"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini nell’era di Internet (V)
Di Guido Nicolosi
Indice:
5. Reale e virtuale (ancora i corpi e i luoghi?)
5.1 I luoghi
Cominciamo col ricordare che i dubbi sul potere di distruzione del reale attribuiti alla nuova tecnologia, specie nella sua massima punta, la realtà virtuale, spesso sono privi di una coscienza critica di tipo storico. Siamo, cioè, sicuri che la fagocitazione del reale sia un processo iniziato coll’avvento del computer? Di ben altra opinione è Paolo Vidali. Egli, giustamente, ci ricorda che è stata la televisione (feticcio di odio/amore di Pasolini, aggiungo io) a creare le condizioni necessarie per la realizzazione di quella commistione tra falso e vero, tra reale e non, che rappresenta la necessaria premessa tecnico-culturale per l’affermazione delle attuali realtà virtuali. Se, infatti, il cinema (feticcio di solo amore, questa volta, per Pasolini) ha rappresentato sempre un’esperienza tra reale e virtuale (1)
realizzata nell’ambito di una netta distinzione tra “dentro” e “fuori”, altrettanto non possiamo dire della televisione. Andare al cinema ha sempre significato individuare uno “spazio riservato”, riconoscere una soglia che separa il quotidiano dal temporaneo diegetico. Allo stesso modo, la percezione cinematografica, in quanto percezione orientata, si concretizza in attenzione e concentrazione. Inoltre, la scelta del cinema è sempre una scelta mirata, cioè implica una decisione, “un prima e un poi”; c’é a monte una selezione consapevole e deliberata del tempo e dello spazio nel nostro vissuto quotidiano. Tutto ciò è ribaltato nella visione (canonica) della televisione. Essa è un medium diffusivo, non richiede né soglie, né spazi specifici: abita la casa e non stanze particolari. Spesso la televisione si guarda distrattamente, con la luce accesa e non necessariamente in un tempo determinato. Se spazio e tempo non sono selezionati, anche la scelta testuale è spesso irrilevante. Anche dal punto di vista terminologico è chiara la distinzione: io al cinema guardo un film , ma a casa guardo la televisione. La diffusività della tv ha comportato il suo “accasamento”. Essa è divenuta il nostro “rumore di fondo” o la nostra “colonna sonoro-visiva” o “lo spazio-tempo domestico”, il nostro “paesaggio casalingo”. Così la televisione ha “profanato lo spazio della rappresentazione, segnato dal cinema, [...]” e così ha distrutto, divenendo familiare, la barriera della distinzione tra il reale e la sua rappresentazione, tra il linguaggio e il mondo. Il virtuale, che oggi tanto decantiamo, rappresenta la radicalizzazione di questo processo di occultamento del medium. La televisione prima, la nuova tecnologia dopo, hanno dissolto il medium rendendolo habitat. Ha scritto Vidali: “La prima colonizza ogni spazio dell’esperienza comune fino quasi a dissolvere la distinzione tra ambiente quotidiano e ambiente audiovisivo. La seconda offre a questa pervasività l’ultimo passaggio, cioè l’identità di mondo e ambiente info-audiovisivo” [Vidali, 1993, 305]. É chiaro, quindi, che la virtualizzazione del reale si inquadra all’interno di un contesto più generale di medializzazione del reale. Fatte salve, quindi, tutte le già citate differenze tra i media tradizionali (dove l’utente sente di essere guardato negli occhi, ma di essere comunque privo di volto), e i nuovi media (privi di referente reale, ma particolarizzanti l’esperienza), possiamo concordare che un filo rosso esiste e che estremizzare troppo le differenze e non notare le relazioni, non aiuta. D’altronde, Joshua Meyrowitz, in un testo ormai mitico, ha abbondantemente dimostrato la capacità dei media tradizionali, televisione in testa, di portare l’essere umano oltre il senso del luogo [Meyrowitz, 1985]. Usando le categorie teoriche di McLuhan e di Goffman, Meyrowitz ha analizzato il cambiamento dell’ “arredamento percettivo” della mente umana dopo l’avvento dei media elettronici. La percezione dello spazio è mutata e con essa, conseguentemente, la percezione del tempo. Le relazioni interpersonali non hanno potuto, come sappiamo, che risultarne stravolte e ciò con conseguenze radicali sull’emersione di nuovi comportamenti, nuove identità, nuove interpretazioni dell’autorità e della politica. Il luogo, lo spazio, il corpo, tutte le categorie centrali del mondo pasoliniano hanno assunto quindi una valenza diversa già con l’avvento del medium per eccellenza; cosa accade con il vericarsi della radicalizzazione dei suoi effetti ad opera dei nuovi media?
