"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini nell’era di Internet (I)
Di Guido Nicolosi
Indice:
Introduzione
Potrebbe essere rilevante e lecito chiedersi perché una riflessione su Pier Paolo Pasolini debba prendere spunto proprio dall’esperienza cinematografica dell’autore. Perché, in altre parole, non prendere in considerazione la copiosa produzione letteraria, poetica o saggistica? La risposta, forse, sta proprio nell’essenza della natura stessa dell’arte cinematografica, così come è possibile trovarla nell’essenza della natura stessa dell’arte pasoliniana.
Pasolini, infatti, potrebbe essere definito un poeta multimediale, utilizzando un termine abusato, oggi, epoca del virtuale e delle trasformazioni cibernetiche, oltre che delle comunicazioni massificate. Intendo evidenziare, con la formula “poeta multimediale” , la capacità, ma anche la volontà di Pasolini, di affrontare, aggredire una pluralità di questioni di natura molto diversa, utilizzando una pluralità di media, senza mai tradire la sua istintiva, profonda e costante matrice poetica.
Certamente la poesia è stata la sua più grande risorsa, ma anche, paradossalmente, il suo più grande limite. La più grande risorsa, perché è stato il suo esser poeta a spingerlo oltre gli “angusti” limiti della letteratura, ad affrontare con lucidità, che oserei definire profetica, i grandi temi politici, sociologici, antropologici della società e della cultura contemporanea. Le sue analisi, proprio perché poetiche, gli hanno permesso di vedere “verità” nascoste, allora, da ingombranti orpelli superficiali. E proprio perché poetiche gli hanno permesso di scoprire le tendenze “in fieri”, appena accennate, sociologicamente non quantificabili, ma che un poeta può permettersi di additare. Ed è qui che si annida il paradossale limite della sua opera: l’affrontare questioni sociologiche, antropologiche, semiotiche, con un occhio poetico, rigorosamente privo di quella rigorosità metodologica che ogni scienza empirica deve necessariamente fare propria. Con questo non voglio asserire che le sue interpretazioni della realtà siano prive di valore alcuno, anzi le ho definite profetiche, talmente profetiche, da fare oggi di Pasolini un vero culto1, spesso attraverso delle contraddittorie mercificazioni della sua immagine. Pasolini, in quanto poeta, ha potuto osare alzarsi sopra le teste degli uomini e delle donne del tempo, toccando il cielo, giocando con l’inferno. Da quelle altezze egli ha potuto vedere cose che nessun altro era in grado di vedere, ma proprio per questo egli ha perso la possibilità di essere preciso, rigoroso. Una rigorosità che, sicuramente, egli stesso non ricercava e che nessuno può chiedere ad un grande poeta, anche quando questi si trasforma in sociologo, antropologo, semiologo.
A questo punto, la risposta alla nostra domanda iniziale apparirà più chiara. La multimedialità fa di Pasolini un autore che ha saputo e voluto fare della sua arte una pluralità di arti, della sua espressione una pluralità espressiva: Poesia, cinema, letteratura, pittura, tutti campi meravigliosamente esplorati, sia separatamente, sia in un raffinatissimo melting-pot. È in questa dimensione che Pasolini diventa un tutt’uno con il cinema, che può essere considerato un simbolo vivente del cinema ed il cinema diventa il mezzo privilegiato per la sua libera espressione. Se, infatti, Pasolini ha scelto le arti e non l’arte, anche il cinema può essere visto come un pot-pourri di impulsi artistici diversi. É stato inevitabile, seppur tardo, l’incontro tra lui ed il cinema, perché con esso egli è stato in grado di riassumere tutta la sua esperienza artistica in una feconda sintesi comunicativa2. Con il cinema Pasolini dipingeva, suonava, scriveva prosa e lirica. Le affinità elettive tra Pasolini ed il cinema sono state una necessaria conseguenza per un artista che non ha voluto privilegiare un unico campo espressivo, ma che ha fatto della pluralità comunicativa la sua principale condizione.
