura”. Egli ha definito tali unità “cinemi”, per assonanza con i fonemi. E come i fonemi linguistici sono dati e finiti, i cinemi hanno la peculiarità della “obbligatorietà”, dato che non possiamo che scegliere gli oggetti che la vita reale ci offre. Pasolini arriva a definire la lingua del cinema attraverso una lunga parafrasi del Martinet, che noi riportiamo integralmente: “La lingua del cinema è uno strumento di comunicazione secondo il quale si analizza — in maniera identica nelle diverse comunità — l’esperienza umana, in unità riproduttici il contenuto semantico e dotate di un espressione audiovisiva, i monemi o inquadrature; l’espressione audiovisiva si articola a sua volta in unità distintive e successive, i cinemi, o oggetti, forme e atti della realtà [...], i quali sono discreti, illimitati, e unici per tutti gli uomini a qualsiasi nazionalità questi appartengano”.
Così come la lingua scritta si presenta a noi come convenzione che ha il compito di fissare la lingua orale, il cinema viene visto da Pasolini come il momento scritto della lingua naturale che è l’azione: “l’intera vita, nel complesso delle sue azioni è un cinema naturale, vivente”. Il cinema, allora, è visto come un modo di fissare la lingua dell’”agire nella realtà”. Però, la lingua scritto-parlata assume, nella sua struttura grammaticale, una costituzione “parallela” rispetto alla realtà. Si tratta, secondo Pasolini, di un parallelismo che si esprime su una linearità orizzontale, che specifica la distanza evocativa esistente tra realtà e lingua scritto-parlata. Al contrario, nel caso del cinema, esiste un rapporto “verticale”, una “linea, cioè, che pesca” nella realtà, nei suoi oggetti (i cinemi), che specifica la vicinanza riproduttiva tra il reale e la lingua audio-visiva. Entrambe traducono la realtà, ma una lo fa per evocazione, l’altra per riproduzione.
Nella seconda parte della relazione Pasolini ha cercato di costruire una grammatica filmica che materializzasse le sue posizioni teoriche sulla “cinelingua”.
Egli ha individuato quattro “modi “grammaticali
1) Modi della riproduzione
2) Modi della sostantivazione
3) Modi della qualificazione
4) Modi della verbalizzazione
Il primo punto rappresenta una sorta di ortografia cinematografica, comprendente le tecniche riproduttive che vanno dalla soluzione dei problemi cromatici e di luce, al funzionamento della cinepresa e della presa diretta ecc..
Il secondo punto affronta delle questioni sostantivali. In primo luogo, la questione della limitazione dei cinèmi, limitazione necessaria a chi si appresta a comunicare audiovisivamente. In realtà, ha detto Pasolini, è sempre impossibile fare una “lista chiusa”, cioè limitata, dei cinèmi che debbono rientrare nell’ambito di una composizione d’inquadratura. Ciò che si può attuare è una tendenziale chiusura della lista dei cinèmi, che si ripercuote sui monemi cinematografici (inquadrature), i quali sottostanno, per ciò, ad una “infinitosemia” che si riduce a tendenziale monosemia. L’esempio fatto da Pasolini, in cui la tendenziale limitazione si esplica nell’ “impossibilità” di trovare oggetti esotici nell’ambito di un’inquadratura di un insegnante occidentale, serve da spunto, poi, per svelare come l’universalità del “lessico” cinema, si specifica in una differenziazione etnico-storica. Secondariamente, Pasolini ha affermato come il monema cinematografico corrisponda alla proposizione relativa della lingua scritto-parlata, dato che ogni inquadratura rappresenta qualcosa che è lì o fa o dice ecc. Naturalmente il monema non coincide necessariamente con un’inquadratura, dato che ci si trova spesso davanti a dei piano-sequenza, dove i monemi vengono “accumulati”.
Il terzo punto, dopo avere individuato le definizione tecniche della qualificazione, tenta di differenziare, analogamente alla qualificazione verbale, le forme della qualificazione filmica: attiva, passiva, deponente. Si ha il primo caso quando si realizza, mediante una prevalenza della cinepresa sul soggetto, un’accentuazione dei momenti “lirico-soggettivi” (cinema di poesia). Il secondo caso si verifica nella situazione opposta, mentre il terzo rappresenta una forma intermedia tra i primi due.