Potremmo dire che le strade di Pasolini, così colme di un’umanità brulicante e per sua natura oppositiva perché marginale, oggi si sono trasformate in autostrade, informatiche, ma non solo. Le strade, come abbiamo visto, erano luogo d’incontro tra i corpi, una corporeità rivoluzionaria; le autostrade informatiche, ma già le stesse autostrade fisiche, rappresentano ciò che potremmo definire antropologicamente dei non-luoghi privi di corpi. Riccardo Staglianò, parlando di Internet, parla della Rete come di una promessa di Utopia. Come l’isola che non c’é di Thomas More, anche la Rete è un non-luogo, uno “spazio reale oltre lo schermo”, come ha scritto William Gibson. Si tratterebbe, per molti ottimisti, di un’utopia che realizza un’altra utopia: la democrazia. Potere ed informazione sinonimi dell’oggi sarebbero trasformati, in quest’utopia, in partecipazione e decentramento [Staglianò, 1996]. Sempre in relazione ai rapporti tra non-luogo e potere, dubbi di tipo opposto si sono posti, come abbiamo precedentemente detto, Berretti e Zambardino. Riferendosi, in particolare, al telelavoro e alla telepresenza, essi si sono chiesti qualcosa di molto rilevante. La società globale, resa possibile dalla telematica, verosimilmente renderà difficile l’ingabbiamento delle idee; io potrò sapere, restando a casa, cosa accade la mattina a Berkeley e quale nuovo libro è uscito a Tokyo la sera. Ma questo nuovo essere umano, informato fino all’estremo, che possibilità avrà, chiuso nei non-luoghi, di uscire e fare pesare la sua volontà? Dove saranno, in una futuristica società telematica, i luoghi del potere dove avranno un peso le mie idee? Oggi non sembra delinearsi una risposta convincente. Appare all’orizzonte una società solipsistica in cui si realizza all’estremo la cosiddetta “disfunzione narcotizzante”, in cui l’individuo gratifica se stesso e la propria coscienza attraverso un’informazione esasperata. Una gratificazione mediatica che esenta, questo futuro essere isolato, atomo pascoliano, da qualsiasi conseguente azione di contrattazione sociale. Credo utile, a tale proposito ricordare ciò che gli autori hanno scritto: “Cosa significheranno i diritti sindacali, intesi come manifestazione della rappresentanza collettiva sul luogo di lavoro, in un’organizzazione nella quale ognuno sarà di fatto solo ed in rapporto diretto con una gerarchia intangibile che potrà giudicarlo senza dovergliene in nessun modo rendere conto ?” [Berretti e Zambardino, 1995]. Si pongono, con le dovute differenze, problemi analoghi a quelli relativi alla riduzione del tempo di lavoro. Una riduzione che, come sappiamo, dovrà essere accompagnata dalla parcellizzazione dei turni di lavoro, e dove il sindacato si vedrà erodere la possibilità di conglobare in modo collettivo le energie di una forza lavoro sempre più frammentata. In entrambi i casi si richiede una trasformazione radicale della funzione del sindacato, sempre più adibito ad un ruolo di formazione di coscienza collettiva del cittadino, più che del lavoratore, in una società in cui il lavoro in senso tradizionale conterà sempre meno. Ma qui la questione si pone soprattutto nel senso di cercare di individuare fisicamente un luogo, uno spazio, un tempo di coagulazione collettiva degli interessi e un luogo fisico verso cui indirizzare, come luogo deputato allo scontro politico ed economico, la propria forza contrattuale.
