"ERETICO & CORSARO"
Pasolini nell’era di Internet (VI)
Di Guido Nicolosi
Indice:
5.2 I corpi
“La presenza di un corpo non muoverà mai desiderio quanto la sua assenza. E assenza qui non significa che quel corpo non c’é, ma che non si ha mai la sensazione di possederlo anche quando lo si avvinghia”
[Umberto Galimberti]
“Fino a quando noi possediamo il corpo e la nostra anima resta invischiata a un male siffatto, noi non raggiungeremo in modo adeguato ciò che ardentemente desideriamo, vale a dire la verità”
[Platone]
Il punto di partenza della nostra disamina è ormai abbastanza familiare e consiste
nella presa di coscienza di una progressiva, ma inesorabile, tendenza verso la fine della rassicurante solidità della materia. Potremmo, a tal proposito, parlare, come fa Caronia, di una “fluidificazione della materia” [Caronia, 1993].
Il corpo, in questo contesto di fluidificazione, assume uno statuto incerto. Ci sono alcuni autori che parlano di fine della corporeità e ce ne sono altri che, invece, esaltano l’avvento del virtuale come il verificarsi di una riscoperta della corporeità in una nuova, diversa forma.
Philippe Queau ci ricorda che, nella filosofia kantiana, lo spazio è una “rappresentazione necessaria a priori“. Ciò vuol dire che non è possibile, per Kant, ipotizzare la scomparsa o, comunque, la non esistenza dello spazio; il quale viene ad assumere lo statuto necessario di “condizione dell’esperienza”. Nel mondo virtuale, come ben sappiamo, tale necessità viene meno. Anzi, nel virtuale, possiamo asserire che “é l’esperienza che condiziona lo spazio”, nella misura in cui lo stesso spazio non è null’altro che un’immagine autoreferente, così come tutti gli oggetti che esso contiene. Ciò, dà l’idea della natura dello spazio virtuale, sottratto agli angusti limiti di coerenza o di non-contraddizione del mondo reale (sebbene queste certezze, in certe condizioni, diventino problematiche). Eppure, per Queau, esiste un dato che, sia nel reale, sia nel virtuale deve essere considerato come una vera, kantiana forma a priori: il corpo. Esso è la vera condizione necessaria dell’esperienza, sia reale, sia virtuale. Se possiamo asserire che i mondi virtuali sono dei non-luoghi, non possiamo permetterci questo lusso riferendoci ai nostri corpi: noi non viviamo dei non-corpi, dice Queau. Le nostre esperienze, tutte, non possono che passare attraverso questo sensibile filtro; “Non si può mai astrarsi da esso, neanche con il sogno”. Esso rappresenta la nostra irrinunciabile base materiale dell’esistenza. Questo, per Queau, il vero nodo del problema: come conciliare i non-luoghi, con i corpi veri con cui li visitiamo? Questo significa esplorare quei labirinti che, con la loro esistenza, hanno contraddetto l’hegeliana identità tra reale e razionale. Tali labirinti, infatti, sono razionali, in quanto frutto di un’avanzatissima riflessione logico-matematica, senza per questo acquisire automaticamente uno statuto di realtà [Queau, 1993].
Certo, è possibile concordare appieno con la riflessione di Queau. Ma un dubbio inevitabilmente ci assale, leggendo delle trasformazioni a cui, comunque, il nostro corpo potrebbe andare incontro: sarà ancora il nostro corpo, così come lo conosciamo oggi ?
Antonio Caronia usa una metafora convincente, per descrivere le mutazioni, nel nostro immaginario collettivo, del nuovo corpo disseminato tra le Reti: Videodrome di Cronenberg. In questo “sublime”(1) film, noi abbiamo la chiara consapevolezza dell’affermazione, nella nostra coscienza, di un nuovo tipo antropologico, in cui l’essere umano assume le sembianze di un videoregistratore vivente. Nel film, il corpo si trasforma in una specie di contenitore dove vengono accolti vari oggetti, cassette o pistole, per poi lasciarli riemergere “ritrasformati, riplasmati, nuovi feti della “nuova carne”". Interessante il fatto che, anche Caronia, considera la televisione come l’antecedente storico-culturale che ha reso possibile le trasformazioni del virtuale. Se con essa la “fragile interiorità dell’uomo occidentale si è spezzata”, le realtà virtuali, paradigma del nostro futuro, ne determineranno la morte definitiva [Caronia, 1993].
Discutere sulla posizione del nostro corpo nell’era delle avanzate tecnologie di comunicazione, in realtà, ha un riverbero molto ampio, perché vuol dire discutere il significato che noi, oggi, diamo alla componente materiale del nostro vivere. Si tratta di una questione centrale dell’immaginario “post-moderno”, diviso tra una divinizzazione sacrale dell’esteriorità del corpo e una ricerca di liberazione dai fisiologici limiti, di un essere che aspira a liberarsi dagli “inutili” fardelli non spirituali. Si tratta di tendenze non sempre lineari, ma non per questo insignificanti. McLuhan ha ammonito l’uomo e la donna. Essi rischiavano e rischiano la trasformazione in angeli, la “disincarnazione cronica e generalizzata”, nella misura in cui la comunicazione elettronica rappresenta un’estensione dei nostri sensi per vivere nel villaggio globale; questo intendeva dicendo: “L’uomo vive col cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle”. Baudrillard ha detto: “L’uomo virtuale immobile davanti al suo calcolatore, fa l’amore mediante lo schermo e i corsi per teleconferenza. Diventa un handicappato motorio e indubbiamente anche cerebrale”.
All’interno della riflessione di Mario Canali troviamo delle considerazioni che aprono inquietanti prospettive. Se, infatti, definiamo i sistemi biologici come dei “sistemi di elaborazione di informazioni” e consideriamo il computer come “lo strumento per manipolare informazioni”, allora il computer rappresenta il nuovo campo d’indagine per l’analisi dell’evoluzione di nuove entità “biologiche”. Tali nuove entità sono dotate di comportamento. Se noi consideriamo la vita “un tipo di comportamento, non un tipo di materia”, cioè qualcosa che si fonda non sulle cose, ma sui comportamenti, non sulla materia, ma sulla sua organizzazione, allora possiamo parlare, senza timore, di vita artificiale. É nell’ambito di questa elaborazione teorica che è nata una nuova disciplina, che potremmo definire la biologia della vita artificiale. Per dare un’idea di ciò in cui consiste tale disciplina, sarà interessante segnalare la riflessione di Cristopher Langton, riportata da M. Canali. Langton ha descritto le evoluzioni di uno stormo di boids, oggetti artificiali che non esistono in natura, i quali compiono evoluzioni all’interno di uno spazio artificiale, ma seguendo le regole naturali di uccelli veri. Secondo Langton, sia il comportamento dei boids, sia quello degli uccelli veri, sono entrambi casi specifici di un fenomeno che è lo stesso: “il comportamento di stormo”. Ciò equivale a dire che gli oggetti artificiali (nel caso specifico i boids) sono entità genuine, dotate di un loro statuto esistenziale autonomo ed indipendente; tanto che possiamo considerare il “volo” dei boids “un’altra fonte di dati empirici per lo studio del comportamento di stormo in generale, una fonte da porre sullo stesso piano degli stormi di oche e degli stormi di storni” [Canali, 1993].
Virilio, forse il più accanito ed accattivante oppositore alla nuova era del virtuale, parla di un nuovo, devastante nichilismo. Rievocando Nietzsche, egli spiega che la più manifesta evidenza della morte di Dio consiste proprio in questo accanimento umano nel tentare di sostituirsi a Dio stesso, acquisendo tutti gli attributi del divino. Istantaneità, ubiquità, capacità di sentire e vedere tutto, questo il vero scopo della “tele-esistenza”. La morte di Dio si accompagna, dunque, ad un altro lutto, laico questo: la morte del corpo. É morto, il corpo, come diretta conseguenza dell’uccisione della “terra-madre” ad opera dei non-luoghi; qui si racchiude il nichilismo devastante. Esso é, per Virilio, il non essere più in grado di “vivere fisicamente con gli altri”; il vivere lontani dalle nostre esperienze sensibili. La vita si è trasformata in una costante ricerca del “progresso delle tecniche d’illusione”. Virilio parla dell’illusione motoria e dell’illusione audiovisuale, espressa emblematicamente dall’automobile e dalla tele-comunicazione. Lo zombie, secondo Virilio la vera figura simbolica dell’era dell’elettronica, ha segnato il passaggio “dal corpo profano al corpo profanato” [Virilio, 1994].
Un’interpretazione opposta la dà Antinucci, il quale, sostanzialmente, guarda allo sviluppo delle nuove tecnologie come la condizione materiale per la realizzazione di una definitiva “nemesi storica del corpo sulla mente”. Lungi dal rappresentare la tomba della corporeità, la nuova comunicazione è in grado di permettere, all’essere umano, la riappropriazione della propria sfera percettivo-motoria. Infatti, lo sviluppo tecnologico ha significato per la specie umana un processo di graduale, ma inesorabile, affrancamento dal lavoro fisico e dalla sofferenza del corpo. Le tecnologie hanno realmente costituito, in tal senso, un’estensione del corpo “inteso come macchina da lavoro energetica”. Questo tipo di processo ha, di fatto, favorito una separazione culturale tra corpo e mente. Al corpo, carico di tutti i più angusti pregiudizi denigratori, è stato attribuito un coacervo d’accezioni negative, che ne hanno fatto il vero grande limite all’aspirazione umana verso la libertà e la purezza. La mente, intesa come pensiero logico-razionale, è stata assurta ad unica vera fonte di conoscenza. La mente, la sua capacità di usare e manipolare i simboli, ha rappresentato per gli individui l’unico strumento in grado di permetterci, attraverso la lettura, il pensiero, il ragionamento, di attivare quelle operazioni necessarie per l’apprendimento (lo studio): decodificare i simboli astratti e immotivati con cui rappresentiamo arbitrariamente il mondo, ricostruire i referenti, ecc.. In poche parole, il modello d’apprendimento che la psicologia sperimentale definisce simbolico-ricostruttivo è stato considerato come l’unico modello possibile di conoscenza. L’altro modello, quello percettivo-motorio, che si basa sul corpo e i suoi attributi percettivi (tatto, vista, olfatto, udito, gusto) é, in realtà, il modello che, filogeneticamente ed ontogeneticamente, si presenta come primario. Il primate dell’era primitiva, così come il bambino di oggi, utilizzano primariamente proprio il modello percettivo-motorio, derivando il simbolico-ricostruttivo successivamente e, soprattutto, proprio dai sensi, attraverso un processo di sovrapposizione. Antinucci, quindi, afferma che la moderna tecnologia comunicativa, specie la realtà virtuale, anche grazie all’interattività e all’abbandono della passività tipica della comunicazione di massa tradizionale, permetterà una rivalutazione del corpo e del suo relativo modello di generazione di conoscenza. Questo, per Antinucci, significherà ridare un “corpo alla mente”, eliminando quei limiti di compresenza spazio-temporale che avevano provocato l’aberrazione di una “mente disincorporata” [Antinucci, 1994].
Su questa posizione teorica, che guarda alle nuove tecnologie della comunicazione come ad una nuova risorsa per la riscoperta della corporeità (sebbene nessuno metta in discussione che si tratti di una nuova forma di corporeità), diversi autori hanno dato vita ad una vera e propria ricerca futurologica che, francamente, spesso ha assunto i tratti di una riflessione più artistica che sociologica. Non é, infatti, un caso che uno dei massimi esponenti di questa corrente, Stelarc, sia, allo stesso tempo, sociologo ed artista. La posizione di Stelarc è chiarissima: il corpo, inteso nel senso tradizionale, è obsoleto. Obsoleto, diremo meglio, è il contenitore biologico del corpo. Un’obsolescenza legata all’incapacità del corpo di soddisfare tutte le aspettative generate dal nuovo flusso comunicativo, dove le stimolazioni per immagini giocano un peso fondamentale. Stelarc profetizza e auspica una riprogettazione del nostro corpo, intesa come processo ultimo ed avanzato della evoluzione. Egli ci parla di esperimenti post-evolutivi che dovranno, tramite la finale possibilità di controllare il DNA umano, reinserire armonicamente il nostro corpo nel nuovo ambiente informatizzato. Provocatoriamente, Stelarc ci ricorda che il corpo in cui risiede l’essere umano non è in grado di far fronte alle necessità imposte dallo sviluppo tecnologico avanzato. Il corpo, per Stelarc, funziona male, “é soggetto a malattie e condannato ad una morte certa e prematura. I suoi parametri di sopravvivenza sono molto limitati”. Ciò a cui ambisce Stelarc è la presa di consapevolezza dei limiti del corpo, come primo passo verso una sua “riprogettazione”. La centralità del rapporto maschio-femmina, tipica dell’era della riproduzione del corpo, deve lasciare il posto ad una nuova, pressante centralità: il rapporto individuo-macchina dell’era della riprogettazione del corpo. Questa generale trattazione è seguita, anche, da una specifica valutazione dell’impatto di una ritrasformazione degli organi umani. Stelarc ha, infatti, personalmente sperimentato un’anatomia post-evolutiva. L’esempio più famoso è il braccio virtuale o terza mano, in cui Stelarc prova una protesi artificiale, attaccata al proprio braccio, che ripete perfettamente i movimenti della sua mano; ma sono ormai classici i molti esperimenti di laboratorio sulla funzionalità del “corpo tecnologico”. L’ambizione è quella di poter svuotare il corpo, perché vuoto esso sarebbe “un migliore ricettacolo per i componenti tecnologici”. La conseguenza di tutto ciò sarà la fine del concetto di nascita e di morte. La possibilità di avere il feto fecondato fuori dall’utero e nutrito artificialmente, di fatto, standardizzerà la sessualità. La possibilità di sostituire e non riparare le “componenti” del corpo, di fatto, renderà tecnicamente “insensato” il concetto di morte. Stelarc, insomma, profetizza un corpo immortale, ma “anestetizzato”; infatti, noi potremo vivere un’esistenza assolutamente mediata, nel nostro rapporto sensibile con il mondo, dalla tecnologia. La mobilità sarà inutile per vivere in una realtà dominata da networks tecnologici: questo è il cybercorpo di Stelarc, il modello evolutivo adatto (nel suo significato biologico) per vivere nel mondo della telematica e della realtà virtuale [Stelarc, 1994].