Lo stesso Metz ha tentato di definire la “specificità cinematografica” su due livelli: discorso filmico e discorso in immagini [Metz, 1968]. Il primo dei due livelli si caratterizza per la sua qualità compositiva. Il cinema, su questo livello, si specifica nel suo comporre linguaggi tra di loro differenti, ognuno dei quali mantiene le proprie “leggi”. Conglobando espressività anteriori, esso le proietta amalgamate in un linguaggio di linguaggi. Naturalmente la seconda specificità è quella di comunicare in immagini, differenziandosi come linguaggio altro dagli altri linguaggi. K.Cohen ha tentato di dimostrare come il cinema sia stato il più attivo catalizzatore di un processo di scambio e di convergenza artistica, che è stato la peculiarità principale dell’arte del XX secolo [Cohen, 1979]. Un’epoca, per Cohen, di “contre-decadence”, che risale sino alla generazione di Wagner: “attingere ad un’arte per l’arricchimento di un’altra”. Così, se Pasolini è simbolo vivente del cinema, questo è simbolo di un’epoca, obbligando Pasolini a diventare, sillogisticamente, simbolo di un’epoca: la nostra. Ma già Hegel nell’Estetica si fece sostenitore di una nuova interrelazione tra le arti in nome di una nuova “sintesi potente”. Anche Georges Melies, uno dei padri del cinema, mise in risalto l’attitudine cinematica a combinare le arti. Naturalmente, Cohen ha precisato, se il cinema può essere visto come un coacervo di impulsi artistici diversi, “allo stesso tempo il suo prodotto finito è stato in grado di stimolare le altre arti alla consapevolezza dei loro potenziali”.
Parte Prima: Cinema e Semiologia
1. Il cinema e le scienze sociali
Il sogno è dell’infanzia e della notte, il film e la reverie sono più adulti e sono del giorno: ma non del giorno pieno, piuttosto della sera.
[Christian Metz]
Il cinema è sempre stato un campo d’indagine estremamente ricco per le scienze sociali, come dimostrano i fitti rapporti con la psicologia e la sociologia.
Pensiamo, in tal senso, all’apporto dato dalla psicologia tramite il proliferare degli studi sulla percezione, la partecipazione, la memorizzazione e la comprensione. Sarà sufficiente passare in rassegna solo alcuni dei più interessanti contributi.
Serge Lebovici ha affrontato il tema della cosiddetta “doppia analogia” del cinema, per la quale “il film è come un sogno e lo spettatore è come un sognatore” [Lebovici, 1949]. Il sogno ed il film, infatti, sono entrambi visuali, “in immagini” ed entrambi sono privi di rigidi vincoli temporali, causali, logici. Ciò, potremmo aggiungere, è particolarmente vero per il cinema moderno, dalla nouvelle vague in poi (prescindendo dalla parentesi surrealista o dadaista), in seguito a quel processo di destrutturazione narrativa di cui molti semiologi e lo stesso Pasolini si sono occupati. Un ulteriore interessante parallelo tra sogno e film è dato dalla evidente coincidenza tra la “grammatica onirica” e quella cinematografica (carrelli, ecc.). Inoltre, ha sottolineato Lebovici, entrambi sono dotati di “suggestività”, cioè fanno riferimento ai suggerimenti che le immagini danno tramite la gestualità e l’espressività, per cogliere i nessi, i pensieri. Infine, anche le condizioni di fruizione dello spettacolo filmico, richiamano molto da vicino quelle in cui si trova il sognatore: il buio, l’isolamento percettivo (ma su quest’ultimo punto sarebbero non poche le obiezioni)3. D’altronde, lo stesso Freud ha descritto il processo onirico in maniera molto analoga al processo di visione di un film. Il soggetto, infatti, proietta le immagini su quello “schermo dei sogni” che è il suo sistema percettivo.
In realtà, Metz ha opposto a tali considerazioni alcune puntuali specificazioni che lo hanno portato a vedere lo spettatore più vicino ad un’esperienza di reverie,piuttosto che onirica. Ad esempio “il sognatore non sa che sogna, mentre lo spettatore sa che è al cinema”, inoltre “la percezione filmica è una percezione reale” e non un processo psichico, lo spettatore mantiene una sua capacità riflessiva. Infine, il film è più causale, logico, narrativo e lineare di un sogno.