Marc Augé, invece, in un’intervista (Manifesto del 26/5/1995) ci ha parlato della sua “surmodernità”, fortemente intrisa di “solitudini prive di luoghi”. La surmodernità è una variante, o meglio, un’alternativa terminologica al termine: post-moderno. Augé, però, tiene a ribadire che non si tratta di una effimera questione formale, bensì di una questione di sostanza. Il termine post-moderno, per Augé, denota una mancanza di chiarezza, un volere rinchiudere genericamente una multiforme serie di fenomeni nel suggerimento che siamo in un epoca al negativo, dove il movimento si è fermato. É come se si capitolasse dinnanzi l’impossibilità di capire ciò che segue l’esplosione (o implosione) della modernità intesa come fondata sull’idea di progresso. La surmodernità, invece, rimanda, concettualmente, ad un eccesso e non ad una mancanza. Siamo di fronte, dice l’etnologo francese, ad un “sovraccarico di avvenimenti che affollano il presente, dal paradossale effetto di restringimento del pianeta conseguente alla globalizzazione delle informazioni, alla moltiplicazione delle immagini e dei punti di riferimento individuali”. Individualismo e massificazione mediatica, in questo contesto, hanno, come contraltare, l’esasperata ricerca di identità nei particolarismi e nelle micro-unificazioni. Anche Meyrowitz aveva messo in relazione questi due fenomeni apparentemente contrapposti, ma in realtà l’uno causa dell’altro. Peculiarità di questa surmodernità degli eccessi (l’eccesso è, qui, più determinante che non la crisi dell’idea di progresso) sono le cosiddette “comunità simulate”, le quali vivono all’interno dei non-luoghi. I non-luoghi, quest’altra importante metafora dell’oggi, nell’antropologia del quotidiano di Augé, danno forma alla più emblematica esteriorizzazione emotiva del moderno: lo spaesamento. Essi sono, innanzi tutto, gli spazi della circolazione veloce: autostrade, svincoli, aeroporti, centri commerciali, mezzi di trasporto, campi profughi. Sono i luoghi tipici di una società di pieno sviluppo capitalistico e Pasolini aveva ragione nel dire, seguendo Marx, che “il capitalismo produce umanità” (umanità?). Sono luoghi privi di una memoria. La storia non è ammessa, essendo coniugabile solo il presente (non è un caso che Negroponte si sia scagliato contro l’inutilità della storia). Le relazioni d’identità non sono possibili ed il contratto è l’unica forma relazionale. La solitudine è la grande madre di queste comunità non organiche, dove Durkheim sarebbe rabbrividito nel vedere realizzati tutti i suoi timori di smembramento sociale. Tra questi spazi, che si presentano a noi “sotto forma di relazioni di dislocazione”, Augé inserisce anche i luoghi “più astratti” della comunicazione; quegli spazi che ci permettono, magari e al di là della possibilità di agire fisicamente, di “mettere la propria carta di credito in una macchina nel continente americano e di avere immediatamente l’estratto del proprio conto depositato in Europa”. La vita mediata dalle immagini reali (2) o virtuali, ma prive di un possibile contatto fisico, ha così impregnato la nostra “genetica” culturale che anche quando potremmo toccare e vivere corporalmente il quotidiano, preferiamo optare per la sua rappresentazione astratta. É l’esempio, dice Augé, del turista-massa, che si impegna solo a produrre, con la macchina fotografica o la cinepresa, immagini che potrà vedere dopo in un asettico e rassicurante tinello di casa. Quindi, spesso, il non-luogo non è un’oggettiva imposizione sociale, ma una culturale (a livello, dunque, indiretto) disposizione a vivere la realtà in forma mediata. Che Wim Wenders (ma anche Antonioni) avesse ragione a raffigurarci, nella sua arte, così come nella scienza fa Marc Augé?