In realtà, le peripezie intellettuali di Stelarc si inquadrano all’interno di una più vasta corrente filosofico-artistica, di cui egli è solo uno dei più importanti esponenti. Mi riferisco, naturalmente, a quella che è stata definita la body-art, ampio contenitore artistico in cui hanno trovato posto i performer dell’impressionante arte del post-umano (post-human). Si tratta di artisti che hanno deciso di fare del proprio corpo il campo di prova delle proprie performances artistiche. Orlan, la capostipite di questa generazione artistica, ha dichiarato più volte: “il mio corpo è la mia opera”. Essi manipolano il proprio corpo attraverso l’uso della chirurgia o con le protesi tecnologiche. Molti osservatori (critici d’arte o sociologi), tra cui Furio Colombo, leggono questo fenomeno come una specie di materializzazione dei “sogni e degli incubi del futuro prossimo”, come ha recentemente scritto Gregorio Botta (articolo apparso su Repubblica del 16/10/1996). Il secolo delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica e del sesso virtuale non poteva non produrre, sotto forma di arte, la forma più avanzata del misticismo della liberazione del corpo ingombrante. Se proviamo a far nostra la convinzione di Moravia che l’arte é, per la società, ciò che il sogno è per l’individuo, possiamo leggere l’arte come l’esplicitazione dell’inconscio collettivo; sarà facile, allora, considerare l’arte post-umana come l’espressione più pura di ciò che il corpo, nella nostra epoca, sta per diventare o si teme possa diventare . Parliamo, cioè, della punta più avanzata di un fenomeno che, però, non riguarda solo la piccola schiera di artisti post-umani, ma l’intera società ed il suo rapporto con la fisicità. Certo, non tutti vanno in piazza o a teatro o in una sala operatoria, per sottoporsi alle più inimmaginabili modifiche e martirizzazioni del corpo. Ma, estremizzato, questo fenomeno di una ristretta elite ci può aiutare a capire qual é il nostro rapporto con la corporeità.
In realtà, il coinvolgimento del corpo nell’arte è un fenomeno abbastanza presente anche nel passato recente. Basterà ricordare Klein e le sue modelle nude che, nel 1960, col corpo cosparso di colore, imprimevano la loro forma sulla carta, manifestando la volontà dell’artista di fare dell’arte la funzione della vita. Ma, in modo molto più romantico ed eroico, vi è stata, negli anni sessanta, l’esperienza dell’ “azionismo viennese” che, protestando contro il conformismo borghese della società austriaca, dava vita a spettacoli, quasi sempre interrotti dalla polizia, in cui le feci umane ed il sangue erano i protagonisti incontrastati. Nel post-umano di Orlan, però, ciò che viene abbandonata é, sia la dimensione eroico-romantica, sia la visione del corpo, tipica degli anni sessanta di Pasolini, come il punto zero dell’arte, l’originale assoluto. Orlan, così come Stelarc, tendono a smitizzare il corpo o a “falsificarlo”. Il discorso teorico di Orlan è altamente significativo ed emblematico. Orlan ha iniziato la sua carriera artistica tentando di falsificare il corpo (vendeva per la strada “baci d’artista” a cinque franchi). In seguito, ha cominciato un discorso profondo sull’identità, che ha affrontato mediante la tecnica del travestitismo. Attraverso un uso post-moderno dell’arte (citazionismo, commistione provocatoria di generi classici e contemporanei), Orlan, ha studiato l’iconografia cristiana, l’ha mescolata con l’iconografia contemporanea e ha materializzato il risultato con dei famosi travestimenti “d’autore”. Ma, progressivamente, insoddisfatta, ha cominciato l’utilizzo della tecnica di chirurgia plastica. Ritratti classici (Botticelli, Leonardo, ecc.) sono stati, attraverso il computer, ricostruiti in chiave moderna e dissacratoria e poi modellati chirurgicamente sul suo viso. Non ci dilungheremo oltre nell’esame della produzione artistica di Orlan. Ciò che, qui, è interessante sottolineare è che la tesi di Orlan è perfettamente coincidente con quella di diversi autori che idealizzano un futuro “post-moderno”. Un futuro dove la telematica virtuale potrà aiutarci ad abbandonare le tradizionali nostalgie per le identità forti a favore di una valorizzazione dell’identità multipla. Ha detto Orlan: “L’identità forte significa automaticamente conflitti, razzismo, scontri del tipo ricchi-poveri, forti-deboli [...]. Amo le identità multiple, le identità nomadi”. Il messaggio è chiaro. La tecnologia, la comunicazione virtuale, ci permettono, oggi, la possibilità di vivere questa nuova libertà che è la fine dell’identità forte. É in tal senso che l’arte, nel passato legata alla religione e alla forza del sacro, oggi può, secondo Orlan, ritrovare nella scienza e nella tecnologia, che hanno inesorabilmente detronizzato la sacralità, la sua nuova forza e la sua nuova funzione [Caronia, 1996].
In questa disamina sulla corporeità non poteva mancare il contributo di quello che, da molti, viene considerato il vero epigono di McLuhan: Derrick de Kerckhove.
Kerckhove ribadisce il principio, ormai chiaro, che il corpo dell’essere umano, contrariamente a molti altri mammiferi, non si specializza, se non in una forma sua tipica che è la specializzazione tecnica. Ciò ha comportato, filogeneticamente, nei secoli, una forte stabilità del nostro corpo, a fronte di una mutazione importante del nostro cervello. Ciò che ha reso realmente vincente l’essere umano, nella competizione naturale con gli altri esseri, è stata proprio questa strana combinazione di stabilità e flessibilità. L’essere umano si è specializzato tecnicamente, il che vuol dire che ha fatto del cervello il proprio strumento evoluzionistico. La più diretta conseguenza di ciò è stata la costante mutabilità dell’ambiente circostante il corpo umano. Dunque, alla fine, è stata la grande flessibilità del corpo all’adattamento ai mutamenti dell’ambiente esterno che ha reso possibile la valorizzazione di questa peculiarità umana. Questa la ricetta vincente: stabilità anatomica e grande adattabilità del sistema neuro-fisiologico. Il problema che, però, si presenta, oggi, davanti a noi rischia di mettere a dura prova questa peculiarità umana. Parliamo del processo di inesorabile numerizzazione del mondo. Sempre più, come profetizza Negroponte, gli atomi della materia vengono sostituiti dai bits. La numerizzazione, infatti, oltre a traslare (cosa che realizza, d’altronde, anche l’alfabetizzazione) i sensi, le esperienze e le simulazioni, “traduce” anche la materia. Emblematicamente, Kerckhove utilizza il concetto di Liquid Self. La numerizzazione del mondo, cioè, significa, di fatto, la numerizzazione del Sé. Il sé numerizzato è il sé “proiettato nelle reti internazionali dei media”; un sé, praticamente, liquefatto, obbligato costantemente a darsi nuove forme e nuove immagini di autoproiezione. Dice giustamente Kerckhove che la famosa icona leonardiana, emblema dell’umanesimo, in cui l’uomo viene rappresentato come centro e misura del mondo circostante, oggi è assolutamente desueta. Il sé liquido è totalmente disseminato tra le Reti; la pelle dell’essere umano è estesa fino al satellite; il mondo è la nuova misura di tutte le cose. Ciò significa che, se in passato la peculiarità vincente dell’evoluzione umana è stata l’equilibrio tra stabilità e flessibilità, oggi la flessibilità estremizzata mette a dura prova la stabilità.
La storia della comunicazione umana, ci ha insegnato McLuhan, è stata costellata da continui passaggi tra forme diverse. Ogni forma ha dato vita a delle civiltà specifiche e differenti. Prima abbiamo avuto una civiltà fondata sull’orecchio (cultura orale); poi una civiltà fondata sulla cultura chirografica; poi abbandonando definitivamente il tattile, la civiltà si è fondata sulla visualità alfabetica e tipografica (la galassia Gutemberg). Poi, l’interiorizzazione della cultura alfabetica è stata sostituita (possiamo parlare, in realtà, di sovrapposizioni o stratificazioni) dall’”esteriorizzazione della mente interna sullo schermo televisivo”. Oggi, la realtà virtuale provoca la penetrazione del corpo nello schermo in una relazione che perde la frontalità, in un ritorno ad una sensibilità a trecentosessanta gradi, in cui lo schermo, quindi il mondo digitalizzato, avviluppa il corpo, dando vita ad un nuovo brainframe. Per tale ragione Kerckhove parla di un remapping sensoriale. Il corpo sarà il nuovo protagonista degli anni seguenti. Certo, sarà un corpo cambiato; un corpo in cui le protesi artificiali avranno un ruolo più pressante di oggi. Però, Kerckhove non concorda con le profezie alla Stelarc. Il corpo non è obsoleto, anzi, sempre più, fungerà da punto di riferimento essenziale per sapere di essere. La navigazione nomade sarà accettabile solo se sapremo mantenere dei punti di riferimento esistenziali fondanti; il corpo sarà il più importante di questi. Esso sarà la prima, ineliminabile, “interfaccia col mondo”. Ciò è vero anche riferito al problema dell’identità. Non si realizzerà, come temeva McLuhan, la cancellazione dell’individualità ad opera dell’elettronica; avremo, probabilmente, una nuova individualità estensiva, in cui la pelle sarà estesa fino a tutti i mezzi di comunicazione globali. Forse, il mondo globale sarà esplorabile in modo tattile, attraverso, quindi, una nuova corporeità. Potrà realizzarsi la riscoperta e la rivalorizzazione della parte analfabeta che in ognuno di noi continua ad esistere, come ha recentemente scritto Abbruzzese nel suo ultimo libro dal titolo: “Analfabeti di tutto il mondo uniamoci”. Tattilità, visualità, una vera rivalutazione del corpo. Ma l’individualità globale, accompagnata da una globalizzazione della mente e dell’agire umano, dice Kerckhove, non sarà alienante solo se sarà accompagnata da una simultanea individualità locale. Quindi, ben vengano i processi di localizzazione, di riscoperta delle radici etniche e/o culturali. Esse sono l’altra, inevitabile, faccia della stessa medaglia: la globalizzazione dell’esistenza umana [De Kerckhove, 1994].
Anche un osservatore attento come Furio Colombo ha sentito il bisogno di affrontare la questione, qui esaminata, di quanto resti della corporeità, in una società altamente informatizzata. In realtà, le riflessioni di Colombo sono inserite nel quadro più generale di un’aspra invettiva contro il mondo dei guru dei nuovi media. La sua, è una dura critica al modo in cui la Rete e la telematica si apprestano ad essere utilizzati. Si tratta, per Colombo, di un modello di utilizzo che, contrariamente a ciò che viene propagandato dai suddetti guru, va a favore esclusivo degli interessi di una specifica elite politico-economica e nella direzione di un’amplificazione esponenziale delle, già non più sostenibili, sperequazioni sociali mondiali. Leggendo la sua posizione nella chiave che qui noi usiamo, potremmo dire che se il corpo “di” Pasolini ha rappresentato l’opposizione più strenua al potere politico-economico del capitalismo della falsa tolleranza, la Rete e la sua mancanza di fisicità sta, per Colombo, rappresentando il nuovo tentativo di rilanciare un capitalismo del potere assoluto. Un capitalismo nelle mani di pochi (maschi, bianchi, occidentali), a danno degli esclusi (la grande maggioranza mondiale), in un assoluto svincolamento da qualsiasi limite, controllo e regola. Questa è la base del nuovo liberismo, che vede in Internet, per definizione non regolamentabile, il nuovo campo di conquista del nuovo capitalismo, finalmente libero da “lacci e lacciuoli”. Ecco, per Colombo, il motivo di nuove alleanze inquietanti: i repubblicani americani e la nuova destra, le grandi case dell’informatica, le grandi lobbies; tutti schierati alle spalle dei profeti della vita sui bits, come Negroponte e Toffler. Chi c’é dietro Internet? Colombo auspica capacità critica contro i toni messianici di chi ha l’interesse a vendere un’immagine falsamente ottimistica del virtuale. Egli, invece, si concentra a capire cosa significhi esistere privati del corpo. Egli parla di un nuovo misticismo (ampio lo spazio dedicato alle performances “sado-maso” degli artisti della body-art) della nostra era, in cui si tenta di realizzare “qualcosa che religione e scienza non avevano mai potuto fare in passato”: la liberazione dal corpo. La macchina che elimina il corpo, però, crea grossi problemi d’identità; “da una parte il computer che ti permette di viaggiare nell’universo. Dall’altra il corpo che resta fuori, in un appartamento isolato [...]. Resta il problema di collocare l’anima”. Colombo, molto pragmaticamente, si pone delle domande. L’anonimato e la presenza privata della fisicità, grandi caratteristiche della vita sulla Rete, portano al superamento dei vincoli legati alle tradizionali norme sociali di ruolo, specifica realtà del regime di compresenza fisica. I limiti della morale (quindi timidezza, insicurezza) vengono abbattuti, senza che si leda l’integrità fisica. Ma la domanda che nasce è inevitabile. La libertà di vivere dei rapporti fondati sull’anonimato (moltissimi sono i tele-matrimoni, legami, amori tra persone che in realtà non conoscono l’età, il genere, la razza ecc. del partner), la possibilità di utilizzare, anche in forma di catartica sublimazione, la violenza virtuale per colpire chi è privo di corpo, può essere considerato un buon modello di socializzazione per i giovani?(2). Di fronte alle frasi profetiche di Negroponte (“Il passaggio dal mondo degli atomi a quello dei bits è irrevocabile”) Colombo si pone delle questioni molto concrete. La perdita della fisicità del mondo può significare isolamento e solitudine. Si affaccia, cioè, un futuro sempre più popolato da individui soli e pericolosamente privi del senso della realtà. Una perdita importante, perché essa sta alla base del processo di de-valorizzazione del reale e di perdita della coscienza della conseguenzialità del nostro agire nel mondo. Pensiamo alla tranquilla spensieratezza dei piloti dei caccia che, con le loro bombe “intelligenti”, massacrarono migliaia di persone in Iraq. L’anonimato, la distanza fisica, l’isolamento, possono portare ad una perdita del senso di responsabilità morale del nostro agire. In un sondaggio sulla pena di morte, realizzato su Internet, il 96% degli intervistati si dice a favore. Commenta Colombo: “Perché no, in un mondo senza responsabilità e senza corpo?”.