Infine, il quarto punto realizza una classificazione analoga, ma riferita alla verbalizzazione. I modi relativi, in realtà, coincidono con il montaggio che si differenzia in:
1) montaggio denotattivo
2) montaggio connotativo
Il primo tipo di montaggio è stato fatto coincidere, da Pasolini, con il momento sintattico. Si tratta di un montaggio esclusivamente strumentale alla comunicazione di un discorso, il racconto. Esso, naturalmente, si specifica nelle classiche giunzioni ellittiche di natura oppositiva che danno vita alle “frasi”. Secondo l’esempio pasoliniano, l’accostamento oppositivo dell’immagine di un maestro a quella di alcuni scolari che ascoltano dà vita alla frase: il maestro insegna agli scolari. La durata dell’inquadratura è l’elemento essenziale stabilito da tali “attacchi “.
Il secondo tipo di montaggio, invece, opera a livello espressivo, di contenuto. Esso è stato definito anche montaggio ritmico, per volere evidenziare l’importanza che assume, in tale tipo di montaggio, il ritmo. Infatti con questa forma di montaggio viene definita la durata dell’inquadratura in sé e, soprattutto, in relazione con le altre inquadrature. Per tale motivo, parzialmente, montaggio connotativo e denotativo coincidono. La durata specifica la connotazione nella misura in cui essa, rendendo noto quanto il regista ha inteso soffermarsi su una figura, un dettaglio, un personaggio, carica di espressività variabile quella stessa figura o personaggio. Quanto, invece, al ritmo vero e proprio (durata in relazione alle altre inquadrature), esso è sempre presente e consiste, per Pasolini, in un “ritmema”, che rappresenta l’elemento realmente convenzionale ed arbitrario del cinema. Sono, infatti, solo i ritmi, nel cinema, a non coincidere, se non incidentalmente, con la realtà.
Naturalmente, con coerenza, Pasolini ha applicato questo nuovo schema, con interezza, al proprio discorso teorico sul cinema di poesia, ribadendone la distinzione dal cinema di prosa. Una distinzione adesso carica di verifiche sintattiche e grammaticali.
Pasolini ha spinto fino all’estremo, come era sua abitudine, le conseguenze di una simile impostazione semiologica, che vede nel cinema una lingua che non fa altro che fissare in maniera riproduttiva il linguaggio della realtà. Spingere all’estremo ha significato costruire un parallelo tra una tecnica meramente cinematografica come il montaggio e un elemento esistenziale, fortemente legato al vivere della realtà, come la morte.
Il cinema, ha detto Pasolini, è cosa diversa dal singolo film che noi guardiamo quotidianamente. Il cinema, come entità sostanzialmente astratta, è un infinito piano sequenza. Attraverso l’uso della lingua del cinema, infatti, si resta nell’ambito della realtà senza soluzione di continuità, in continuum che non utilizza le interruzioni di una lingua simbolica, arbitraria. Quest’ultima, abbiamo detto, evoca la realtà e ciò facendo la interrompe. Pensando al cinema, Pasolini, ha pensato ad un immaginario occhio virtuale, in grado di non perdere alcuna delle azioni che riguardano la vita di ognuno, con nessuna interruzione, in ogni dettaglio.
Nella concretezza dei singoli film, invece, ciò non si realizza, specie nei films dello stesso Pasolini, che fa un uso estremamente parsimonioso del piano sequenza. L’uso del montaggio, che spezza la continuità del cinema, è stato giustificato da Pasolini, con la necessità di mantenere una condizione non naturalistica anche nel film. Così come la nozione del cinema come infinito piano-sequenza è assolutamente non naturalistica, l’uso concreto del piano-sequenza, nel film, ha un effetto naturalistico. Diventa quindi necessario smantellare tale naturalismo per riequilibrare le sorti di cinema e film. La continuità viene recuperata a livello “sintetico” grazie al montaggio. Fondamentalmente, per Pasolini, la differenza tra film e cinema è analoga alla distinzione, che la linguistica saussuriana pone, tra langue (qui il cinema) e parole (qui il film).