Sempre in relazione alla questione della proiezione dell’individuo post-moderno in una dimensione che va oltre il senso del luogo, interessante è l’elaborazione teorico-urbanistica di Alberto Magnaghi. Come sarà facile capire, però, la chiave di lettura, per questo autore, è profondamente diversa da quelle fin qui passate in rassegna. Per Magnaghi la telematica, lungi dal rappresentare un pericolo, deve essere considerata come l’unica carta della nostra società veramente valida per una riscoperta del luogo [Magnaghi, 1995]. Egli comincia il suo ragionamento con una semplice, ma efficace provocazione: la città, che molti intendono salvare dalla sparizione, provocata dallo sviluppo delle relazioni informatiche, è già scomparsa. La città, intesa come luogo fisico contenitore del vissuto sociale collettivo, è scomparsa nella misura in cui la macchina moderna ha trasformato i luoghi in spazi. Il luogo, seguendo in questo Augé, viene inteso come esistente solo nella condizione di una fitta connessione col tempo. In questo senso, il luogo è strettamente collegato alla nozione di territorio. Questo viene definito come “l’esito di un lungo processo storico, un territorio che non esiste in natura e che contiene il tempo dentro di sé”. Si parla, naturalmente, di un’interazione complessa tra la società ed il suo sviluppo storico e la natura. Il territorio, cioè, è un prodotto antropico, “esito di più processi di civilizzazione”. Ognuno di tali processi mirava, nel rispetto della memoria del passato, al recupero e all’incorporamento dei vecchi modelli territoriali ed urbani nei nuovi, anche se radicalmente nuovi. Magnaghi, da urbanista, fa l’esempio della viabilità romana che è rimasta fino ad oggi come struttura fondativa. É nel territorio, quindi nei luoghi, che ritroviamo la memoria ed il nostro rapporto con la storia. La società moderna ha dato vita al più radicale processo di deterritorializzazione mai avvenuto nella storia dell’umanità. Un processo violento i cui esiti ambientali e umani sono sotto gli occhi di ognuno di noi. Trasformare i luoghi in spazi ha significato non prendere in considerazione la memoria dei luoghi e operare su questi seguendo unicamente degli scopi funzionali e produttivi. Nel passaggio dal luogo allo spazio si è invertito un modello di relazione con il mondo. Il rapporto essere vivente/natura è stato sostituito da quello essere vivente/macchina-di-produzione. La città e con essa i tempi, l’emotività ecc. sono stati subordinati alle relazioni produttive e al funzionalismo di tipo lineare, sequenziale, razionale e seriale. “Costruire un quartiere dormitorio sopra un ex-paese che ha mille, duemila anni di storia significa cancellare la Storia”, e con essa le relazioni umane che su di essa si erano costruite. Edificare un centro commerciale sopra una piazza significa subordinare la razionalità di quel luogo a quella di un sistema produttivo di tipo fabbrica-macchina. Tutto ciò ha provocato una nostalgia dei luoghi come ricerca di ricostruzione di una recisa relazione profonda con l’identità storico-culturale. Due, dice Magnaghi, sono le possibili strade da imboccare, fermo restando che è impossibile tornare all’età pre-seicentesca (cioè prima dell’inizio di questo immane processo di deterritorializzazione). La prima consiste nello spingere fino all’estremo questo processo di deterritorializzazione mediante una dinamica di assoluta artificializzazione del mondo. É questa la situazione in cui tanti individui ricreerebbero la vechia vivibilità all’interno delle macchine della virtualità. La povertà ambientale e sociale degli squallidi spazi moderni, in questo scenario, sarebbero lo sfondo scenografico di un individuo solo, rinchiuso nel proprio appartamento, ma in grado, con la Rete, di sublimare la propria frustrazione nel “meraviglioso mondo telematico”. La seconda possibilità, quella auspicata da Magnaghi, consiste nello sfruttare al massimo le potenzialità della telematica per riscoprire e ricostruire i luoghi e la loro fisicità senza rinunciare a quei privilegi che lo sviluppo tecnologico e sociale della modernità comunque, a caro prezzo, ci ha assicurato.