Colombo “scomoda” anche Putnam, a sostegno della sua tesi. Il politologo americano, famoso in Italia per il suo colossale e fondamentale lavoro sul senso civico nelle regioni italiane, parla di un decadimento del famoso e tanto decantato senso civico del popolo americano. Ciò che Putnam definisce il capitale sociale, cioè quella risorsa immateriale che trasforma l’ “io” in “noi”, grazie alla partecipazione dell’individuo ad impegni collettivi, negli Usa è stato tradizionalmente molto forte. Ciò ha permesso di dare vita ad un ampio terzo settore e, conseguentemente, ad un gigantesco mondo del no-profit, invidiato da tutti i non statunitensi. Sappiamo che tale settore è stato l’elemento che, attraverso un forte richiamo all’associazionismo di base e alla solidarietà, ha evitato che la carenza cronica di Welfare State degli Usa si trasformasse in una tragedia di dimensioni bibliche. Sappiamo, anche, che in Europa, al contrario, la presenza “massiccia” dello Stato Sociale ha spesso soffocato tale fenomeno. Ebbene, secondo Putnam, questa importante risorsa sociale degli Usa sta lentamente scomparendo, divorata dall’individualismo e dal disimpegno. Il dito, evidentemente, é, ancora una volta, puntato sulla televisione ed il computer. Sarebbe, certo, assurdo imputare la colpa solo a loro, ma Colombo è chiaro nell’assegnare delle forti responsabilità al nuovo capitalismo informatico e alla sua spinta verso l’individualizzazione incorporea della società. Per tale ragione, Colombo, intitola, il suo libro, “Confucio nel computer”. Colombo, infatti, ritrova tra confuciani e nuovi libertari della telematica una serie di elementi in comune: spiritualità opposta alla corporeità, “estraneità alla solidarietà”, culto del valore e della forza dell’individuo. La società senza corpo di Internet potrebbe trasformarsi nel modello ideale del confuciano Fukuyama, dove impera l’organizzazione basata sui piccoli gruppi in competizione, gruppi più grandi della famiglia, ma più piccoli dello stato [Colombo, 1995].
Su un piano totalmente differente, un importantissimo contributo teorico lo ha dato Antonio Caronia. Le sue interessantissime riflessioni hanno evidenziato l’evoluzione della corporeità nell’immaginario collettivo della società occidentale moderna. Con grande abilità intellettuale, Caronia ha evidenziato la presenza di una costante antropologica che ha accompagnato l’esistenza umana sin dagli albori dei più antichi miti e che ha assunto, con l’avvento della modernità, una pregnanza specifica e centrale nel nostro immaginario. La costante antropologica individuata è l’ossessione del “diverso-ma-simile”. Un’ossessione che ha permeato il mondo mitico e letterario delle diverse civiltà, ma che con l’avvento della modernità ha assunto la “tragica” veste di una contraddizione antropologica. Parliamo della controversa miscela di paura ed ammirazione che l’essere umano nutre, dall’avvento della modernità in poi, per il progresso della scienza e lo sviluppo dell’industria. Da una parte, abbiamo le aspettative per la progressiva liberazione dell’uomo e della donna dalla schiavitù della fatica, dall’ignoranza e dalla morte; il progresso della scienza e della tecnica, spesso, è stato letto come l’aspirazione umana vero l’immortalità divina. Dall’altra parte, abbiamo il terrore verso il processo di progressiva artificializzazione del mondo naturale e, in primo luogo, della vita umana: l’ossessione dell’”uomo meccanico” è la paura della modernità. Attraverso la lente di questo ambiguo sentimento umano, Caronia legge alcune delle pagine più significative della letteratura e del cinema occidentale. Da Frankenstein di Mary Shelley a Hard Times di Dickens, da Metropolis di Fritz Lang a Eva Futura di Hadaly, Caronia intravede, in tutti questi capolavori, il segno di questo contraddittorio sentimento di paura e ammirazione per il potere della tecnica e del progresso. L’essere meccanico, l’automa, il robot sono i simboli che concretizzano il terrore della creazione della diversità artificiale da parte della scienza. L’ambiguità di tale sentimento ossessivo nei confronti della diversità/somiglianza dell’artificiale (sotto le vesti dell’automa, del robot, dell’androide, del golem ecc.) è tale da racchiudere in sé un’interessantissima, ulteriore contraddizione. Mi riferisco al terrore misogino che accompagna lo sguardo del maschio (simbolo di razionalità e fautore del progresso tecnico-scientifico) alla femminilità. É, in realtà, lo stesso terrore per la diversità dell’essere artificiale. Ciò si spiegherebbe, secondo Caronia, col semplice fatto che la donna è, agli occhi del potere razionalizzante dell’uomo, la “sede” del misterioso, ma naturale processo di creazione della vita. Infatti, la creazione dell’essere artificiale non è altro che il tentativo di imitare artificialmente tale processo. La donna, quindi, è il modello venerato dall’uomo per la sua capacità di fare ciò che l’uomo non riesce a fare e, contemporaneamente, la più grande minaccia per la realizzazione di questo progetto di creazione artificiale; in quanto la donna crea la vita naturalmente. In quest’ottica, capiamo l’affermazione di Caronia: la femmina è, per il maschio, “il primo essere alieno di cui faccia esperienza”. Naturalmente, quando parliamo di terrore dell’artificializzazione dell’essere umano, ci riferiamo specificatamente all’artificializzazione del suo corpo. In tal senso, Caronia ha tracciato l’excursus a cui il corpo umano è andato incontro. Tracciando, cioè, il percorso evolutivo dell’immaginario collettivo moderno, Caronia ha individuato tre grandi aree immaginifiche a cui il corpo umano tecnicizzato ha dato vita. Aree intese come angoscie collettive rappresentate da diverse espressioni della comunicazione di massa:
1) L’area del corpo replicato (da Frankenstein a Blade Runner, passando per i Supereroi)
2) L’area del corpo invaso
3) L’area del corpo disseminato
Sappiamo già molto sul corpo replicato, essendo l’espressione più forte dell’angoscia che ci ha accompagnato, fino ad oggi, nell’epoca dell’industrializzazione e, poi, della comunicazione di massa. É la paura dell’alienazione, della massificazione omologante e dell’eliminazione artificiale dell’ “anima” umana; è la paura della futuribile società oscurata dei replicanti di Blade Runner; è la paura di vedere inghiottito il proprio corpo negli ingranaggi di una fabbrica o di una grande fabbrica-società.
Il corpo invaso e quello disseminato sono un’angoscia (come sempre accompagnata da un’immensa speranza di liberazione) relativamente nuova; sarà necessaria qualche ulteriore precisazione.
L’essere umano ha sempre avuto piena coscienza dello sconvolgimento che la tecnica opera sull’ambiente naturale, senza, però, potere fare a meno del ricorso ai suoi benefici; pena la ricaduta ad uno stato animalesco. Per tale ragione, esso ha sempre vissuto una condizione di distaccamento dallo stato animale attraverso la costante artificializzazione del suo corpo tramite gli utensili, i segni, i rituali, i vestiti. Tale artificializzazione lo ha allontanato, anche dall’ambiente naturale sin dalla notte dei tempi. Eppure, nell’era paleolitica, in seguito al ricorso ridotto alla tecnica, il nomadismo, la dipendenza dagli eventi naturali, esso ha continuato ad avere, nel proprio corpo, il privilegiato mediatore dello scambio simbolico “che traduce eventi naturali in significati culturali”. Il corpo, nel paleolitico, ha rappresentato il principio essenziale (vd. la danza, i riti, ecc.) per la costruzione e la circolazione del senso nelle comunità sociali. Il neolitico, per Caronia, ha rappresentato la svolta verso una condizione assolutamente differente. La vita sociale si è fondata sulla costante esercitazione di “pratiche violente, da vere e proprie ferite inferte al corpo della terra” (agricoltura, estrazione dei metalli). É questo il passaggio storico che ha fatto da sfondo a quel processo di esteriorizzazione del pensiero che, tramite la scrittura, in Grecia, è stato alla base della realizzazione della scissione tra corpo e anima e della conseguente subordinazione del mondo materiale a quello ideale, fondamenta del pensiero occidentale. La rivoluzione industriale ed il capitalismo hanno significato l’estremizzazione parossistica di tale condizione di esteriorizzazione. Tutto ciò sta alla base dell’angoscia del corpo replicato nella società fattasi fabbrica. Ma è qui che si attiva un processo nuovo. Dice Caronia: “Se la tecnica è ovunque [...] a tal punto che è capace di ricreare, al di fuori del corpo [...] altri corpi [...], perché non potrebbe invadere lo stesso corpo naturale dell’uomo?”. Il punto di riflessione è la fine della massificazione della dimensione della tecnica. La flessibilità della tecnica può essere tale da adattarsi alla più grande specificità dell’essere umano, cioè il suo corpo? Questo, secondo Caronia, significa l’invasione della tecnica, del corpo umano. Il suo insinuarsi “molecola per molecola” nel corpo umano e renderlo né artificiale né naturale: un cyborg. É questo il corpo obsoleto di Stelarc e di Orlan.
Oggi, seguendo ancora Caronia, ci troviamo in una nuova fase, in cui il corpo invaso del “cyborg”, alla Gibson, viene lentamente esautorato da un nuovo tipo di corpo: il corpo disseminato tra le Reti. L’acmé di tale situazione l’avremo quando si avrà l’incontro tra la Rete e la Realtà Virtuale ed “in questi ambienti si incontreranno corpi virtuali [...] capaci di generare l’uno nell’altro risposte sensoriali anch’esse convincenti e totali”. In realtà, la prima forma di disseminazione del corpo tra le Reti si è avuta con il telefono (disseminazione simmetrica). Con esso, infatti, noi sperimentiamo uno spazio virtuale dove la materialità della relazione viene perduta. Noi creiamo la relazione attraverso un processo di costruzione cerebrale (l’unico dato che abbiamo è la voce) di un corpo immaginario. La tuta del cybersex non è molto di più di un telefono tattile !
Caronia, alla fine di questa importante disamina, afferma di opporsi alla classica convinzione, che ha alla base l’occidentale assioma di separazione tra corpo e mente, che il “corpo virtuale” allontani dal corpo reale. Sia gli apologeti, sia i detrattori della virtualità, accusa Caronia, puntano molto sul carattere immateriale dell’esperienza virtuale. In realtà, si tratta di un’esasperazione che andrebbe ridimensionata. Chi dà per scontata la sostituzione del reale da parte del virtuale, non prende in considerazione che “la realtà non è qualcosa di ovvio e immobile”. La virtualità, per Caronia, rendendo disponibile tutto ciò che desideriamo, riduce la precarietà della realtà. Citando Perniola, Caronia afferma che il virtuale elimina l’opposizione tra naturale ed artificiale, perché elimina la distinzione tra realtà e rappresentazione. La crisi dell’essere umano, concretizzata nell’impossibilità di uno sguardo razionale che possa “governare” la realtà, ha prodotto le costruzioni dell’immaginario, dalla letteratura al cinema. Con l’apparizione della televisione e poi della nuova tecnologia comunicativa digitale, tali costruzioni, hanno dato vita ad una dimensione intermedia tra reale ed artificiale che, come dicevamo, hanno, di fatto, risolto l’opposizione. Da ciò, Caronia fa derivare la conseguenza, ormai a noi chiara, dell’impossibilità di pensare, come attributo di questo nuovo corpo disseminato, ad una tradizionale identità stabile e forte. Ripercorrendo, cioè, il discorso di Orlan, Caronia auspica la nascita di una nuova identità post-moderna. É un’identità che ha la peculiarità di essere, a sua volta, costituita da molteplici identità. La disseminazione del corpo tra le Reti dà il via ad una nuova era di esplosione dell’identità; tutti potremo essere tutto, nella virtualità della Rete.