É lo stesso Metz che ha individuato i nessi più significativi tra il cinema e la psicologia e/o la psicanalisi [Metz, 1977]. Nel suo lavoro il film assume le sembianze di uno specchio in cui lo spettatore può ricercare riscontri, supporti, identificazioni con altri personaggi oltre che con se stesso. Uno specchio in cui l’unica cosa che non viene riflessa è il corpo dello spettatore, ma dove la sua “anima” trova ogni possibilità riflessiva. La sala è luogo in cui si consuma una pulsione sessuo-percettiva fondamentale: il desiderio di vedere e sentire. Ciò trasforma, secondo Metz, lo spettatore in un voyeur sui generis. Un voyeurismo fondato sulla separazione dall’oggetto guardato, sulla distanza tra il percepito ed il percipiente. Dice Metz: “[...] il suo sguardo blocca l’oggetto ad una buona distanza, come certi spettatori cinematografici che si preoccupano di non essere né troppo vicino né troppo lontano dallo schermo”. Cohen ha sottolineato la naturale ambiguità della distanza al cinema. Da una parte la “distanza dinamica” viene annullata, grazie alla ubiquità della cinepresa. Ma dall’altra, esiste una distanza ineliminabile, “come il vetro di un acquario che separa l’osservatore dal pesce”, data dall’immaterialità degli oggetti mimetici. Per questo, insiste Metz, il cinema rappresenta il “voyeurismo allo stato puro”, dove le condizioni di fruizione esaltano questa dimensione psicologica: l’oscurità, lo schermo come buco della serratura, la solitudine del percipiente. La distanza, come elemento essenziale della situazione di voyeurismo4, nel cinema viene esaltata fino a sublimarsi nell’assenza dell’oggetto osservato, inaccessibile feticcio del “regime scopico”.
Ed è proprio il feticismo la terza coordinata individuata da Metz, laddove il feticcio è lo stesso cinema “come esecuzione, come tecnica, come prodezza, come exploit”. La sociologia, invece, ha sempre considerato il cinema come istituzione sociale. La massima espressione di un simile approccio è data dal lavoro di un autore come I.C.Jarvie. Egli si è sforzato di applicare un metodo sociologico critico anche allo studio dell’istituzione cinematografica. In particolare, Jarvie, riscoprendo il modello laswelliano proposto nel 1948 per lo studio scientifico delle comunicazioni di massa e facendo proprio un classico paradigma dell’analisi sociopolitica, ha tentato di utilizzare un’analisi che basasse i suoi esiti sull’elaborazione dei patterns di risposta a quattro items fondamentali: “chi fa i films e perché ?”, “chi vede i films, come e perché li vede ?”, “cosa si vede, come e perché ?”, “come i film sono valutati, da chi e perché ?”.
Come contraltare a questa chiave di lettura, che potremmo definire razionalista ed “ottimista”, intrisa di chiari modelli popperiani, Casetti ha posto la fondamentale, quanto pessimista, analisi della scuola di Francoforte di Adorno ed Horkheimer.
Il cinema, in tale analisi, viene racchiuso all’interno di quell’enorme e variegato contenitore che, non a caso, viene definito “industria culturale” [Horkheimer; Adorno, 1947]. Con questa definizione, apparsa per la prima volta nella “Dialettica dell’illuminismo”, Adorno intese sottolineare la costituzione a sistema di una realtà culturale caratterizzata dall’organizzazione e dalla standardizzazione. Quella che spesso viene definita cultura di massa, Horkheimer e Adorno la riproposero come cultura massificata e massificante. La distinzione, fondamentale, si basa, sulla realtà di una cultura che non nasce dalla affermazione spontanea di una forma di arte popolare, bensì dall’imposizione sociale di un sistema letto in esclusiva chiave tecnologica e retto dalla “naturale” legge di un mercato di massa. A chi obiettava che la stereotipizzazione e il basso profilo qualitativo di tale sistema è la conseguenza del gusto e dei bisogni del pubblico di massa, la scuola francofortese ha risposto in termini di manipolazione dei bisogni da parte di un sistema alienante, definitivamente privo di una capacità di critica interna. Marcuse, in seguito, espose un principio affine, nel considerare la società contemporanea come caratterizzata da una plagiante unidimensionalità [Marcuse, 1964]. La vecchia frattura tra ideale e reale, che aveva garantito la tensione critica della società del passato (lotta di classe, ideologie oppositive, ecc.), nel presente viene colmata, riempita da una produzione culturale alienante che, riproponendo i rigidi meccanismi produttivi nella sfera della cultura e del leisure, distrugge l’autonomia critica e umana del fruitore. Se ciò che viene consumato dal pubblico non è che la semplice riproposizione “sovrastrutturale” dell’alienazione atrofizzante il pensiero, del processo lavorativo della fabbrica taylorista-fordista dell’epoca moderna, allora Adorno arriva ad affermare che: “Quel che un tempo i filosofi chiamavano vita si è ridotta alla semplice sfera del privato e poi del puro e semplice consumo, che non è più se non un appendice del processo materiale di produzione” [Adorno, 1951].