La proposta concreta che fa Magnaghi è quella di abbandonare l’idea dello sviluppo delle megalopoli e di dare vita, grazie alla telematica, a delle reti integrate di piccole città. Riscoprire la dimensione piccola o media per ridare luce ad un vissuto fitto di relazioni umane in cui le piazze reali, i luoghi e la loro storia carica d’umanità, diventino di nuovo il fulcro di una rivalorizzazione dell’affettività, della convivialità, della democrazia, della discussione e della municipalità: in altre parole riterritorializzare. In questo scenario la telematica permetterebbe un’integrazione di tipo metropolitano in grado di assicurarci la soddisfazione di tutti i bisogni cosmopoliti, globali dell’individuo moderno. La linearità dello sviluppo moderno verrebbe sostituita dalla integrazione delle piccole diversità. L’alternativa sarebbe la conurbazione metropolitana o, nel terzo mondo, le baraccopoli in cui ogni baracca è dotata di computer. Per Magnaghi bisogna scegliere tra una telematica intesa come sublimazione, come fuga artificiale dalla realtà ed una telematica che aiuta la realtà e la sua fisicità ad essere riscoperta. Annullando le distanze e la fatica omologanti potremmo concentrarci a rivalorizzare le piccole cose concrete e materiali che ci stanno vicino. Questa è la proposta “ecologica” che può permettere, secondo l’autore, di abbandonare, inoltre, l’accezione negativa del concetto di territorializzazione, intesa come scontro tra “energie da contraddizione”, come esplosione “nel mondo delle identità”. É ciò che è avvenuto nella ex-Jugoslavia, è ciò che, in forme diverse, potrebbe accadere nelle nostre culture se, accanto agli inevitabili processi di spersonalizzazione ed omologazione delle identità non si penseranno meccanismi di riscoperta di queste identità, della loro integrazione “gentile” e mitigata con altre identità. Questo auspicio potrebbe materializzarsi abbandonando gli spazi (non-luoghi) e ritornando a popolare i luoghi intrisi di memoria, grazie all’integrazione telematica.
Già quest’ultimo contributo di Magnaghi (ma ne troveremo altri) ci fa capire che l’opposizione netta tra reale e virtuale è più una trovata giornalistica che una condizione effettiva. L’opposizione andrebbe sfumata. Anche il virtuale può aiutare il reale ad essere rivalutato, in un contesto, il nostro, caratterizzato da un forte degrado del reale stesso. E se alla fine del nostro percorso scoprissimo che la nuova tecnologia potrebbe addirittura esaltare il reale pasoliniano?
Per il momento atteniamoci al nostro compito e continuiamo a passare in rassegna i contributi più interessanti.
Sicuramente fondamentale è il brillante contributo di Paul Virilio. La luce e la velocità sono i punti di riferimento, esistenziali oserei dire, da cui prende avvio la sua eclettica analisi [Virilio, 1989]. Secondo Virilio, innanzi tutto, l’età moderna si è caratterizzata per il ruolo centrale che la luce ha avuto. Una centralità dovuta essenzialmente al desiderio di trasparenza per alcuni, di controllo per altri (il potere). è stato tale duplice desiderio che ha permeato gli eventi più importanti della nostra storia.