É anche vero che le indagini sociologiche su Internet hanno evidenziato che è sostanzialmente impossibile, per evidenti motivi, conoscere, per esempio, il genere dell’individuo con cui si comunica negli spazi virtuali. Ciò ha dato vita ad una grandissima ricerca di “trasgressione”, rispetto alle tradizionali imposizioni sociali. Molti vivono una seconda o terza vita su Internet, in cui si presentano con un altro sesso e danno vita a relazioni virtuali (che a volte continuano nel mondo reale) di tipo “transessuale” o “bisessuale” e prive di quelle inibizioni affettive e comunicative tipiche delle tradizionali esperienze. Sulla Rete, insomma, si può essere chiunque e senza inibizioni. Viene spontaneo chiedersi se non si tratti di una necessità sentita solo da alcuni “casi” patologici di chiusura, repressione o timidezza. Caronia, invece, parla della possibilità definitiva di abbandonare i limiti di una monolitica affermazione d’identità (fonte esclusiva di guerre e tragedie), per vivere in una condizione di libera identità fluttuante e “nomade”, come il nostro corpo. La questione posta è enorme. In un recente articolo (Reset, ottobre/1996) Morin ha ricordato come la grande tragedia dell’umanità consiste nel vivere in una paradossale condizione. Gli esseri umani, se hanno una forte identità, danno vita a grandi tragedie (comunismo, fascismo, ecc.), se privati dell’identità sono sperduti in una condizione di perenne crisi. Dobbiamo, quindi, rammaricarci delle Idee grandi che incendiano i cuori? Galimberti sembra contento nell’accertare la fine delle grandi Idee e nell’accettare il processo di omologazione a cui la televisione ha spinto. L’omologazione avrebbe, secondo il filosofo, fatto riscoprire le somiglianze e le uniformità tra gli individui, piuttosto che le lacerazioni a cui portano le grandi Idee; ferma restando la possibilità di ognuno di maturare, indipendentemente, ideali soggettivi, più modesti, ma più autentici [Galimberti, 1994]. Comunque sia, non è compito di questo lavoro dare una risposta a tali questioni; rimane, certo, da chiedersi se l’auspicio di Caronia sia realmente e, felicemente, realizzabile. Luther Blisset, corpo collettivo e multiplo che naviga nel cyberspazio, afferma: “Il capitalismo domina le cose e le persone nominandole e descrivendole: “Tu sei un Io”. “No, io non voglio più essere un Io, voglio essere infiniti Ii”[...] . Senza possibilità di classificazione, il potere non può imporre identità precotte e predigerite [...]. Pavlov muore coi suoi fottuti campanelli”. É chiaro che il corpo disseminato, qui, si presenta, come il corpo di Pasolini, come nuova forma d’opposizione al potere. Reale e virtuale possono entrambi svolgere una medesima funzione oppositiva. Le differenze si sfumano.
Caronia, in quest’ottica, parla di una riscoperta della corporeità. Una nuova corporeità che, grazie al virtuale, ci proietta in un nuovo pre-neolitico, in cui il corpo, come nel passato, riassume il ruolo di centro dello scambio simbolico necessario alla vita sociale. Nel paleolitico, il corpo, trasformando simbolicamente gli eventi naturali in ordine culturale (riti, pratiche magiche, danza, ecc.), non avvertiva l’opposizione tra natura e cultura. Il neolitico avanzato ha, invece, irreggimentato il corpo, lo ha codificato e, nella società-fabbrica, lo ha privato di possibilità simboliche. Oggi, auspica Caronia, possiamo pensare di “ricongiungerci al nomadismo e al tribalismo della nostra storia paleolitica”. Ciò, più che una nostalgia del passato, ha “il senso di un utilizzo davvero pieno ed integrale delle tecnologie di comunicazione attuali, la messa in campo di un’unificazione dell’umanità basata non sull’astrazione di una verità che abbia un regno distante e ostile, ma sulla concretezza, sul movimento, sull’immediatezza, sul calore dei corpi, anche se si tratta di cyborg elettronici e dei corpi disseminati dell’era digitale”. É ciò che prevedeva, forse con meno ottimismo, McLuhan, quando, parlando dell’estensione dei sensi nell’era dell’elettronica, affermava l’avvento di una futura, globale consapevolezza priva della verbalizzazione [Caronia, 1996]. In fondo, esistono delle strane, ma significative, analogie tra il corpo “reale” di Pasolini e quello virtuale di Caronia.
Sappiamo che Pasolini inneggiava ad una riscoperta del reale. E sappiamo che in questo reale una parte importantissima l’aveva il corpo. Oggi, di fatto, viviamo un periodo di fortissima rivalutazione del corpo. Se, però, il corpo adorato da Pasolini era un corpo naturale, quello venerato oggi è un corpo culturale. Un esempio, banale, ma molto significativo, di cosa intendiamo, parlando del nostro nuovo corpo culturale, ce lo dà Capucci . Egli evidenzia che il senso dell’olfatto, decodificatore chimico eccezionale di particelle di materia in sospensione, ha sempre svolto la funzione importante di rivelatore d’identità. Ogni individuo, emanando un particolare odore, emana direttamente una primaria informazione d’identità, che può essere decodificata dall’altro mediante, appunto, il senso dell’olfatto. Oggi, il ricorso alla profumazione o alla deodorazione ha eliminato la naturalezza di questo livello primario di informazione spontanea d’identità, per sostituirla con un processo di costruzione artificiale (cioè culturale). La dimensione fisiologica viene sostituita dalla dimensione simbolica delle “rappresentazioni che il soggetto costruisce e dà di sé”. Cerchiamo, adesso, di estendere l’argomentazione, semplicemente pensando alle migliaia di protesi (in senso ampio) artificiali che invadono il nostro habitat. Abbiamo la sfera della chirurgia generale e plastica, che ci permette di modificare il nostro corpo, sia in superficie, sia in maniera invasiva (trapianti, impianti, trasfusione, ecc.). Abbiamo la sfera della chirurgia genetica e possiamo realizzare fecondazioni, gestazioni e interruzioni di gravidanza in modo artificiale. Abbiamo l’immensa sfera degli artefatti quotidiani che, entrati in maniera stabile nel nostro vivere giornaliero, neanche consideriamo più come artificiali (mezzi di trasporto, di comunicazione, di amplificazione, lenti a contatto o non, anticoncezionali, ecc.). Già questo può giustificare il ragionamento di Capucci, che consiste nel ribadire che l’essere umano ha dato vita ad un habitat antropocentrico (una “natura seconda” di tipo culturale) e ad un corpo che, in quanto “corpo-in-protesi” e “bio-macchinico”, è un corpo culturale. La posizione di Capucci, però, lungi dall’essere di tipo apocalittico, presenta una pragmatica e mediatrice prospettiva. Capucci sostiene che sarebbe assurdo non riconoscere i grossi vantaggi che la tecnologia ha reso all’uomo. Spesso l’artificiale ha permesso la vita al naturale (medicina). Spesso l’artificiale ha permesso un migliore dispiegamento del naturale (pensiamo agli handicappati). Ogni tecnologia ha limiti e vantaggi, ma non tutto il chiaro sta dalla parte opposta dello scuro. Lo stesso discorso deve essere fatto, più specificatamente, in relazione alla comunicazione tecnologica. Tutta la dimensione “tecnico-simbolica” ci ha reso più agevole l’esistenza, aiutandoci a capire, conoscere, agire e modificare il reale, rendendolo meno pericoloso e più profondamente comprensibile. Allo stesso tempo, sarebbe assurdo negarlo, questa dimensione, ci ha allontanato dal reale stesso. Noi viviamo più lontani da un reale che, però, conosciamo molto meglio e da cui siamo meglio protetti. Capucci, riferendosi alla comunicazione, mette insieme segni indicali, oralità, scrittura, comunicazione acustica e visuale e comunicazione polisensoriale del virtuale. Sono tutti “sistemi simbolici fisici tecnici che hanno esteriorizzato modelli mentali, dando loro forma sensibile e socialmente condivisibile e allontanando al contempo la presenza fisica e materiale del reale fenomenico dall’individuo, situandosi nello spazio d’interazione tra questi e il mondo”.
Il punto importante, però, è che se lo sviluppo del simbolico ha, per molto tempo, significato l’abbandono della sfera “percettivo-motoria”, emblematicamente espresso dalla preminenza sensoriale della vista e dell’udito rispetto al tatto e l’olfatto che sono ontogeneticamente e filogeneticamente primari, adesso le nuove comunicazioni virtuali permettono una rivalutazione della polisensorialità e della sensomotricità. Avere un corpo ed i suoi attributi percettivi è di nuovo essenziale ed é, invece, insostenibile qualsiasi forzata separazione tra la mente ed il corpo; il quale diviene sempre più il fulcro della comprensione e della percezione. Certo, tale centralità non nasce su un rapporto diretto col reale, ma con una realtà “intermediaria”. Tuttavia, afferma Capucci, la dimensione fisica e quella antropica, opposte in diverse occorrenze, in realtà, hanno diversi punti di contiguità. Bisognerebbe, forse, voltairianamente sfumare l’opposizione naturale/artificiale. Comunque, “la nuova solarità del corpo e delle modalità cognitive che vi si accompagnano segna il trionfo del corpo, ma all’interno della dimensione simbolica”; il simbolico si è sovrapposto al naturale [Capucci, 1994].
Estremamente originale è anche il contributo di Michel Maffesoli, un autore che ci ha spesso affascinato con i voli entusiasmanti del suo pensiero. Il quadro concettuale di riferimento di Maffesoli è quello di una rivalutazione dell’importanza della dimensione “estetica” dei rapporti sociali. è lui stesso a coniare una formula tendenzialmente ossimorica, dal punto di vista semantico, che è quella di “un’etica dell’estetica”. Qui, l’estetica rappresenta il mondo della “iperrazionalità”, cioè “un modo di conoscenza che sappia integrare tutti quei parametri che vengono considerati normalmente come secondari : il frivolo, l’emozione, l’apparenza [...]“[Maffesoli, 1990]. Secondo Maffesoli, la società post-moderna si caratterizza proprio per questa rivalutazione di una dimensione antropologica edonistica. Una dimensione che, sempre presente in ogni società, tende ad emergere in modo dirompente in alcuni periodi come ethos centrale dei rapporti quotidiani. L’homo aestheticus a cui fa riferimento Maffesoli è un uomo che opta per uno stile tattile (opposto a quello ottico) che privilegia la vicinanza, la concretezza, la quotidianità, la corporeità : “il paradigma estetico è l’angolatura d’approccio che permette di rendere conto di una costellazione di azioni, di sentimenti, di atmosfere tipiche del tempo post-moderno [...].Tutto ciò che riguarda il presenteismo [...] la banalità, in breve l’enfasi del carpe-diem” (pag.48). è la reliance il principio cardine di una tale etica societaria e il nuovo sviluppo tecnologico che va in questa direzione di creazione di relazione, interdipendenza, comunicazione si aggiunge ai rituali celebrativi di massa tipici di quest’epoca (concerti, eventi sportivi, ecc.). Maffesoli, come si evince immediatamente, non distingue tra una reliance corporeo-tattile basata sulla reale fisicità e una reliance costruita sulla base di una comunicazione (magari anch’essa virtualmente tattile) telematica o immaginale. A tal proposito egli ci propone una prospettiva, che merita di essere attentamente esaminata, che può essere definita (la formula è sua) una fisica mistica dell’immagine. Maffesoli s’impegna a utilizzare un’analisi che utilizzi i principi di una vera e propria Formalsoziologie. Egli, cioè, assume l’importanza di evidenziare il ruolo della forma nel formare, la natura formante della forma. Contenitore e contenuto sono in una relazione che è strettissima, inestricabile. La forma, in un certo qual modo, “determina” il contenuto che essa racchiude. Quantomeno, essa è una “matrice” che ne condiziona ontologicamente, oserei dire, il funzionamento. L’importanza da dare alle forme apparentemente banali, dice Maffesoli, l’hanno insegnata i pittori come Morandi che hanno fissato la loro attenzione sulle forme banali (mele, bottiglie, ecc.) come “condizione di possibilità della vita”. Nell’ambito sociale, la forma, in quanto condivisa e quindi “banale”, è formante nella misura in cui essa spinge all’aggregazione, alla condivisione. La forma, la pelle di una società è proprio quel mondo dell’iperrazionalità descritto sommariamente prima, tanto denigrato dall’intellettuale razionalista e che in realtà andrebbe riscoperto come essenziale nodo di conoscenza del sociale. È quest’approccio, secondo Maffesoli, che ci può aiutare a comprendere quell’intelligenza delle forme che è il “mondo immaginale”. Il mondo immaginale è “un insieme matriciale che trascende e ordina le immagini [...] ciò che determina un dato modo di definire un insieme di linee o di curve più o meno arbitrarie e che tuttavia viene riconosciuto come una sedia o una montagna”. Un’intelligenza immaginale che permette di “leggere” la più banale quotidianità così come i grandi miti fondatori di una data società. E sono proprio le immagini le nuove protagoniste della forma societaria, una “pioggia delle immagini”, utilizzando una metafora cara a Maffesoli. Una pioggia salvifica che cade dopo epoche iconoclaste fondate sugli assoluti della tecnoscienza. Oggi, è proprio lo sviluppo tecnologico a favorirne la diffusione. Una diffusione che rimanda alla logica implicita della società, cioè la corporeità. La corporeità soppianta la ragione nel senso di una nuova valorizzazione della comunicazione priva della mediazione razionale. Non è, infatti, questo tipo di comunicazione l’essenza naturale del corpo? Il suo presenteismo e la tattilità ne sono le precondizioni. La tattilità rimanda anch’essa a questa dimensione estetica dove l’enfasi è sull’apparenza, sull’edonismo, le celebrazioni (musicali, sportive), elementi che spingono a una sensualità dello stare con, del partecipare. Maffesoli, dunque, parla di una riscoperta della corporeità sociale intesa come comunicazione non mediata razionalmente, dove anche le immagini sono corpi e i corpi diventano immagine (es. moda, body-building) e dove la corporeità è la forma, la pelle che tiene unito il corpo sociale : “L’orizzonte della comunicazione costituisce quindi lo sfondo dell’esacerbarsi dell’apparenza” ; è una “sociologia della pelle” che Maffesoli spinge a pensare o ripensare. La comunicazione tecnologica, (non l’unica, ma a noi, qui, interessa questa) fonda ed è fondata da “una condivisione immaginale” opposta alla razionalità economica, che “fa corpo” perché erotica, in quanto spinge all’unione, alla condivisione. Maffesoli ci parla di un nuovo corporeismo spirituale che nasce dall’epifanizzazione della materia e nella corporeizzazione dello spirito. Un corporeismo misterioso se è vero che mysterium è “ciò che unisce gli iniziati”. Per tale ragione, Maffesoli parla di un narcisismo collettivo. Una forma di narcisismo che non implica un ripiegamento dell’individuo su se stesso, ma che, al contrario, si fonda su una tendenza alla condivisione estetica con gli altri.