Il leisure, in un siffatto sistema, si presenta come meccanismo di fuga dai pensieri di resistenza ad una realtà che si manifesta seriale e standardizzata in tutte le sue sfaccettature. La massima espressione di tale vera e propria strategia di dominio attraverso l’industria culturale sono i generi stereotipati, presenti in modo significativo nel cinema Hollywoodiano. Anzi, potremmo asserire che lo “studio-system” di Hollywood rappresenta la prova inconfutabile di un certo modo di concepire i prodotti culturali come merce e di sottoporli, come tutte le merci, alle leggi di mercato e di produzione di massa (divisione del lavoro spinta, trusts produttivi, marketing, pubblicità, ecc.). Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’opera d’arte, quindi, il cinema diventa un ulteriore momento di svilimento del valore artistico dell’opera ai fini di un asservimento sistemico al potere, il cui unico scopo viene ad essere l’ottundimento rassicurante e consolatorio delle capacità di libera creatività critica5. La visione apocalittica della scuola di Francoforte, assume una valenza profondamente differente, se riletta attraverso l’ottica sociologica di Abruzzese [Abruzzese, 1977]. Partendo dall’opposizione marxiana tra lavoro astratto e lavoro concreto6, Abruzzese riconsiderò l’industria culturale in modo più pacato, valutandone, dall’interno, quegli assetti che la difendono dalla scomparsa totale dello spazio del lavoro concreto. Ciò che conta, all’interno, è una dialettica esistente tra la standardizzazione tecnologica e alienante dei cicli produttivi e la presenza, in molte delle sue fasi, della matrice di un lavoro fortemente “legato alla sua ambizione artigianale”. La questione francofortese della manipolazione dei bisogni, da parte del sistema dell’industria culturale, è stata magistralmente ridefinita da Edgar Morin, ribadendo il principio della dialettica esistente tra “il sistema di produzione culturale e i bisogni culturali dei consumatori” [Edgar Morin, 1962, 40]. É fuorviante, dice Morin, la diatriba sulla direzione della correlazione esistente tra queste due variabili individuate. La cultura di massa è in grado di svilupparsi dove l’industrializzazione, la tecnicizzazione sociale, il libero mercato, i processi d’individualizzazione capitalistica, sono stati in grado di erodere le condizioni culturali tradizionali, affermando un nuovo modello etico, prima che economico sociale, basato su nuovi bisogni individuali. É l’ethos del “superindividualismo privato” fondato sui bisogni privati di benessere, felicità, libertà, che da una parte erode gli istituti tradizionali intermedi tra individuo e società, dall’altra afferma una “moderna religione della salvezza terrena”. La cultura di massa ed il cinema in particolare procura, in tale contesto, forme false di vita reale. Per Morin essa finisce per trasformare lo spettatore in un fantasma, proiettando “il suo spirito nella pluralità degli universi immaginati o immaginari [disperdendo] la sua anima negli innumerevoli doppi che vivono per lui [...]“. Tali doppi consolano l’uomo e la donna per ciò che loro manca, e li spingono all’imitazione pedissequa dei loro modelli sociali.