La nascita della Ville lumiere, così come il secolo dei lumi, trovarono certamente un perno essenziale proprio nel binomio ideologico “clarté et sureté”. Spazio pubblico e, poi, spazio privato furono il fulcro di un’attenzione mirata all’illuminazione, alla trasparenza e al potere di controllo assoluto (si pensi alla rivoluzione francese e all’ “occhio” della polizia rivoluzionaria). Un voyeurismo esistenziale che ha trovato nell’invenzione del cinema, alla fine dell’ottocento, il suo sbocco naturale; e forse più nobile dato che spesso tale voyeurismo veniva mosso dalla volontà di potenza politica oltre che dalla richiesta di dare vita ad un nuovo sapere positivo illuminato ed illuminante. Cioè, dalla disamina storico-filosofica di Virilio, si capisce che il bene ed il male sono stati intrecciati in un’inseparabile commistione e per tale motivo, scienza, arte e cultura da una parte, crescita del quarto potere e desideri polizieschi dall’altra, sono stati i figli legittimi di una stessa madre rivoluzionaria: la luce. Allo stesso modo, la luce è stata la protagonista incontrastata, in epoche più recenti, di un’altra grande avventura rivoluzionaria: la relatività. Virilio, giustamente, ci ricorda che Einstein, mettendo in crisi la fisica classica, ha dimostrato che il tempo e lo spazio sono delle forme d’intuizione e come tali non separabili dalla nostra coscienza, come avviene per le altre forme d’intuizione quali il colore o la dimensione ecc.. La teoria della relatività ristretta, ma anche allargata, ha distrutto ogni carattere assoluto ad eccezione di uno: la luce o meglio la sua velocità. Le categorie di spazio e tempo si sono relativizzate e la luce (la sua velocità) ci serve come vero strumento per “vedere, per concepire più o meno nettamente”. Cosa ha significato tutto ciò? E=mc² ha significato, di fatto, la “disintegrazione nucleare dello spazio della materia”. “La frequenza tempo della luce è diventata un fattore determinante dell’appercezione dei fenomeni, a scapito della frequenza spazio della materia”.
É facile interpretare il significato di tale mutamento, riferendolo allo sviluppo delle comunicazioni moderne. Cinema, radio, televisione, informatica, telematica, un tripudio di potenza per la luce e la sua velocità, i veri nuovi immateriali supporti della comunicazione umana e, secondo Virilio, del controllo sociale. Ancora una volta, la luce si ripropone come il perno centrale di progresso e potere. É qui che Virilio parla del paradosso logico “dell’immagine in tempo reale che domina la cosa rappresentata, il tempo che vince sullo spazio reale. La virtualità che domina l’attualità, sconvolgendo la nozione stessa di realtà”. L’unico assoluto scientifico è rintracciabile nella velocità della luce; la velocità, nella versione quotidiana e tangibile della relatività, intesa come rapporto tra due fenomeni relativi come lo spazio e il tempo, è il nuovo assoluto. Virilio, allora, propone una nuova scienza, la dromologia, in grado di potere studiare la nuova forma di inquinamento della realtà: la contaminazione dello spazio-tempo del pianeta terra. L’impatto del “tempo macchina” sull’ambiente umano richiede la messa a punto di una vera sociologia che studi il ritmo e le velocità delle società. Il mondo, in seguito allo strapotere dei mezzi di comunicazione e di telecomunicazione, ha subito una riduzione ad un’ “ampiezza residuale dell’estensione”. Il mondo “esterno” è finito e si è creato un nuovo orizzonte “trans-apparente” figlio dell’amplificazione ottica, elettro-ottica ed acustica. Ciò che la fotografia ci insegna empiricamente è che il nuovo dittatore della modernità è il “tempo-luce” (nella fotografia impariamo, infatti, il potere del tempo d’esposizione) ed il suo conseguenziale eterno presente. La velocità si è affermata grazie a due processi fondamentali: la rivoluzione dei trasporti nel XIX secolo che ha intaccato la nozione tradizionale di spazio; l’affermazione delle tecnologie di comunicazione che utilizzano la velocità della luce tramite l’elettronica. La sovrapposizione sinergica di queste due rivoluzioni ha modificato il concetto stesso di movimento. I tre tradizionali termini