(fine sesta parte)
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2001/04/pasolini-nellera-di-internet-vi/
Il corpo, in questo contesto di fluidificazione, assume uno statuto incerto. Ci sono alcuni autori che parlano di fine della corporeità e ce ne sono altri che, invece, esaltano l’avvento del virtuale come il verificarsi di una riscoperta della corporeità in una nuova, diversa forma.
Philippe Queau ci ricorda che, nella filosofia kantiana, lo spazio è una “rappresentazione necessaria a priori“. Ciò vuol dire che non è possibile, per Kant, ipotizzare la scomparsa o, comunque, la non esistenza dello spazio; il quale viene ad assumere lo statuto necessario di “condizione dell’esperienza”. Nel mondo virtuale, come ben sappiamo, tale necessità viene meno. Anzi, nel virtuale, possiamo asserire che “é l’esperienza che condiziona lo spazio”, nella misura in cui lo stesso spazio non è null’altro che un’immagine autoreferente, così come tutti gli oggetti che esso contiene. Ciò, dà l’idea della natura dello spazio virtuale, sottratto agli angusti limiti di coerenza o di non-contraddizione del mondo reale (sebbene queste certezze, in certe condizioni, diventino problematiche). Eppure, per Queau, esiste un dato che, sia nel reale, sia nel virtuale deve essere considerato come una vera, kantiana forma a priori: il corpo. Esso è la vera condizione necessaria dell’esperienza, sia reale, sia virtuale. Se possiamo asserire che i mondi virtuali sono dei non-luoghi, non possiamo permetterci questo lusso riferendoci ai nostri corpi: noi non viviamo dei non-corpi, dice Queau. Le nostre esperienze, tutte, non possono che passare attraverso questo sensibile filtro; “Non si può mai astrarsi da esso, neanche con il sogno”. Esso rappresenta la nostra irrinunciabile base materiale dell’esistenza. Questo, per Queau, il vero nodo del problema: come conciliare i non-luoghi, con i corpi veri con cui li visitiamo? Questo significa esplorare quei labirinti che, con la loro esistenza, hanno contraddetto l’hegeliana identità tra reale e razionale. Tali labirinti, infatti, sono razionali, in quanto frutto di un’avanzatissima riflessione logico-matematica, senza per questo acquisire automaticamente uno statuto di realtà [Queau, 1993].
Certo, è possibile concordare appieno con la riflessione di Queau. Ma un dubbio inevitabilmente ci assale, leggendo delle trasformazioni a cui, comunque, il nostro corpo potrebbe andare incontro: sarà ancora il nostro corpo, così come lo conosciamo oggi ?
Antonio Caronia usa una metafora convincente, per descrivere le mutazioni, nel nostro immaginario collettivo, del nuovo corpo disseminato tra le Reti: Videodrome di Cronenberg. In questo “sublime”(1) film, noi abbiamo la chiara consapevolezza dell’affermazione, nella nostra coscienza, di un nuovo tipo antropologico, in cui l’essere umano assume le sembianze di un videoregistratore vivente. Nel film, il corpo si trasforma in una specie di contenitore dove vengono accolti vari oggetti, cassette o pistole, per poi lasciarli riemergere “ritrasformati, riplasmati, nuovi feti della “nuova carne”". Interessante il fatto che, anche Caronia, considera la televisione come l’antecedente storico-culturale che ha reso possibile le trasformazioni del virtuale. Se con essa la “fragile interiorità dell’uomo occidentale si è spezzata”, le realtà virtuali, paradigma del nostro futuro, ne determineranno la morte definitiva [Caronia, 1993].
Discutere sulla posizione del nostro corpo nell’era delle avanzate tecnologie di comunicazione, in realtà, ha un riverbero molto ampio, perché vuol dire discutere il significato che noi, oggi, diamo alla componente materiale del nostro vivere. Si tratta di una questione centrale dell’immaginario “post-moderno”, diviso tra una divinizzazione sacrale dell’esteriorità del corpo e una ricerca di liberazione dai fisiologici limiti, di un essere che aspira a liberarsi dagli “inutili” fardelli non spirituali. Si tratta di tendenze non sempre lineari, ma non per questo insignificanti. McLuhan ha ammonito l’uomo e la donna. Essi rischiavano e rischiano la trasformazione in angeli, la “disincarnazione cronica e generalizzata”, nella misura in cui la comunicazione elettronica rappresenta un’estensione dei nostri sensi per vivere nel villaggio globale; questo intendeva dicendo: “L’uomo vive col cervello fuori dalla testa e i nervi fuori dalla pelle”. Baudrillard ha detto: “L’uomo virtuale immobile davanti al suo calcolatore, fa l’amore mediante lo schermo e i corsi per teleconferenza. Diventa un handicappato motorio e indubbiamente anche cerebrale”.
All’interno della riflessione di Mario Canali troviamo delle considerazioni che aprono inquietanti prospettive. Se, infatti, definiamo i sistemi biologici come dei “sistemi di elaborazione di informazioni” e consideriamo il computer come “lo strumento per manipolare informazioni”, allora il computer rappresenta il nuovo campo d’indagine per l’analisi dell’evoluzione di nuove entità “biologiche”. Tali nuove entità sono dotate di comportamento. Se noi consideriamo la vita “un tipo di comportamento, non un tipo di materia”, cioè qualcosa che si fonda non sulle cose, ma sui comportamenti, non sulla materia, ma sulla sua organizzazione, allora possiamo parlare, senza timore, di vita artificiale. É nell’ambito di questa elaborazione teorica che è nata una nuova disciplina, che potremmo definire la biologia della vita artificiale. Per dare un’idea di ciò in cui consiste tale disciplina, sarà interessante segnalare la riflessione di Cristopher Langton, riportata da M. Canali. Langton ha descritto le evoluzioni di uno stormo di boids, oggetti artificiali che non esistono in natura, i quali compiono evoluzioni all’interno di uno spazio artificiale, ma seguendo le regole naturali di uccelli veri. Secondo Langton, sia il comportamento dei boids, sia quello degli uccelli veri, sono entrambi casi specifici di un fenomeno che è lo stesso: “il comportamento di stormo”. Ciò equivale a dire che gli oggetti artificiali (nel caso specifico i boids) sono entità genuine, dotate di un loro statuto esistenziale autonomo ed indipendente; tanto che possiamo considerare il “volo” dei boids “un’altra fonte di dati empirici per lo studio del comportamento di stormo in generale, una fonte da porre sullo stesso piano degli stormi di oche e degli stormi di storni” [Canali, 1993].
Virilio, forse il più accanito ed accattivante oppositore alla nuova era del virtuale, parla di un nuovo, devastante nichilismo. Rievocando Nietzsche, egli spiega che la più manifesta evidenza della morte di Dio consiste proprio in questo accanimento umano nel tentare di sostituirsi a Dio stesso, acquisendo tutti gli attributi del divino. Istantaneità, ubiquità, capacità di sentire e vedere tutto, questo il vero scopo della “tele-esistenza”. La morte di Dio si accompagna, dunque, ad un altro lutto, laico questo: la morte del corpo. É morto, il corpo, come diretta conseguenza dell’uccisione della “terra-madre” ad opera dei non-luoghi; qui si racchiude il nichilismo devastante. Esso é, per Virilio, il non essere più in grado di “vivere fisicamente con gli altri”; il vivere lontani dalle nostre esperienze sensibili. La vita si è trasformata in una costante ricerca del “progresso delle tecniche d’illusione”. Virilio parla dell’illusione motoria e dell’illusione audiovisuale, espressa emblematicamente dall’automobile e dalla tele-comunicazione. Lo zombie, secondo Virilio la vera figura simbolica dell’era dell’elettronica, ha segnato il passaggio “dal corpo profano al corpo profanato” [Virilio, 1994].
Un’interpretazione opposta la dà Antinucci, il quale, sostanzialmente, guarda allo sviluppo delle nuove tecnologie come la condizione materiale per la realizzazione di una definitiva “nemesi storica del corpo sulla mente”. Lungi dal rappresentare la tomba della corporeità, la nuova comunicazione è in grado di permettere, all’essere umano, la riappropriazione della propria sfera percettivo-motoria. Infatti, lo sviluppo tecnologico ha significato per la specie umana un processo di graduale, ma inesorabile, affrancamento dal lavoro fisico e dalla sofferenza del corpo. Le tecnologie hanno realmente costituito, in tal senso, un’estensione del corpo “inteso come macchina da lavoro energetica”. Questo tipo di processo ha, di fatto, favorito una separazione culturale tra corpo e mente. Al corpo, carico di tutti i più angusti pregiudizi denigratori, è stato attribuito un coacervo d’accezioni negative, che ne hanno fatto il vero grande limite all’aspirazione umana verso la libertà e la purezza. La mente, intesa come pensiero logico-razionale, è stata assurta ad unica vera fonte di conoscenza. La mente, la sua capacità di usare e manipolare i simboli, ha rappresentato per gli individui l’unico strumento in grado di permetterci, attraverso la lettura, il pensiero, il ragionamento, di attivare quelle operazioni necessarie per l’apprendimento (lo studio): decodificare i simboli astratti e immotivati con cui rappresentiamo arbitrariamente il mondo, ricostruire i referenti, ecc.. In poche parole, il modello d’apprendimento che la psicologia sperimentale definisce simbolico-ricostruttivo è stato considerato come l’unico modello possibile di conoscenza. L’altro modello, quello percettivo-motorio, che si basa sul corpo e i suoi attributi percettivi (tatto, vista, olfatto, udito, gusto) é, in realtà, il modello che, filogeneticamente ed ontogeneticamente, si presenta come primario. Il primate dell’era primitiva, così come il bambino di oggi, utilizzano primariamente proprio il modello percettivo-motorio, derivando il simbolico-ricostruttivo successivamente e, soprattutto, proprio dai sensi, attraverso un processo di sovrapposizione. Antinucci, quindi, afferma che la moderna tecnologia comunicativa, specie la realtà virtuale, anche grazie all’interattività e all’abbandono della passività tipica della comunicazione di massa tradizionale, permetterà una rivalutazione del corpo e del suo relativo modello di generazione di conoscenza. Questo, per Antinucci, significherà ridare un “corpo alla mente”, eliminando quei limiti di compresenza spazio-temporale che avevano provocato l’aberrazione di una “mente disincorporata” [Antinucci, 1994].
Su questa posizione teorica, che guarda alle nuove tecnologie della comunicazione come ad una nuova risorsa per la riscoperta della corporeità (sebbene nessuno metta in discussione che si tratti di una nuova forma di corporeità), diversi autori hanno dato vita ad una vera e propria ricerca futurologica che, francamente, spesso ha assunto i tratti di una riflessione più artistica che sociologica. Non é, infatti, un caso che uno dei massimi esponenti di questa corrente, Stelarc, sia, allo stesso tempo, sociologo ed artista. La posizione di Stelarc è chiarissima: il corpo, inteso nel senso tradizionale, è obsoleto. Obsoleto, diremo meglio, è il contenitore biologico del corpo. Un’obsolescenza legata all’incapacità del corpo di soddisfare tutte le aspettative generate dal nuovo flusso comunicativo, dove le stimolazioni per immagini giocano un peso fondamentale. Stelarc profetizza e auspica una riprogettazione del nostro corpo, intesa come processo ultimo ed avanzato della evoluzione. Egli ci parla di esperimenti post-evolutivi che dovranno, tramite la finale possibilità di controllare il DNA umano, reinserire armonicamente il nostro corpo nel nuovo ambiente informatizzato. Provocatoriamente, Stelarc ci ricorda che il corpo in cui risiede l’essere umano non è in grado di far fronte alle necessità imposte dallo sviluppo tecnologico avanzato. Il corpo, per Stelarc, funziona male, “é soggetto a malattie e condannato ad una morte certa e prematura. I suoi parametri di sopravvivenza sono molto limitati”. Ciò a cui ambisce Stelarc è la presa di consapevolezza dei limiti del corpo, come primo passo verso una sua “riprogettazione”. La centralità del rapporto maschio-femmina, tipica dell’era della riproduzione del corpo, deve lasciare il posto ad una nuova, pressante centralità: il rapporto individuo-macchina dell’era della riprogettazione del corpo. Questa generale trattazione è seguita, anche, da una specifica valutazione dell’impatto di una ritrasformazione degli organi umani. Stelarc ha, infatti, personalmente sperimentato un’anatomia post-evolutiva. L’esempio più famoso è il braccio virtuale o terza mano, in cui Stelarc prova una protesi artificiale, attaccata al proprio braccio, che ripete perfettamente i movimenti della sua mano; ma sono ormai classici i molti esperimenti di laboratorio sulla funzionalità del “corpo tecnologico”. L’ambizione è quella di poter svuotare il corpo, perché vuoto esso sarebbe “un migliore ricettacolo per i componenti tecnologici”. La conseguenza di tutto ciò sarà la fine del concetto di nascita e di morte. La possibilità di avere il feto fecondato fuori dall’utero e nutrito artificialmente, di fatto, standardizzerà la sessualità. La possibilità di sostituire e non riparare le “componenti” del corpo, di fatto, renderà tecnicamente “insensato” il concetto di morte. Stelarc, insomma, profetizza un corpo immortale, ma “anestetizzato”; infatti, noi potremo vivere un’esistenza assolutamente mediata, nel nostro rapporto sensibile con il mondo, dalla tecnologia. La mobilità sarà inutile per vivere in una realtà dominata da networks tecnologici: questo è il cybercorpo di Stelarc, il modello evolutivo adatto (nel suo significato biologico) per vivere nel mondo della telematica e della realtà virtuale [Stelarc, 1994].