Nel film, però, la “celluloide in movimento” implica la più interessante “qualità spaziale del tempo diegetico”: ogni ripresa vive nel presente imperituro, in un “qui ed ora” che prescinde dei salti temporali dei flashback o dei flashforward. Roland Barthes giustamente afferma che “Nella fotografia, si realizza una illogica congiunzione fra il presente e il passato. La sua realtà è quella dell’aver avuto luogo là… Non si dovrebbe considerare il cinema come fotografia animata; con il cinema l’aver avuto luogo là diviene un aver luogo là [...]” [Barthes, 1964a]. Se, cioè, la foto di una barca ci rimanda al pensiero di “quella era una barca”, la più statica delle riprese di una barca ci fa pensare “questa è una bella barca”. Guardare una foto non mette in moto un esser-ci, ma un esser-ci-stato, che provoca una “irrealtà reale” tipica, dove la parte reale risiede nell’anteriorità. Quella barca è stata così veramente, ma noi, ora, siamo al riparo da quell’esser-ci-stato, quella barca non è più così. La fotografia ha, contrariamente al cinema, un “debole potere proiettivo”. D’altronde, lo stesso Barthes ci ha insegnato che il referente della fotografia è diverso dal referente di qualsiasi altra forma rappresentativa. Esso è necessariamente un “oggetto” reale che è stato posto davanti all’obiettivo; l’artificio è possibile, ma è un trucco che fa si che “la fotografia è elaborata solo quando bara”. Il punto, però, che Barthes ha voluto evidenziare è che nel momento in cui la foto viene scattata, si realizza una specifica composizione tra il tempo ed il reale. Infatti, la foto ci dice che l’oggetto è stato, questo è il “noema”, l’essenza della foto. L’oggetto è stato là, ma da là e stato immediatamente separato. Dal momento in cui è stata possibile, scientificamente, la fissazione dei raggi luminosi dell’oggetto sugli alogenuri d’argento, è come se, per Barthes, il corpo della cosa fotografata e lo sguardo del soggetto che guarda, fossero legati da un “cordone ombelicale”. La foto emana dal referente, grazie alla luce, così come “i raggi differiti di una stella”. La foto come un “é stato”, il suo composto di reale e passato, sono il motivo del forte legame tra fotografia e morte. L’oggetto, quando fotografato, diventa un “Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona”. La fotografia, questa immagine folle, ratificando ciò che è stato si allontana dal linguaggio, che è per sua natura fittizio. Nel cinema il “noema” si anima dando vita ad una diversa fenomenologia. Il cinema, il suo movimento, annullano la follia fotografica. Una follia data dall’assenza dell’oggetto, vincolata alla sicurezza del suo esserci stato. La foto si presenta a noi “falsa a livello della percezione, vera a livello del tempo [...] immagine folle, velata di reale”. Il cinema, invece, come settima arte, si presenta come l’opposto della follia, esso è illusione: “la sua visione è sognante non ecmnesica” [Barthes, 1980].
Facciamo un piccolo passo indietro; abbiamo già ricordato come l’accezione temporale moderna del cinema nasce con l’introduzione di un fenomeno tecnico di massima importanza: il montaggio. Esso venne “scoperto” fortuitamente da Melies in seguito ad un inceppamento della macchina da presa, in Place de l’Opera, per un minuto. L’effetto procurato nello sviluppo, aprì la strada a nuove sperimentazioni di cui, oggi, conosciamo bene gli effetti. Il senso del montaggio è quello di dare una continuità basata sulla discontinuità. Come dice Cohen: “Quando due riprese, reciprocamente illogiche, disunite e perfino contraddittorie, sono messe insieme nel film, l’automatico e ininterrotto flusso di immagini forza almeno l’apparenza della sequenza”. La massima chiarificazione di tale principio è stata data, forse suo malgrado, dall’esperimento di Kuleshov7. Il più significativo degli effetti è dato dall’annullamento del tempo cronologico, così come ci ha insegnato Eisenstein in La Corazzata Potemkin con la “espansione del tempo” della famosa scena del marinaio. Il montaggio, d’altronde, è una tecnica che molto bene “conoscevano” i cubisti, i futuristi, e tutti gli esponenti della letteratura contemporanea, da Proust a Joyce, dalla Woolf e la Stein fino ai coevi Bukowski Kerouac ecc.
4. La semiologia di Pasolini
“O esprimersi e morire o essere inespressi e immortali”
[Pier Paolo Pasolini]
Come si inserisce la riflessione pasoliniana all’interno di questa articolata discussione filmologica ? In maniera dirompente, provocatoria e feconda, come sempre in ogni suo apporto al dibattito culturale e politico di quegli anni.
La fitta riflessione teorica che, a metà degli anni sessanta, lo ha impegnato in un ricco confronto con la critica, i teorici della comunicazione e i registi, è stata felicemente stimolata all’interno della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro. Tale riflessione (oggi raccolta, nei suoi spunti più importanti, nella terza sezione di Empirismo Eretico), svolta parallelamente alla produzione filmica, ricorda l’intensa e tendenziosa produzione linguistica antiaccademica del decennio precedente.
Lo sfondo delineato brevemente, nelle sue coordinate essenziali, nei paragrafi precedenti, rappresenta un necessario punto di partenza, per inquadrare efficacemente il nodo centrale della semiologia pasoliniana che, riportando una nota definizione di Eco, potremmo chiamare Metafisica Pansemiotica. L’idea topica di tale semiologia, semplificando all’estremo, consiste nel presentare il cinema come spontanea rappresentazione della realtà: “La realtà è un linguaggio. Altro che fare la semiologia del cinema: è la semiologia della realtà che bisogna fare!” [Pasolini, 1972, 139].