Tornando al parallelo tra montaggio e morte, esso si realizza in quanto la morte da alla vita ciò che il montaggio da al film, cioè il senso. Finché un uomo o una donna sono vivi, la loro vita è “un caos di possibilità”, in quanto tutto può ancora succedere loro, modificando il corso e quindi il significato della loro vita. Finché vivi, essi sono solo potenzialità ; la morte dona loro un senso, azzerando il possibile, annullando il divenire. La morte trasforma il presente del vivente in passato. Chiarisce ogni azione alla luce di un finito susseguirsi di altre azioni, compiute nel passato e mai più modificabili, riassunte in vero “fulmineo montaggio” della vita. Lo stesso avviene nel passaggio dal cinema astratto al film concreto, a cui il montaggio da un senso finale trasformando, anche in questo caso, il presente in passato. Un passato che “per ragioni immanenti al mezzo cinematografico, …ha sempre i modi del presente (é cioè un presente storico)”.
É possibile, da questa trattazione sommaria, evincere il carattere della semiotica pasoliniana. Un’elaborazione che seppur attenta, analitica e di enorme spessore euristico, assume sovente i tratti di una speculazione che oscilla tra il filosofico e il poetico. Egli stesso, d’altronde, ha spesso sottolineato come fosse suo impegno, dar vita ad una filosofia del cinema. Tutto ciò ribadisce la nostra convinzione, gia esplicitata in precedenza, che il giusto approccio alla semiologia pasoliniana debba essere in grado di distinguere ciò che, in quanto scientifico, ha un valore diverso, non maggiore, ma diverso, da ciò che possiamo, con Costa, definire una semiologia en poète [Costa, 1993]
8. Reazioni critiche
“Una donna guarda una pianura. Il soggetto, il verbo e l’oggetto di tale azione sono decifrabili allo stesso modo nella realtà e nel cinema. [...] La donna ci risponde “come segno iconico di se stessa”, allo stesso modo nella realtà e nel cinema.”. Potremmo affermare che in queste poche righe sia riassunta, in un’epitome essenziale, l’intera struttura semiotica che sta alla base della “semiologia della realtà” di Pasolini. Naturalmente, come era facile prevedere e come lo stesso Pasolini ha voluto, le reazioni critiche accademiche a tale impostazione rivoluzionaria e “scandalosa”, sono state numerosissime. Antonio Costa ha, in un recente saggio, ribadito un concetto interessante. Secondo Costa, le critiche specialistiche mosse alla semiologia pasoliniana sono per lo più condivisibili, in quanto attaccano una “confusione” che Pasolini ha fatto tra lingua e realtà e tra codice e natura. Ma, in realtà, lo stesso Pasolini non è stato interessato più di tanto a tali critiche. Il suo obiettivo principale, assolutamente realizzato, è stato quello di teorizzare in modo trasgressivo ed eversivo rispetto ad una omologazione linguistica e culturale imperante [Costa, 1993]. Come spesso è accaduto, cioè, la sua posizione, lungi dall’essere fine a se stessa, ha mirato a creare focolai di riflessione, di critica antiaccademica, volta a guadagnare degli spazi di lotta contro un appiattimento culturale delle libere menti.
Delle critiche e del dibattito instaurato con C. Metz abbiamo già accennato.
É, invece, importante ricordare che anche Umberto Eco ha ampiamente messo in discussione la validità semiotica del discorso pasoliniano. In particolare, tra i due, si è creata una divergenza che ha riguardato, in primo luogo, la presunta unione tra referente e segno, postulata, di fatto, dalla “Metafisica Pansemiotica” pasoliniana. Per tale motivo Eco ha messo in relazione la posizione di Pasolini con alcuni tratti della semiologia del Peirce.
Più volte Pasolini ha ribadito il principio cardine della sua semiologia, cioè che gli oggetti sono “oggetti autorivelantesi” come segni di se stessi. Un albero, davanti ai nostri occhi, non è altro che un oggetto che assume una funzione segnica e quindi comunicativa, perché la “Realtà parla con se stessa” e quindi i “sema” parlano ad altri “sema”. La realtà assume, in Pasolini, la veste di Codice dei Codici, il cosiddetto Ur-Codice. Da Eco, tale codice sottostante veniva fatto coincidere con la percezione sensoriale di cui le scienze come la psicologia devono occuparsi. Pasolini, invece, definisce gli oggetti reali come unità minime di Ur-Codice che, sulla base del principio dell’interazione dei codici, si ripropongono, ad un livello soprastante, come unità minime di seconda articolazione (cinèmi) di quell’altro codice culturale che è il cinema. Il Peirce, così come ha riportato Eco, a fronte dei problemi posti dalle particolari relazioni che possono intercorrere tra referente, significato e significante, distinse tra Qualisegni, Sinsegni e Legisegni. Il Sinsegno venne definito una replica di un modello astratto (Legisegno), che può implicare dei Qualisegni (qualità che sono segni, come il colore). Ebbene, se è possibile definire la Monna Lisa come Sinsegno, Pasolini ha usato tale definizione per proporre l’idea di un “sinsegno naturale” rappresentato dalla Monna Lisa in persona.