In realtà, le peripezie intellettuali di Stelarc si inquadrano all’interno di una più vasta corrente filosofico-artistica, di cui egli è solo uno dei più importanti esponenti. Mi riferisco, naturalmente, a quella che è stata definita la body-art, ampio contenitore artistico in cui hanno trovato posto i performer dell’impressionante arte del post-umano (post-human). Si tratta di artisti che hanno deciso di fare del proprio corpo il campo di prova delle proprie performances artistiche. Orlan, la capostipite di questa generazione artistica, ha dichiarato più volte: “il mio corpo è la mia opera”. Essi manipolano il proprio corpo attraverso l’uso della chirurgia o con le protesi tecnologiche. Molti osservatori (critici d’arte o sociologi), tra cui Furio Colombo, leggono questo fenomeno come una specie di materializzazione dei “sogni e degli incubi del futuro prossimo”, come ha recentemente scritto Gregorio Botta (articolo apparso su Repubblica del 16/10/1996). Il secolo delle biotecnologie e dell’ingegneria genetica e del sesso virtuale non poteva non produrre, sotto forma di arte, la forma più avanzata del misticismo della liberazione del corpo ingombrante. Se proviamo a far nostra la convinzione di Moravia che l’arte é, per la società, ciò che il sogno è per l’individuo, possiamo leggere l’arte come l’esplicitazione dell’inconscio collettivo; sarà facile, allora, considerare l’arte post-umana come l’espressione più pura di ciò che il corpo, nella nostra epoca, sta per diventare o si teme possa diventare . Parliamo, cioè, della punta più avanzata di un fenomeno che, però, non riguarda solo la piccola schiera di artisti post-umani, ma l’intera società ed il suo rapporto con la fisicità. Certo, non tutti vanno in piazza o a teatro o in una sala operatoria, per sottoporsi alle più inimmaginabili modifiche e martirizzazioni del corpo. Ma, estremizzato, questo fenomeno di una ristretta elite ci può aiutare a capire qual é il nostro rapporto con la corporeità.
In realtà, il coinvolgimento del corpo nell’arte è un fenomeno abbastanza presente anche nel passato recente. Basterà ricordare Klein e le sue modelle nude che, nel 1960, col corpo cosparso di colore, imprimevano la loro forma sulla carta, manifestando la volontà dell’artista di fare dell’arte la funzione della vita. Ma, in modo molto più romantico ed eroico, vi è stata, negli anni sessanta, l’esperienza dell’ “azionismo viennese” che, protestando contro il conformismo borghese della società austriaca, dava vita a spettacoli, quasi sempre interrotti dalla polizia, in cui le feci umane ed il sangue erano i protagonisti incontrastati. Nel post-umano di Orlan, però, ciò che viene abbandonata é, sia la dimensione eroico-romantica, sia la visione del corpo, tipica degli anni sessanta di Pasolini, come il punto zero dell’arte, l’originale assoluto. Orlan, così come Stelarc, tendono a smitizzare il corpo o a “falsificarlo”. Il discorso teorico di Orlan è altamente significativo ed emblematico. Orlan ha iniziato la sua carriera artistica tentando di falsificare il corpo (vendeva per la strada “baci d’artista” a cinque franchi). In seguito, ha cominciato un discorso profondo sull’identità, che ha affrontato mediante la tecnica del travestitismo. Attraverso un uso post-moderno dell’arte (citazionismo, commistione provocatoria di generi classici e contemporanei), Orlan, ha studiato l’iconografia cristiana, l’ha mescolata con l’iconografia contemporanea e ha materializzato il risultato con dei famosi travestimenti “d’autore”. Ma, progressivamente, insoddisfatta, ha cominciato l’utilizzo della tecnica di chirurgia plastica. Ritratti classici (Botticelli, Leonardo, ecc.) sono stati, attraverso il computer, ricostruiti in chiave moderna e dissacratoria e poi modellati chirurgicamente sul suo viso. Non ci dilungheremo oltre nell’esame della produzione artistica di Orlan. Ciò che, qui, è interessante sottolineare è che la tesi di Orlan è perfettamente coincidente con quella di diversi autori che idealizzano un futuro “post-moderno”. Un futuro dove la telematica virtuale potrà aiutarci ad abbandonare le tradizionali nostalgie per le identità forti a favore di una valorizzazione dell’identità multipla. Ha detto Orlan: “L’identità forte significa automaticamente conflitti, razzismo, scontri del tipo ricchi-poveri, forti-deboli [...]. Amo le identità multiple, le identità nomadi”. Il messaggio è chiaro. La tecnologia, la comunicazione virtuale, ci permettono, oggi, la possibilità di vivere questa nuova libertà che è la fine dell’identità forte. É in tal senso che l’arte, nel passato legata alla religione e alla forza del sacro, oggi può, secondo Orlan, ritrovare nella scienza e nella tecnologia, che hanno inesorabilmente detronizzato la sacralità, la sua nuova forza e la sua nuova funzione [Caronia, 1996].
In questa disamina sulla corporeità non poteva mancare il contributo di quello che, da molti, viene considerato il vero epigono di McLuhan: Derrick de Kerckhove.
Kerckhove ribadisce il principio, ormai chiaro, che il corpo dell’essere umano, contrariamente a molti altri mammiferi, non si specializza, se non in una forma sua tipica che è la specializzazione tecnica. Ciò ha comportato, filogeneticamente, nei secoli, una forte stabilità del nostro corpo, a fronte di una mutazione importante del nostro cervello. Ciò che ha reso realmente vincente l’essere umano, nella competizione naturale con gli altri esseri, è stata proprio questa strana combinazione di stabilità e flessibilità. L’essere umano si è specializzato tecnicamente, il che vuol dire che ha fatto del cervello il proprio strumento evoluzionistico. La più diretta conseguenza di ciò è stata la costante mutabilità dell’ambiente circostante il corpo umano. Dunque, alla fine, è stata la grande flessibilità del corpo all’adattamento ai mutamenti dell’ambiente esterno che ha reso possibile la valorizzazione di questa peculiarità umana. Questa la ricetta vincente: stabilità anatomica e grande adattabilità del sistema neuro-fisiologico. Il problema che, però, si presenta, oggi, davanti a noi rischia di mettere a dura prova questa peculiarità umana. Parliamo del processo di inesorabile numerizzazione del mondo. Sempre più, come profetizza Negroponte, gli atomi della materia vengono sostituiti dai bits. La numerizzazione, infatti, oltre a traslare (cosa che realizza, d’altronde, anche l’alfabetizzazione) i sensi, le esperienze e le simulazioni, “traduce” anche la materia. Emblematicamente, Kerckhove utilizza il concetto di Liquid Self. La numerizzazione del mondo, cioè, significa, di fatto, la numerizzazione del Sé. Il sé numerizzato è il sé “proiettato nelle reti internazionali dei media”; un sé, praticamente, liquefatto, obbligato costantemente a darsi nuove forme e nuove immagini di autoproiezione. Dice giustamente Kerckhove che la famosa icona leonardiana, emblema dell’umanesimo, in cui l’uomo viene rappresentato come centro e misura del mondo circostante, oggi è assolutamente desueta. Il sé liquido è totalmente disseminato tra le Reti; la pelle dell’essere umano è estesa fino al satellite; il mondo è la nuova misura di tutte le cose. Ciò significa che, se in passato la peculiarità vincente dell’evoluzione umana è stata l’equilibrio tra stabilità e flessibilità, oggi la flessibilità estremizzata mette a dura prova la stabilità.
La storia della comunicazione umana, ci ha insegnato McLuhan, è stata costellata da continui passaggi tra forme diverse. Ogni forma ha dato vita a delle civiltà specifiche e differenti. Prima abbiamo avuto una civiltà fondata sull’orecchio (cultura orale); poi una civiltà fondata sulla cultura chirografica; poi abbandonando definitivamente il tattile, la civiltà si è fondata sulla visualità alfabetica e tipografica (la galassia Gutemberg). Poi, l’interiorizzazione della cultura alfabetica è stata sostituita (possiamo parlare, in realtà, di sovrapposizioni o stratificazioni) dall’”esteriorizzazione della mente interna sullo schermo televisivo”. Oggi, la realtà virtuale provoca la penetrazione del corpo nello schermo in una relazione che perde la frontalità, in un ritorno ad una sensibilità a trecentosessanta gradi, in cui lo schermo, quindi il mondo digitalizzato, avviluppa il corpo, dando vita ad un nuovo brainframe. Per tale ragione Kerckhove parla di un remapping sensoriale. Il corpo sarà il nuovo protagonista degli anni seguenti. Certo, sarà un corpo cambiato; un corpo in cui le protesi artificiali avranno un ruolo più pressante di oggi. Però, Kerckhove non concorda con le profezie alla Stelarc. Il corpo non è obsoleto, anzi, sempre più, fungerà da punto di riferimento essenziale per sapere di essere. La navigazione nomade sarà accettabile solo se sapremo mantenere dei punti di riferimento esistenziali fondanti; il corpo sarà il più importante di questi. Esso sarà la prima, ineliminabile, “interfaccia col mondo”. Ciò è vero anche riferito al problema dell’identità. Non si realizzerà, come temeva McLuhan, la cancellazione dell’individualità ad opera dell’elettronica; avremo, probabilmente, una nuova individualità estensiva, in cui la pelle sarà estesa fino a tutti i mezzi di comunicazione globali. Forse, il mondo globale sarà esplorabile in modo tattile, attraverso, quindi, una nuova corporeità. Potrà realizzarsi la riscoperta e la rivalorizzazione della parte analfabeta che in ognuno di noi continua ad esistere, come ha recentemente scritto Abbruzzese nel suo ultimo libro dal titolo: “Analfabeti di tutto il mondo uniamoci”. Tattilità, visualità, una vera rivalutazione del corpo. Ma l’individualità globale, accompagnata da una globalizzazione della mente e dell’agire umano, dice Kerckhove, non sarà alienante solo se sarà accompagnata da una simultanea individualità locale. Quindi, ben vengano i processi di localizzazione, di riscoperta delle radici etniche e/o culturali. Esse sono l’altra, inevitabile, faccia della stessa medaglia: la globalizzazione dell’esistenza umana [De Kerckhove, 1994].
Anche un osservatore attento come Furio Colombo ha sentito il bisogno di affrontare la questione, qui esaminata, di quanto resti della corporeità, in una società altamente informatizzata. In realtà, le riflessioni di Colombo sono inserite nel quadro più generale di un’aspra invettiva contro il mondo dei guru dei nuovi media. La sua, è una dura critica al modo in cui la Rete e la telematica si apprestano ad essere utilizzati. Si tratta, per Colombo, di un modello di utilizzo che, contrariamente a ciò che viene propagandato dai suddetti guru, va a favore esclusivo degli interessi di una specifica elite politico-economica e nella direzione di un’amplificazione esponenziale delle, già non più sostenibili, sperequazioni sociali mondiali. Leggendo la sua posizione nella chiave che qui noi usiamo, potremmo dire che se il corpo “di” Pasolini ha rappresentato l’opposizione più strenua al potere politico-economico del capitalismo della falsa tolleranza, la Rete e la sua mancanza di fisicità sta, per Colombo, rappresentando il nuovo tentativo di rilanciare un capitalismo del potere assoluto. Un capitalismo nelle mani di pochi (maschi, bianchi, occidentali), a danno degli esclusi (la grande maggioranza mondiale), in un assoluto svincolamento da qualsiasi limite, controllo e regola. Questa è la base del nuovo liberismo, che vede in Internet, per definizione non regolamentabile, il nuovo campo di conquista del nuovo capitalismo, finalmente libero da “lacci e lacciuoli”. Ecco, per Colombo, il motivo di nuove alleanze inquietanti: i repubblicani americani e la nuova destra, le grandi case dell’informatica, le grandi lobbies; tutti schierati alle spalle dei profeti della vita sui bits, come Negroponte e Toffler. Chi c’é dietro Internet? Colombo auspica capacità critica contro i toni messianici di chi ha l’interesse a vendere un’immagine falsamente ottimistica del virtuale. Egli, invece, si concentra a capire cosa significhi esistere privati del corpo. Egli parla di un nuovo misticismo (ampio lo spazio dedicato alle performances “sado-maso” degli artisti della body-art) della nostra era, in cui si tenta di realizzare “qualcosa che religione e scienza non avevano mai potuto fare in passato”: la liberazione dal corpo. La macchina che elimina il corpo, però, crea grossi problemi d’identità; “da una parte il computer che ti permette di viaggiare nell’universo. Dall’altra il corpo che resta fuori, in un appartamento isolato [...]. Resta il problema di collocare l’anima”. Colombo, molto pragmaticamente, si pone delle domande. L’anonimato e la presenza privata della fisicità, grandi caratteristiche della vita sulla Rete, portano al superamento dei vincoli legati alle tradizionali norme sociali di ruolo, specifica realtà del regime di compresenza fisica. I limiti della morale (quindi timidezza, insicurezza) vengono abbattuti, senza che si leda l’integrità fisica. Ma la domanda che nasce è inevitabile. La libertà di vivere dei rapporti fondati sull’anonimato (moltissimi sono i tele-matrimoni, legami, amori tra persone che in realtà non conoscono l’età, il genere, la razza ecc. del partner), la possibilità di utilizzare, anche in forma di catartica sublimazione, la violenza virtuale per colpire chi è privo di corpo, può essere considerato un buon modello di socializzazione per i giovani?(2). Di fronte alle frasi profetiche di Negroponte (“Il passaggio dal mondo degli atomi a quello dei bits è irrevocabile”) Colombo si pone delle questioni molto concrete. La perdita della fisicità del mondo può significare isolamento e solitudine. Si affaccia, cioè, un futuro sempre più popolato da individui soli e pericolosamente privi del senso della realtà. Una perdita importante, perché essa sta alla base del processo di de-valorizzazione del reale e di perdita della coscienza della conseguenzialità del nostro agire nel mondo. Pensiamo alla tranquilla spensieratezza dei piloti dei caccia che, con le loro bombe “intelligenti”, massacrarono migliaia di persone in Iraq. L’anonimato, la distanza fisica, l’isolamento, possono portare ad una perdita del senso di responsabilità morale del nostro agire. In un sondaggio sulla pena di morte, realizzato su Internet, il 96% degli intervistati si dice a favore. Commenta Colombo: “Perché no, in un mondo senza responsabilità e senza corpo?”.