Cercando di dare un ordine alla trattazione, potremmo precisare come per Pasolini il cinema, innanzi tutto, ha rappresentato una parafrasi di un nuovo “senso”, affermatosi nel mondo, in grado d’andare oltre i classici canoni di razionalità.
Parafrasando R.Barthes, Pasolini ha ricordato come il cinema sia un’arte profondamente metonimica. La metonimia è quella figura retorica che esprime una sovrapposizione del senso di alcuni segni che entrano in contiguità; essa permea ogni montaggio ed essendo il cinema fondato sul montaggio, ecco che la definizione di Barthes acquista una validità incontestabile. Andando oltre, egli ha affermato che ogni arte metonimica si specifica per esprimere un “senso” più che dei significati. Ha detto Barthes: “[...] il senso, per così dire, non è racchiuso nel significato.[...] l’arte, in quanto libertà, sembra adoperarsi, oggi, non a faredel senso, ma, al contrario, a sospenderlo”. Ma passando all’analisi della vita concreta e della storia, il “senso” delle cose oltre il loro significato, secondo Pasolini, è dato da “questo rovesciarsi nella quotidianità di valori negativi ed ideali, violenti e non violenti”. Si tratta di una nuova forma di coscienza, che esce clamorosamente fuori dai canoni classici del razionalismo, sia esso borghese, sia esso marxista. Pasolini, cioè, ha inteso affrontare una questione a lui assai cara, che riprenderà spesso nei suoi saggi e nei suoi films: la crisi sociale di un modello razionalista che ha fondato ogni ideologia di potere e d’opposizione ed oggi non in grado di spiegare un’ampia sintomatologia sociale sovvertitrice dei tradizionali assetti. Non a caso Pasolini si occupò ampiamente di quella “volontà sinceramente rivoluzionaria” che, specie negli Stati Uniti, si andava esprimendo in una vera nuova guerra civile. I negri ed il Black Power, i neo-nazisti del Ku-Klux-Klan, i Beatniks ed il terzo mondo, esprimevano una nuova ventata a-razionale , assolutamente incompresa dalla borghesia e dal marxismo. Restringendo, per adesso, il campo d’indagine alle sole questioni semiotiche, è inevitabile, a questo punto, iniziare a trattare il cuore del problema: il “cinema di poesia”.
La premessa essenziale è che “lo strumento linguistico su cui si impianta il cinema è [...] di tipo irrazionalistico [...]“. Contrariamente a quanto avviene nel caso dei linguaggi letterari, che possono fare riferimento ad una base strumentale fortemente istituzionalizzata, il cinema sembra non essere legato a nessuna forma strutturata e strutturante, in grado di fornire un serbatoio comunicativo da cui attingere la sua espressività. Siamo, fin qui, all’interno di un alveo fondamentale, ma da cui presto si distaccherà, tracciato sulla falsariga della tesi Metziana del cinema linguaggio senza codice. É un’astrazione, si è chiesto Pasolini, parlare di un linguaggio cinematografico? Non esiste l’equivalente delle parola o del dizionario con i suoi lemmi, “non c’é nessuna immagine incasellata e pronta per l’uso [...] dovremmo immaginare un dizionario infinito”. Eppure se ammettessimo l’ipotesi della non esistenza del linguaggio non dovremmo ammettere anche l’esistenza del cinema e della sua capacità di comunicare, il che si rivela un assurdo.