Una seconda distinzione posta dal Peirce fu quella, basata sul tipo di legame presunto col referente, tra Indice, Icona e Simbolo. Si tratta di una tripartizione fondamentale per la semiologia filmica, come dimostra l’enorme uso che ne è stato fatto da tanti autori. L’Indice è un segno che ha un rapporto fisico con l’oggetto che indica (es. la banderuola ed il vento). Il Simbolo è un segno arbitrario, che ha un rapporto convenzionale con l’oggetto (es. il segno linguistico). L’Icona, il più controverso, è un segno che assomiglia, in virtù di una corrispondenza di alcune proprietà, all’oggetto rappresentato [Eco, 1973]. Anche in questo caso, Pasolini , riferendosi ad un noto paradosso del Morris, ha usato tale classificazione a sostegno della propria tesi. Infatti, l’Icona, per definizione, implica una somiglianza di proprietà tra segno e referente e quindi, portato all’estremo, un segno assolutamente iconico annulla la sua stessa nozione, coincidendo con l’oggetto stesso: “il vero e completo segno iconico della Regina Elisabetta non è il ritratto di Annigoni, ma la Regina stessa”.
Eco ha evidenziato i rischi che nascono da un uso troppo libero della tripartizione di Peirce, in particolare con riferimento all’ambigua definizione di icona e alla mancanza di rigorosità nella definizione dello stesso concetto di segno. Iniziamo da quest’ultimo punto. Affinché si possa parlare correttamente di segno, in termini semiotici, è necessaria la soddisfazione di alcune fondamentali condizioni. In primo luogo, il segno è definito come “qualcosa che sta al posto di qualcos’altro, o per qualcos’altro”, dove l’accento è posto su questa qualità sostitutiva essenziale. Il segno, cioè, rappresenta l’oggetto, ma non s’identifica mai con esso. Lo stesso Peirce ha sottolineato come il segno rappresenti solo alcuni aspetti dell’oggetto, ma non la sua totalità. Secondariamente, ha ribadito Eco, il segno è inserito in un processo di comunicazione del tipo: fonte-emittente-canale-messaggio-destinatario. In realtà, poi, il segno è inserito, in termini più rigorosi, all’interno di un processo di significazione. Quindi, nel momento in cui non si pone l’esistenza di un Codice, non esiste nemmeno significazione. Il Codice, infatti, stabilendo un corpo di regole condivise e convenzionali, garantisce la comprensione tra emittente e destinatario. La non esistenza di un Codice riduce il processo comunicativo a semplice processo di stimolo-risposta, in cui non viene soddisfatta la condizione essenziale nel definire un segno, che stabilisce che esso stia per qualcos’altro. Lo stimolo, infatti, non sta per, ma provoca qualcos’altro. Altra condizione essenziale, nel definire il segno, consiste nella reversibilità intellettuale del processo segnico. Per tale ragione dobbiamo definire, ed è questo il punto di scontro tra Eco e Pasolini, i segni non come dei fenomeni naturali, bensì come dei dati culturali, noti sulla base di codificazione sociale, esperienza ed apprendimento. Noi tutti, cioè, viviamo immersi nei segni, ma non perché viviamo in natura, bensì perché viviamo in un mondo sociale. Basterà pensare, d’altronde, alle cosiddette funzioni-segno. Ogni uso di un oggetto implica inevitabilmente una semantizzazione. Come ha detto Barthes: “per il solo fatto che c’é società, ogni uso è convertito in segno di questo uso”. Ad esempio, un ombrello è un oggetto che svolge una funzione, quella di ripararci dalla pioggia. La sua funzione, però, non può non comportare il segno di una precisa condizione atmosferica. Affinché un oggetto fosse insignificante dovremmo immaginare qualcosa di improvvisato e lontano totalmente da qualsiasi modello a noi noto, il che è sostanzialmente impossibile [Barthes, 1964b]. Allo stesso modo, i cosiddetti “segni” naturali, possiamo considerarli e definirli come “indizi”. Perché se, come fa il Morris, consideriamo segno qualsiasi cosa venga interpretata come tale da qualche interprete (es. fumo come segno di un incendio), finiamo col confondere un processo inferenziale, di tipo logico deduttivo, con un fenomeno ben diverso, che è il processo di significazione, il quale necessita di un codice condiviso [Eco, 1973].