Colombo “scomoda” anche Putnam, a sostegno della sua tesi. Il politologo americano, famoso in Italia per il suo colossale e fondamentale lavoro sul senso civico nelle regioni italiane, parla di un decadimento del famoso e tanto decantato senso civico del popolo americano. Ciò che Putnam definisce il capitale sociale, cioè quella risorsa immateriale che trasforma l’ “io” in “noi”, grazie alla partecipazione dell’individuo ad impegni collettivi, negli Usa è stato tradizionalmente molto forte. Ciò ha permesso di dare vita ad un ampio terzo settore e, conseguentemente, ad un gigantesco mondo del no-profit, invidiato da tutti i non statunitensi. Sappiamo che tale settore è stato l’elemento che, attraverso un forte richiamo all’associazionismo di base e alla solidarietà, ha evitato che la carenza cronica di Welfare State degli Usa si trasformasse in una tragedia di dimensioni bibliche. Sappiamo, anche, che in Europa, al contrario, la presenza “massiccia” dello Stato Sociale ha spesso soffocato tale fenomeno. Ebbene, secondo Putnam, questa importante risorsa sociale degli Usa sta lentamente scomparendo, divorata dall’individualismo e dal disimpegno. Il dito, evidentemente, é, ancora una volta, puntato sulla televisione ed il computer. Sarebbe, certo, assurdo imputare la colpa solo a loro, ma Colombo è chiaro nell’assegnare delle forti responsabilità al nuovo capitalismo informatico e alla sua spinta verso l’individualizzazione incorporea della società. Per tale ragione, Colombo, intitola, il suo libro, “Confucio nel computer”. Colombo, infatti, ritrova tra confuciani e nuovi libertari della telematica una serie di elementi in comune: spiritualità opposta alla corporeità, “estraneità alla solidarietà”, culto del valore e della forza dell’individuo. La società senza corpo di Internet potrebbe trasformarsi nel modello ideale del confuciano Fukuyama, dove impera l’organizzazione basata sui piccoli gruppi in competizione, gruppi più grandi della famiglia, ma più piccoli dello stato [Colombo, 1995].
Su un piano totalmente differente, un importantissimo contributo teorico lo ha dato Antonio Caronia. Le sue interessantissime riflessioni hanno evidenziato l’evoluzione della corporeità nell’immaginario collettivo della società occidentale moderna. Con grande abilità intellettuale, Caronia ha evidenziato la presenza di una costante antropologica che ha accompagnato l’esistenza umana sin dagli albori dei più antichi miti e che ha assunto, con l’avvento della modernità, una pregnanza specifica e centrale nel nostro immaginario. La costante antropologica individuata è l’ossessione del “diverso-ma-simile”. Un’ossessione che ha permeato il mondo mitico e letterario delle diverse civiltà, ma che con l’avvento della modernità ha assunto la “tragica” veste di una contraddizione antropologica. Parliamo della controversa miscela di paura ed ammirazione che l’essere umano nutre, dall’avvento della modernità in poi, per il progresso della scienza e lo sviluppo dell’industria. Da una parte, abbiamo le aspettative per la progressiva liberazione dell’uomo e della donna dalla schiavitù della fatica, dall’ignoranza e dalla morte; il progresso della scienza e della tecnica, spesso, è stato letto come l’aspirazione umana vero l’immortalità divina. Dall’altra parte, abbiamo il terrore verso il processo di progressiva artificializzazione del mondo naturale e, in primo luogo, della vita umana: l’ossessione dell’”uomo meccanico” è la paura della modernità. Attraverso la lente di questo ambiguo sentimento umano, Caronia legge alcune delle pagine più significative della letteratura e del cinema occidentale. Da Frankenstein di Mary Shelley a Hard Times di Dickens, da Metropolis di Fritz Lang a Eva Futura di Hadaly, Caronia intravede, in tutti questi capolavori, il segno di questo contraddittorio sentimento di paura e ammirazione per il potere della tecnica e del progresso. L’essere meccanico, l’automa, il robot sono i simboli che concretizzano il terrore della creazione della diversità artificiale da parte della scienza. L’ambiguità di tale sentimento ossessivo nei confronti della diversità/somiglianza dell’artificiale (sotto le vesti dell’automa, del robot, dell’androide, del golem ecc.) è tale da racchiudere in sé un’interessantissima, ulteriore contraddizione. Mi riferisco al terrore misogino che accompagna lo sguardo del maschio (simbolo di razionalità e fautore del progresso tecnico-scientifico) alla femminilità. É, in realtà, lo stesso terrore per la diversità dell’essere artificiale. Ciò si spiegherebbe, secondo Caronia, col semplice fatto che la donna è, agli occhi del potere razionalizzante dell’uomo, la “sede” del misterioso, ma naturale processo di creazione della vita. Infatti, la creazione dell’essere artificiale non è altro che il tentativo di imitare artificialmente tale processo. La donna, quindi, è il modello venerato dall’uomo per la sua capacità di fare ciò che l’uomo non riesce a fare e, contemporaneamente, la più grande minaccia per la realizzazione di questo progetto di creazione artificiale; in quanto la donna crea la vita naturalmente. In quest’ottica, capiamo l’affermazione di Caronia: la femmina è, per il maschio, “il primo essere alieno di cui faccia esperienza”. Naturalmente, quando parliamo di terrore dell’artificializzazione dell’essere umano, ci riferiamo specificatamente all’artificializzazione del suo corpo. In tal senso, Caronia ha tracciato l’excursus a cui il corpo umano è andato incontro. Tracciando, cioè, il percorso evolutivo dell’immaginario collettivo moderno, Caronia ha individuato tre grandi aree immaginifiche a cui il corpo umano tecnicizzato ha dato vita. Aree intese come angoscie collettive rappresentate da diverse espressioni della comunicazione di massa:
1) L’area del corpo replicato (da Frankenstein a Blade Runner, passando per i Supereroi)
2) L’area del corpo invaso
3) L’area del corpo disseminato
Sappiamo già molto sul corpo replicato, essendo l’espressione più forte dell’angoscia che ci ha accompagnato, fino ad oggi, nell’epoca dell’industrializzazione e, poi, della comunicazione di massa. É la paura dell’alienazione, della massificazione omologante e dell’eliminazione artificiale dell’ “anima” umana; è la paura della futuribile società oscurata dei replicanti di Blade Runner; è la paura di vedere inghiottito il proprio corpo negli ingranaggi di una fabbrica o di una grande fabbrica-società.
Il corpo invaso e quello disseminato sono un’angoscia (come sempre accompagnata da un’immensa speranza di liberazione) relativamente nuova; sarà necessaria qualche ulteriore precisazione.
L’essere umano ha sempre avuto piena coscienza dello sconvolgimento che la tecnica opera sull’ambiente naturale, senza, però, potere fare a meno del ricorso ai suoi benefici; pena la ricaduta ad uno stato animalesco. Per tale ragione, esso ha sempre vissuto una condizione di distaccamento dallo stato animale attraverso la costante artificializzazione del suo corpo tramite gli utensili, i segni, i rituali, i vestiti. Tale artificializzazione lo ha allontanato, anche dall’ambiente naturale sin dalla notte dei tempi. Eppure, nell’era paleolitica, in seguito al ricorso ridotto alla tecnica, il nomadismo, la dipendenza dagli eventi naturali, esso ha continuato ad avere, nel proprio corpo, il privilegiato mediatore dello scambio simbolico “che traduce eventi naturali in significati culturali”. Il corpo, nel paleolitico, ha rappresentato il principio essenziale (vd. la danza, i riti, ecc.) per la costruzione e la circolazione del senso nelle comunità sociali. Il neolitico, per Caronia, ha rappresentato la svolta verso una condizione assolutamente differente. La vita sociale si è fondata sulla costante esercitazione di “pratiche violente, da vere e proprie ferite inferte al corpo della terra” (agricoltura, estrazione dei metalli). É questo il passaggio storico che ha fatto da sfondo a quel processo di esteriorizzazione del pensiero che, tramite la scrittura, in Grecia, è stato alla base della realizzazione della scissione tra corpo e anima e della conseguente subordinazione del mondo materiale a quello ideale, fondamenta del pensiero occidentale. La rivoluzione industriale ed il capitalismo hanno significato l’estremizzazione parossistica di tale condizione di esteriorizzazione. Tutto ciò sta alla base dell’angoscia del corpo replicato nella società fattasi fabbrica. Ma è qui che si attiva un processo nuovo. Dice Caronia: “Se la tecnica è ovunque [...] a tal punto che è capace di ricreare, al di fuori del corpo [...] altri corpi [...], perché non potrebbe invadere lo stesso corpo naturale dell’uomo?”. Il punto di riflessione è la fine della massificazione della dimensione della tecnica. La flessibilità della tecnica può essere tale da adattarsi alla più grande specificità dell’essere umano, cioè il suo corpo? Questo, secondo Caronia, significa l’invasione della tecnica, del corpo umano. Il suo insinuarsi “molecola per molecola” nel corpo umano e renderlo né artificiale né naturale: un cyborg. É questo il corpo obsoleto di Stelarc e di Orlan.
Oggi, seguendo ancora Caronia, ci troviamo in una nuova fase, in cui il corpo invaso del “cyborg”, alla Gibson, viene lentamente esautorato da un nuovo tipo di corpo: il corpo disseminato tra le Reti. L’acmé di tale situazione l’avremo quando si avrà l’incontro tra la Rete e la Realtà Virtuale ed “in questi ambienti si incontreranno corpi virtuali [...] capaci di generare l’uno nell’altro risposte sensoriali anch’esse convincenti e totali”. In realtà, la prima forma di disseminazione del corpo tra le Reti si è avuta con il telefono (disseminazione simmetrica). Con esso, infatti, noi sperimentiamo uno spazio virtuale dove la materialità della relazione viene perduta. Noi creiamo la relazione attraverso un processo di costruzione cerebrale (l’unico dato che abbiamo è la voce) di un corpo immaginario. La tuta del cybersex non è molto di più di un telefono tattile !
Caronia, alla fine di questa importante disamina, afferma di opporsi alla classica convinzione, che ha alla base l’occidentale assioma di separazione tra corpo e mente, che il “corpo virtuale” allontani dal corpo reale. Sia gli apologeti, sia i detrattori della virtualità, accusa Caronia, puntano molto sul carattere immateriale dell’esperienza virtuale. In realtà, si tratta di un’esasperazione che andrebbe ridimensionata. Chi dà per scontata la sostituzione del reale da parte del virtuale, non prende in considerazione che “la realtà non è qualcosa di ovvio e immobile”. La virtualità, per Caronia, rendendo disponibile tutto ciò che desideriamo, riduce la precarietà della realtà. Citando Perniola, Caronia afferma che il virtuale elimina l’opposizione tra naturale ed artificiale, perché elimina la distinzione tra realtà e rappresentazione. La crisi dell’essere umano, concretizzata nell’impossibilità di uno sguardo razionale che possa “governare” la realtà, ha prodotto le costruzioni dell’immaginario, dalla letteratura al cinema. Con l’apparizione della televisione e poi della nuova tecnologia comunicativa digitale, tali costruzioni, hanno dato vita ad una dimensione intermedia tra reale ed artificiale che, come dicevamo, hanno, di fatto, risolto l’opposizione. Da ciò, Caronia fa derivare la conseguenza, ormai a noi chiara, dell’impossibilità di pensare, come attributo di questo nuovo corpo disseminato, ad una tradizionale identità stabile e forte. Ripercorrendo, cioè, il discorso di Orlan, Caronia auspica la nascita di una nuova identità post-moderna. É un’identità che ha la peculiarità di essere, a sua volta, costituita da molteplici identità. La disseminazione del corpo tra le Reti dà il via ad una nuova era di esplosione dell’identità; tutti potremo essere tutto, nella virtualità della Rete.