Metz ha affrontato il problema, risolvendolo su un piano diverso da quello pasoliniano, dando vita ad un indiretto quanto intenso dibattito tra i due. L’ipotesi di Metz è stata che, per quanto secondo molti rispetti il cinema sia stato, da molti, considerato una lingua, in realtà ciò facendo si è visto in esso ciò che esso non é. Il cinema, cioè, secondo Metz, è privo di una serie di caratteristiche, essenziali nel qualificare una vera lingua. Innanzi tutto, esso è privo di un codice. La sua natura, evidentemente sintagmatica, non necessariamente ne implica una paradigmatica. Non è la sintassi a rendere intelligibile un film, perché sono i suoi elementi costitutivi (dissolvenza, dissolvenza incrociata, ecc.) che sono intelligibili solo in relazione alla comprensione del film stesso. É il suo “dinamismo narrativo” che ci conduce alla comprensione. Ed è stato proprio il cinema moderno ad esaltare l’indole specifica del cinema che si sostanzia non in lingua, ma in linguaggio. Bazin e la sua teorica, Rossellini e la sua pratica non manipolatrice (“le cose sono li, perché manipolarle?”), la morte di un certo “cinema-meccano”, hanno distrutto una pratica caricaturale legata alla concezione della cine-lingua. “Il cinema deve dire qualcosa? Che lo dica ! Ma che lo dica senza credersi obbligato a rimaneggiare le immagini “come parole” e ad accordarle secondo le regole di una pseudo-sintassi” [Metz, 1968, 69]. Troppo spesso nel passato, secondo Metz, il cinema ed i suoi autori avevano vissuto un complesso d’inferiorità nei confronti della lingua verbale. Proclamando una diversità che implicava surrettiziamente una superiorità di fatto, moltissimi autori avevano involontariamente rivelato la loro subordinazione al codice linguistico. Una subordinazione dimostrata dai costanti tentativi di paragonare le due realtà. E allora, se l’immagine era come la parola, la sequenza, che è composta da immagini, era come la frase, e così via. In realtà, come Metz ha dimostrato, l’immagine è l’equivalente di un enunciato, più che di un monema o di una parola. Sono cinque, infatti, le caratteristiche che la sostanziano come enunciato:
1. come gli enunciati e a differenza delle parole, le immagini sono infinite e quindi non sono unità discrete
2. come gli enunciati e a differenza delle parole, esse sono frutto di creazione del soggetto che “parla”
3. come gli enunciati e a differenza delle parole, esse “producono” una indefinita quantità informativa
4. come gli enunciati e a differenza delle parole, le immagini sono entità attualizzate e non virtuali
5. come gli enunciati e a differenza delle parole, esse hanno significato solo parzialmente in relazione all’opposizione paradigmatica con altre immagini.
Nel senso che non esiste, tranne qualche rara eccezione, un significato convenzionale, arbitrario, per le immagini, così come, invece, avviene per i segni linguistici. Il rapporto tra, significato e significante nel cinema, è dato da una qualità analogica dell’immagine, rispetto all’oggetto rappresentato (torneremo in seguito su questa importante questione). Ma allora, si è chiesto Metz, la linguistica deve astenersi dall’analisi cinematografica? In realtà il compito dello studio del linguaggio cinematografico spetta alla semiologia, di cui la linguistica non è che una parte importante, come lo stesso Saussure aveva ampiamente dimostrato.
Ed è proprio alla semiologia che si è appellato Pasolini. Poiché, infatti, il cinema comunica “vuole dire che anch’esso si fonda su un patrimonio di segni comune”. Non esistono solamente segni linguistici, il vivere quotidiano è un pullulare di incroci di segni, appartenenti a sistemi differenti, “infatti una parola (linsegno) pronunciata con una data faccia ha un significato, pronunciata con un’altra faccia ha un altro significato”. Per Pasolini, ogni sistema di segni, ad esempio il sistema di segni mimici, è isolabile e analizzabile autonomamente. Ma, andando oltre, egli ha presupposto l’astratta possibilità di considerare il coacervo di intrecci dei sistemi di segni visivi, come un unico sistema, il quale rappresenterebbe la possibilità su cui si fonda l’esistenza del linguaggio cinematografico, “di essere presupponibile per una serie di archetipi comunicativi naturali”.