Inoltre, esiste una precisa semiotica degli oggetti. Molti semiologi concordano nell’affermare che un certo oggetto, il quale espleta una specifica funzione, comunica inevitabilmente tale funzione, anche quando essa non viene compiuta. Eco ha approfondito tale questione (con particolare riferimento all’architettura) dividendo la funzione prima (significazione di ciò per cui l’oggetto è stato fabbricato) dalla funzione seconda (serie di significati storico-culturali da cui non è possibile distaccarsi). Spesso, l’esempio più eclatante potrebbe essere dato dall’automobile nella nostra cultura, la funzione seconda sovrasta e occulta la stessa funzione prima. Senza addentrarci in ulteriori specificazioni e classificazioni, possiamo solo aggiungere che l’analisi precedente è valida anche per quei “segni” emessi spontaneamente, senza intenzione comunicativa. Peraltro, esistono intere branche scientifiche, come la prossemica, che studiano tali fenomeni. Ciò che, però, a noi interessa è che tutti quei segnali inintenzionali che, sebbene espressivi, sono privi di una precedente codifica culturale, devono essere considerati alla stessa stregua degli indizi o dei sintomi, diversi profondamente dai segni nell’accezione che qui ci interessa.
L’altra questione, sollevata da Eco, riguarda la definizione di icona. L’ambiguità di fondo del concetto, consiste nel fatto di attribuire all’icona alcune proprietà dell’oggetto. Eco ha concordato col già citato paradosso di Morris, in quanto tutti gli oggetti possono diventare a loro volta segni, in base ad una “semiotizzazione del referente”. Siamo nel caso definito dei segni ostensivi (es. domando una bottiglia di vino, ostentando una bottiglia vera). Prescindendo il fatto che, comunque, tali segni non sono totalmente iconici, perché differenti, in qualche elemento, dagli oggetti che rappresentano, essi svolgono tale funzione solo perché, a monte, esiste una convenzione culturale che stabilisce la relazione ostensiva. In realtà, ha detto Eco, l’icona intrattiene un rapporto di similarità con l’oggetto, ma ciò non può legittimare una teoria della motivazione profonda dei segni, che realizzerebbe, tra l’altro, una eccessiva dicotomizzazione concettuale tra segni motivati e segni arbitrari, a vantaggio di una presunta naturalità della rappresentazione iconica. Alla luce di una tale dicotomia, si potrebbe affermare che se la parola (significante) intrattiene una relazione artificiale e arbitraria col concetto, il disegno, mettiamo di una mano, è in grado di rappresentare il suo significato (mano) sulla base di una naturale coincidenza analogica tra la mano reale e il suo disegno. Eco, di fatto, si è opposto ad una tale concezione, ribadendo che:
1. é necessario che la cultura definisca le caratteristiche fondamentali degli oggetti (prima convenzione)Anche Bettetini ha più volte affermato il principio secondo cui, in realtà, grazie alla scomposizione dei segni in sotto-unità, è possibile recuperare una vicinanza tra segni linguistici e segni iconici. Nel primo caso introducendo margini di motivazione e quindi riconoscendo un’eccessiva astrattezza al principio di arbitrarietà. Nel secondo, introducendo un margine di arbitrarietà che riconsideri l’assioma motivazionale. Per tale ragione Bettetini si è posto il problema della disgiungibilità, nel film, del significato dal significante. Se tale operazione è difficilmente realizzabile a livello denotativo, forse dei margini sono recuperabili a livello connotativo [Bettetini, 1971].