É anche vero che le indagini sociologiche su Internet hanno evidenziato che è sostanzialmente impossibile, per evidenti motivi, conoscere, per esempio, il genere dell’individuo con cui si comunica negli spazi virtuali. Ciò ha dato vita ad una grandissima ricerca di “trasgressione”, rispetto alle tradizionali imposizioni sociali. Molti vivono una seconda o terza vita su Internet, in cui si presentano con un altro sesso e danno vita a relazioni virtuali (che a volte continuano nel mondo reale) di tipo “transessuale” o “bisessuale” e prive di quelle inibizioni affettive e comunicative tipiche delle tradizionali esperienze. Sulla Rete, insomma, si può essere chiunque e senza inibizioni. Viene spontaneo chiedersi se non si tratti di una necessità sentita solo da alcuni “casi” patologici di chiusura, repressione o timidezza. Caronia, invece, parla della possibilità definitiva di abbandonare i limiti di una monolitica affermazione d’identità (fonte esclusiva di guerre e tragedie), per vivere in una condizione di libera identità fluttuante e “nomade”, come il nostro corpo. La questione posta è enorme. In un recente articolo (Reset, ottobre/1996) Morin ha ricordato come la grande tragedia dell’umanità consiste nel vivere in una paradossale condizione. Gli esseri umani, se hanno una forte identità, danno vita a grandi tragedie (comunismo, fascismo, ecc.), se privati dell’identità sono sperduti in una condizione di perenne crisi. Dobbiamo, quindi, rammaricarci delle Idee grandi che incendiano i cuori? Galimberti sembra contento nell’accertare la fine delle grandi Idee e nell’accettare il processo di omologazione a cui la televisione ha spinto. L’omologazione avrebbe, secondo il filosofo, fatto riscoprire le somiglianze e le uniformità tra gli individui, piuttosto che le lacerazioni a cui portano le grandi Idee; ferma restando la possibilità di ognuno di maturare, indipendentemente, ideali soggettivi, più modesti, ma più autentici [Galimberti, 1994]. Comunque sia, non è compito di questo lavoro dare una risposta a tali questioni; rimane, certo, da chiedersi se l’auspicio di Caronia sia realmente e, felicemente, realizzabile. Luther Blisset, corpo collettivo e multiplo che naviga nel cyberspazio, afferma: “Il capitalismo domina le cose e le persone nominandole e descrivendole: “Tu sei un Io”. “No, io non voglio più essere un Io, voglio essere infiniti Ii”[...] . Senza possibilità di classificazione, il potere non può imporre identità precotte e predigerite [...]. Pavlov muore coi suoi fottuti campanelli”. É chiaro che il corpo disseminato, qui, si presenta, come il corpo di Pasolini, come nuova forma d’opposizione al potere. Reale e virtuale possono entrambi svolgere una medesima funzione oppositiva. Le differenze si sfumano.
Caronia, in quest’ottica, parla di una riscoperta della corporeità. Una nuova corporeità che, grazie al virtuale, ci proietta in un nuovo pre-neolitico, in cui il corpo, come nel passato, riassume il ruolo di centro dello scambio simbolico necessario alla vita sociale. Nel paleolitico, il corpo, trasformando simbolicamente gli eventi naturali in ordine culturale (riti, pratiche magiche, danza, ecc.), non avvertiva l’opposizione tra natura e cultura. Il neolitico avanzato ha, invece, irreggimentato il corpo, lo ha codificato e, nella società-fabbrica, lo ha privato di possibilità simboliche. Oggi, auspica Caronia, possiamo pensare di “ricongiungerci al nomadismo e al tribalismo della nostra storia paleolitica”. Ciò, più che una nostalgia del passato, ha “il senso di un utilizzo davvero pieno ed integrale delle tecnologie di comunicazione attuali, la messa in campo di un’unificazione dell’umanità basata non sull’astrazione di una verità che abbia un regno distante e ostile, ma sulla concretezza, sul movimento, sull’immediatezza, sul calore dei corpi, anche se si tratta di cyborg elettronici e dei corpi disseminati dell’era digitale”. É ciò che prevedeva, forse con meno ottimismo, McLuhan, quando, parlando dell’estensione dei sensi nell’era dell’elettronica, affermava l’avvento di una futura, globale consapevolezza priva della verbalizzazione [Caronia, 1996]. In fondo, esistono delle strane, ma significative, analogie tra il corpo “reale” di Pasolini e quello virtuale di Caronia.
Sappiamo che Pasolini inneggiava ad una riscoperta del reale. E sappiamo che in questo reale una parte importantissima l’aveva il corpo. Oggi, di fatto, viviamo un periodo di fortissima rivalutazione del corpo. Se, però, il corpo adorato da Pasolini era un corpo naturale, quello venerato oggi è un corpo culturale. Un esempio, banale, ma molto significativo, di cosa intendiamo, parlando del nostro nuovo corpo culturale, ce lo dà Capucci . Egli evidenzia che il senso dell’olfatto, decodificatore chimico eccezionale di particelle di materia in sospensione, ha sempre svolto la funzione importante di rivelatore d’identità. Ogni individuo, emanando un particolare odore, emana direttamente una primaria informazione d’identità, che può essere decodificata dall’altro mediante, appunto, il senso dell’olfatto. Oggi, il ricorso alla profumazione o alla deodorazione ha eliminato la naturalezza di questo livello primario di informazione spontanea d’identità, per sostituirla con un processo di costruzione artificiale (cioè culturale). La dimensione fisiologica viene sostituita dalla dimensione simbolica delle “rappresentazioni che il soggetto costruisce e dà di sé”. Cerchiamo, adesso, di estendere l’argomentazione, semplicemente pensando alle migliaia di protesi (in senso ampio) artificiali che invadono il nostro habitat. Abbiamo la sfera della chirurgia generale e plastica, che ci permette di modificare il nostro corpo, sia in superficie, sia in maniera invasiva (trapianti, impianti, trasfusione, ecc.). Abbiamo la sfera della chirurgia genetica e possiamo realizzare fecondazioni, gestazioni e interruzioni di gravidanza in modo artificiale. Abbiamo l’immensa sfera degli artefatti quotidiani che, entrati in maniera stabile nel nostro vivere giornaliero, neanche consideriamo più come artificiali (mezzi di trasporto, di comunicazione, di amplificazione, lenti a contatto o non, anticoncezionali, ecc.). Già questo può giustificare il ragionamento di Capucci, che consiste nel ribadire che l’essere umano ha dato vita ad un habitat antropocentrico (una “natura seconda” di tipo culturale) e ad un corpo che, in quanto “corpo-in-protesi” e “bio-macchinico”, è un corpo culturale. La posizione di Capucci, però, lungi dall’essere di tipo apocalittico, presenta una pragmatica e mediatrice prospettiva. Capucci sostiene che sarebbe assurdo non riconoscere i grossi vantaggi che la tecnologia ha reso all’uomo. Spesso l’artificiale ha permesso la vita al naturale (medicina). Spesso l’artificiale ha permesso un migliore dispiegamento del naturale (pensiamo agli handicappati). Ogni tecnologia ha limiti e vantaggi, ma non tutto il chiaro sta dalla parte opposta dello scuro. Lo stesso discorso deve essere fatto, più specificatamente, in relazione alla comunicazione tecnologica. Tutta la dimensione “tecnico-simbolica” ci ha reso più agevole l’esistenza, aiutandoci a capire, conoscere, agire e modificare il reale, rendendolo meno pericoloso e più profondamente comprensibile. Allo stesso tempo, sarebbe assurdo negarlo, questa dimensione, ci ha allontanato dal reale stesso. Noi viviamo più lontani da un reale che, però, conosciamo molto meglio e da cui siamo meglio protetti. Capucci, riferendosi alla comunicazione, mette insieme segni indicali, oralità, scrittura, comunicazione acustica e visuale e comunicazione polisensoriale del virtuale. Sono tutti “sistemi simbolici fisici tecnici che hanno esteriorizzato modelli mentali, dando loro forma sensibile e socialmente condivisibile e allontanando al contempo la presenza fisica e materiale del reale fenomenico dall’individuo, situandosi nello spazio d’interazione tra questi e il mondo”.
Il punto importante, però, è che se lo sviluppo del simbolico ha, per molto tempo, significato l’abbandono della sfera “percettivo-motoria”, emblematicamente espresso dalla preminenza sensoriale della vista e dell’udito rispetto al tatto e l’olfatto che sono ontogeneticamente e filogeneticamente primari, adesso le nuove comunicazioni virtuali permettono una rivalutazione della polisensorialità e della sensomotricità. Avere un corpo ed i suoi attributi percettivi è di nuovo essenziale ed é, invece, insostenibile qualsiasi forzata separazione tra la mente ed il corpo; il quale diviene sempre più il fulcro della comprensione e della percezione. Certo, tale centralità non nasce su un rapporto diretto col reale, ma con una realtà “intermediaria”. Tuttavia, afferma Capucci, la dimensione fisica e quella antropica, opposte in diverse occorrenze, in realtà, hanno diversi punti di contiguità. Bisognerebbe, forse, voltairianamente sfumare l’opposizione naturale/artificiale. Comunque, “la nuova solarità del corpo e delle modalità cognitive che vi si accompagnano segna il trionfo del corpo, ma all’interno della dimensione simbolica”; il simbolico si è sovrapposto al naturale [Capucci, 1994].
Estremamente originale è anche il contributo di Michel Maffesoli, un autore che ci ha spesso affascinato con i voli entusiasmanti del suo pensiero. Il quadro concettuale di riferimento di Maffesoli è quello di una rivalutazione dell’importanza della dimensione “estetica” dei rapporti sociali. è lui stesso a coniare una formula tendenzialmente ossimorica, dal punto di vista semantico, che è quella di “un’etica dell’estetica”. Qui, l’estetica rappresenta il mondo della “iperrazionalità”, cioè “un modo di conoscenza che sappia integrare tutti quei parametri che vengono considerati normalmente come secondari : il frivolo, l’emozione, l’apparenza [...]“[Maffesoli, 1990]. Secondo Maffesoli, la società post-moderna si caratterizza proprio per questa rivalutazione di una dimensione antropologica edonistica. Una dimensione che, sempre presente in ogni società, tende ad emergere in modo dirompente in alcuni periodi come ethos centrale dei rapporti quotidiani. L’homo aestheticus a cui fa riferimento Maffesoli è un uomo che opta per uno stile tattile (opposto a quello ottico) che privilegia la vicinanza, la concretezza, la quotidianità, la corporeità : “il paradigma estetico è l’angolatura d’approccio che permette di rendere conto di una costellazione di azioni, di sentimenti, di atmosfere tipiche del tempo post-moderno [...].Tutto ciò che riguarda il presenteismo [...] la banalità, in breve l’enfasi del carpe-diem” (pag.48). è la reliance il principio cardine di una tale etica societaria e il nuovo sviluppo tecnologico che va in questa direzione di creazione di relazione, interdipendenza, comunicazione si aggiunge ai rituali celebrativi di massa tipici di quest’epoca (concerti, eventi sportivi, ecc.). Maffesoli, come si evince immediatamente, non distingue tra una reliance corporeo-tattile basata sulla reale fisicità e una reliance costruita sulla base di una comunicazione (magari anch’essa virtualmente tattile) telematica o immaginale. A tal proposito egli ci propone una prospettiva, che merita di essere attentamente esaminata, che può essere definita (la formula è sua) una fisica mistica dell’immagine. Maffesoli s’impegna a utilizzare un’analisi che utilizzi i principi di una vera e propria Formalsoziologie. Egli, cioè, assume l’importanza di evidenziare il ruolo della forma nel formare, la natura formante della forma. Contenitore e contenuto sono in una relazione che è strettissima, inestricabile. La forma, in un certo qual modo, “determina” il contenuto che essa racchiude. Quantomeno, essa è una “matrice” che ne condiziona ontologicamente, oserei dire, il funzionamento. L’importanza da dare alle forme apparentemente banali, dice Maffesoli, l’hanno insegnata i pittori come Morandi che hanno fissato la loro attenzione sulle forme banali (mele, bottiglie, ecc.) come “condizione di possibilità della vita”. Nell’ambito sociale, la forma, in quanto condivisa e quindi “banale”, è formante nella misura in cui essa spinge all’aggregazione, alla condivisione. La forma, la pelle di una società è proprio quel mondo dell’iperrazionalità descritto sommariamente prima, tanto denigrato dall’intellettuale razionalista e che in realtà andrebbe riscoperto come essenziale nodo di conoscenza del sociale. È quest’approccio, secondo Maffesoli, che ci può aiutare a comprendere quell’intelligenza delle forme che è il “mondo immaginale”. Il mondo immaginale è “un insieme matriciale che trascende e ordina le immagini [...] ciò che determina un dato modo di definire un insieme di linee o di curve più o meno arbitrarie e che tuttavia viene riconosciuto come una sedia o una montagna”. Un’intelligenza immaginale che permette di “leggere” la più banale quotidianità così come i grandi miti fondatori di una data società. E sono proprio le immagini le nuove protagoniste della forma societaria, una “pioggia delle immagini”, utilizzando una metafora cara a Maffesoli. Una pioggia salvifica che cade dopo epoche iconoclaste fondate sugli assoluti della tecnoscienza. Oggi, è proprio lo sviluppo tecnologico a favorirne la diffusione. Una diffusione che rimanda alla logica implicita della società, cioè la corporeità. La corporeità soppianta la ragione nel senso di una nuova valorizzazione della comunicazione priva della mediazione razionale. Non è, infatti, questo tipo di comunicazione l’essenza naturale del corpo? Il suo presenteismo e la tattilità ne sono le precondizioni. La tattilità rimanda anch’essa a questa dimensione estetica dove l’enfasi è sull’apparenza, sull’edonismo, le celebrazioni (musicali, sportive), elementi che spingono a una sensualità dello stare con, del partecipare. Maffesoli, dunque, parla di una riscoperta della corporeità sociale intesa come comunicazione non mediata razionalmente, dove anche le immagini sono corpi e i corpi diventano immagine (es. moda, body-building) e dove la corporeità è la forma, la pelle che tiene unito il corpo sociale : “L’orizzonte della comunicazione costituisce quindi lo sfondo dell’esacerbarsi dell’apparenza” ; è una “sociologia della pelle” che Maffesoli spinge a pensare o ripensare. La comunicazione tecnologica, (non l’unica, ma a noi, qui, interessa questa) fonda ed è fondata da “una condivisione immaginale” opposta alla razionalità economica, che “fa corpo” perché erotica, in quanto spinge all’unione, alla condivisione. Maffesoli ci parla di un nuovo corporeismo spirituale che nasce dall’epifanizzazione della materia e nella corporeizzazione dello spirito. Un corporeismo misterioso se è vero che mysterium è “ciò che unisce gli iniziati”. Per tale ragione, Maffesoli parla di un narcisismo collettivo. Una forma di narcisismo che non implica un ripiegamento dell’individuo su se stesso, ma che, al contrario, si fonda su una tendenza alla condivisione estetica con gli altri.
(fine sesta parte)
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2001/04/pasolini-nellera-di-internet-vi/
Nessun commento:
Posta un commento