Infatti, lo spettatore é, allo stesso tempo, abituato a decodificare la realtà che lo circonda nello stesso identico modo. La mimica, la gestualità, la fisiognomica, la segnaletica, tutte cose “cariche di significato” che ci permettono di decifrare la realtà, nel vivo e sullo schermo. Ma c’é di più, ha asserito Pasolini: l’uomo e la donna vivono immersi in un universo che trova nelle immagini significanti l’unica forma espressiva, come il mondo dei sogni e della memoria. Pasolini definisce tali immagini significanti, gli im-segni. Quindi se l’autore cinematografico non può, come fa lo scrittore, prendere i suoi significanti dal dizionario, egli deve prendere i suoi im-segni dal “caos, dove sono mere possibilità”. In realtà la sua operazione è doppia:
1. deve prendere i suoi im-segni significativi dal caos come se esistesse un dizionario
2. come uno scrittore, deve aggiungere all’im-segno morfologico una qualità espressiva personale
Già Metz aveva riconosciuto la “naturale” espressività di quegli elementi che danno vita al linguaggio cinematografico, ad esempio quando scriveva che il dinamismo narrativo ci permette di comprendere sempre il significato di un film “poiché ci parla in termini di immagini del mondo e di noi stessi” [Metz, 1968 ,68]. Lo stesso Astruc, con la sua suggestiva concezione della camera-stylo, non aspirava ad altro che a rivendicare una libertà espressiva fuori dai canoni della cine-lingua, che si fondasse su un “vocabolario” “costruito dagli aspetti stessi delle cose, la pasta del mondo”. La stessa pratica, più volte citata, di autori come Rossellini, Robbe-Grillet ecc. si è mossa nella stessa direzione. Ma tutta la nuova ondata che, dal pensiero di Bazin in poi, ha teorizzato e praticato la fine del montaggio, in fondo ha assunto tale posizione di affermare l’esistenza di un nuovo linguaggio basato sulla naturalità delle immagini. Mitry, però, aveva più volte messo in guardia dalle esagerazioni che scaturivano dal pensare un cinema privo di montaggio. La pura fusione tra significato e significante, la pura analogia, non definiscono, da soli, il cinema, semmai ne specificano l’aspetto fotografico. Esiste poi un gioco di ellissi, rimandi, simboli, metafore, metonimie, che ricostruiscono una distanza tra significato e significante, che fonda il linguaggio cinema [Mitry, 1963].
Evidentemente Pasolini, come vedremo, non è stato d’accordo con una tale mitigazione, non seguendo neanche Metz, quando questi ha concentrato la sua attenzione sulla grande sintagmatica, non individuando un codice sottostante. Pasolini su questo, invece, ha deciso d’impegnarsi a fondo. Egli ha cercato di basare questo codice dei codici sui suoi im-segni, intesi come ricadenti nella sfera dei fatti biologici, primitivi, istintivi, pre-razionali e come opposti al mondo dei fatti razionali, astratti, convenzionali della lingua. In ciò consiste il linguaggio poetico del cinema, in questa sua forte correlazione con gli “archetipi naturali comunicativi”. Ha assolutamente ragione Costa nel riconoscere in questo atteggiamento il tema dell’incontro con la materialità fisica, dell’essenzialità dell’esistere della prima esperienza poetico-dialettale e pittorica di Pasolini [Costa, 1993].
L’autore di cinema non ha una convenzione secolare da assecondare o da contraddire. Le convenzioni sono poche e appena decennali, e possono essere violate senza scandalo: “i vestiti degli anni trenta, le motovetture degli anni cinquanta…: sono tutte cose senza etimologia”. Eppure se gli im-segni non hanno forti convenzioni alle spalle, né una grammatica, essi, secondo Pasolini, sono un patrimonio comune. Ogni oggetto, ogni azione, ogni elemento della realtà ci dice qualcosa, “gli oggetti bruti [… sono abbastanza significanti in natura per diventare segni simbolici” e sebbene essi siano privi di una storia grammaticale, hanno una ricca storia pre-grammaticale. Tutto ciò assicura al linguaggio cinematografico una poeticità che è stata soffocata storicamente da una tradizione culturale prosaico-narrativa, ma che grazie al “nuovo cinema” sta inesorabilmente riaffiorando. L’apparente forma naturalistica ed oggettiva del cinema racchiude, anzi, una contraddizione. Gli im-segni contengono al loro interno sia archetipi soggettivi (quelli del sogno e della memoria), quindi appartenenti alla sfera della poeticità, sia archetipi oggettivi (mimica, ecc.) molto diversi, di natura pragmaticamente funzionale.
D’altronde la stessa selezione degli im-segni avviene sulla base di una doppia natura. Una soggettiva, data dalla scarsa istituzionalizzazione del “dizionario” da cui l’autore attinge, l’altra oggettiva data da una minima forma di istituzionalizzazione di una certa quantità di stilemi, dovuta al carattere di massa dal mezzo. Quindi, ha ricordato Pasolini, esiste una natura doppia delle immagini, simile a quella della parola, che può dare vita sia alla prosa che alla poesia. Solo in casi limite (vd. surrealismo) la poeticità è inequivocabile. Comunque sia, la massima, espressione di questa riscoperta poetica, di questa nuova volontà di sfruttare massimamente la natura profondamente poetica del cinema, è data, per Pasolini dall’uso della “soggettiva libera indiretta”.
(fine prima parte)
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2000/10/pasolini-nellera-di-internet-i/
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