2. é necessario che la cultura stabilisca gli artifici grafici atti a corrispondere a tali caratteristiche e che alcuni di tali caratteristiche debbano obbligatoriamente essere riprodotte (seconda convenzione)
3. é necessario che la cultura stabilisca le modalità di produzione di tale corrispondenza (terza convenzione)
D’altronde, lo stesso Peirce sostenne che l’icona ha proprietà configurazionali dell’oggetto. Ed infatti, per lui, un diagramma o un’espressione algebrica erano iconici più di una rappresentazione fotografica. Un diagramma è iconico perché esso, una volta compreso, ci aiuta a creare un’immagine mentale del concetto espresso. Ma allora il discorso sull’iconismo diventa un discorso sulle convenzioni che danno vita all’iconismo. Non esiste, infatti, nessuna ragione “naturale” che spieghi perché un diagramma debba entrare in relazione con, per esempio, un concetto politologico. E, d’altronde, lo stesso Peirce definì l’icona come immagine mentale, mentre considerò la rassomiglianza con la realtà, del segno, come assolutamente irrilevante.
É chiara, dunque, la posizione di Eco, rispetto alla semiotica pasoliniana. Il gestire significante dell’essere umano è frutto di convenzione culturale, la sua dimensione dell’azione è un “universo di segni” non leggibili, quindi, come natura.
Anche Garroni si è opposto alla semiotica pasoliniana, definendola, di fatto, la coerente appendice di un populismo neorealistico che ha pervaso tutta la sua produzione artistica. Per Garroni, infatti, la realtà non può entrare all’interno di un rapporto semiotico, in quanto essa rappresenta la pre-condizione materiale di ogni codice, non potendo, per tale ragione, mai essere, essa stessa, codice [Garroni, 1968].
Un ulteriore terreno di divisione teorica si è avuto sulla questione della doppia articolazione del linguaggio filmico. Su questa ipotesi, Bettetini non ha nascosto le sue perplessità e la sua preferenza è andata all’elaborazione sintagmatica di Metz. Alle unità fonetiche linguistiche, nel cinema, non corrisponde niente che abbia un valore speculativo essenziale, per Bettetini. Invece, alle unità di significato o morfemi, corrisponderebbero “gli elementi tecnici che compongono l’immagine”. Infine, alle unità relazionali corrisponderebbero le unità linguistiche del cinema, il quale sulla base della distanza ridotta tra significato e significante, non può prescindere da tali “aspetti relazionali”. A queste unità, Bettetini, ha dato il nome di “iconèmi”, che rappresentano il “frammento unitario del discorso filmico”. L’unitarietà è relativa al potere significante e l’iconèma é, quindi, paragonabile ad una “frase cinematografica” [Bettetini, 1968].
U. Eco ha proposto un modello diverso, dove può essere individuata, nell’ambito del linguaggio filmico, una triplice articolazione. Eco, rifacendosi alla cinesica, ha voluto ricordare i cosiddetti cinemorfi o “unità gestuali significanti”. I quali sono scomponibili in “figure cinesiche” o “cini”, che sono elementi discreti che non fanno parte del significato dei cinemorfi. Con la macchina da presa, cioè, si realizzerebbe l’identificazione degli elementi minimi che compongono in continuo dell’azione, unità discrete che in sé sono prive di significato. La triplice articolazione consisterebbe, dunque, nell’esistenza di:
1) figure cinesiche, senza significato unitario, che si combinano in segni cinesici
2) segni cinesici che si compongono in sintagmi, combinabili all’infinito
Figure cinesiche, segni cinesici, sintagmi. La terza articolazione, quindi, si fonderebbe proprio sulla natura dinamica della realtà riprodotta al cinema [Eco, 1967].
(fine seconda parte)
Note:
1. Interessante, a tal proposito, ricordare che anche Barthes si era espresso favorevolmente sulla qualità analogica della fotografia. In aperto dissenso con chi esaltava l’artificialità culturale e la relatività semantica della fotografia (prospettiva albertiana, bidimensionalità), egli ha ribadito la “qualità” sempre analogica dellla fotografia. La fotografia, insomma, come immagine senza codice, la cui lettura, però, è influenzata dai codici [Barthes, 1980].
2. è però vero che, dopo cento anni di storia del cinema, esistono delle immagini che hanno un significato condiviso dai diversi spettatori. L’esempio più classico é, forse, la rotazione delle lancette di un orologio che viene generalmente riconosciuto come immagine significante del trascorrere del tempo. Allo stesso modo, la dissolvenza incrociata è riconosciuta facilmente nel significato di un passaggio di luogo o di tempo. Però, dice Bettetini, queste immagini o tecniche, sebbene uguali, in ogni film vengono reinventate nello stile dell’opera, ribadendo la peculiarità e la differenza rispetto al linguaggio scritto-parlato.
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2000/11/pasolini-nellera-di-internet-ii/
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