costitutivi del movimento (partenza, viaggio, arrivo) si sono ridotti ad un solo termine: l’arrivo. Noi, dice Virilio, viviamo nell’era dell’arrivo generalizzato. Le teletecnologie hanno provocato la fine del mondo reale, lo spazio reale cede di fronte al tempo reale. Il mondo di cui parla Virilio è il mondo del senso della materia e del luogo del diritto, della politica e “del luogo tout court”: “Noi stiamo perdendo il mondo a causa della velocità, poiché essa riduce sempre di più l’ambiente mondiale ad un niente”. L’essere umano, per muoversi in un mondo virtuale, ha visto progressivamente ridurre il proprio corpo in un modello super-attrezzato di protesi, come quello di un handicappato per muoversi nel mondo reale. La città e gli stati-nazione sono stati sostituiti dal villaggio globale che, però, per Virilio, è semplicemente un ghetto nato dalla contrazione dello spazio. Siamo, cioè, di fronte alla più grande incarcerazione della storia dell’umanità, dove la prima a cedere, in questo lager, è la società civile. Il cittadino, infatti, ha perso il contatto con le istituzioni, il rapporto con il potere. Si è affermato un nuovo territorio mondiale sovranazionale, non controllabile democraticamente, in cui il potere è assoluto e “trans-politico”. Virilio, evidentemente, rievoca Orwell ed il grande fratello in un contesto sociale privato dello spazio pubblico, tradizionale luogo della politica come l’agorà ateniese, in favore di uno spazio virtuale, circo della simulazione, che si ripiega sul privato. Virilio parla della disintegrazione della tradizionale organizzazione sociopolitica. Al classico “complesso industriale e politico” si sovrappone un nuovo “complesso informatico e metropolitico, legato all’onnipotenza della velocità assoluta delle onde elettromagnetiche [...] di cui il sistema borsistico odierno, automatizzato e mondializzato, è diventato il principale sintomo clinico”. É, la nostra, una società dromocratica, dove la velocità significa ricchezza e potere e le guerre “intelligenti”, guerre combattute dalla “macchina che vede”, ne sono l’esempio più eclatante. Guerre che, se una volta erano fondate sulla dissuasione, oggi si fondano sulla simulazione. Siamo dappertutto senza esserci veramente, dando vita al paradosso della riunione a distanza. Il luogo del diritto è scomparso e allo spazio topico si è sostituito “lo spazio tele-topico”, in cui il tempo reale ha il sopravvento sullo spazio reale e l’evento è sostituito dalla sua immagine di rappresentazione. Il principio di realtà è dominato dal tempo-luce, unico vero fattore dell’”appercezione relativistica”. Alla domanda: “La fisica contemporanea abolisce il reale?”, Virilio risponde: “Abolirlo, no di sicuro! Risolverlo, certamente, ma nel senso in cui oggi si parla di una migliore “risoluzione dell’immagine”".
Malgrado le divergenze, Franco Berardi (Bifo) assume un punto d’analisi assai vicino a quello di Virilio. Anche per Berardi la società attuale è dominata dal regime della velocità assoluta, cioè, di fatto, dalla teletrasmissione delle immagini in tempo reale. Berardi (Bifo) ricorda che la società di ieri è stata dominata dall’accelerazione della velocità e dal potere dell’automobile e del trasporto su strada; potere che ha reso possibile lo sviluppo metropolitano e dei suoi portati infrastrutturali (strade, autostrade, ecc.). Oggi, quest’accelerazione significa velocità assoluta, velocità della luce e sua applicazione elettronica, cioè la cosiddetta conurbazione elettronica. Ciò ha provocato, nel primo mondo, il blocco dell’espansione delle megalopoli e le prime esperienze di dematerializzazione della città e della sfera pubblica. Bologna, ad esempio, è uno di questi tentativi di digitalizzazione della polis. Ma, è questo il nodo affrontato dall’autore, lungi dal significare, ciò, il confinamento definitivo della vita umana nella sfera dell’immateriale, gli uomini e le donne continuano a vivere una contraddittoria e schizofrenica doppia esistenza. Essi si dividono tra materiale ed immateriale, provocando un “nervosismo sociale” in cui gioca un peso notevole proprio il fatto che la vita materiale non riesce a muoversi al ritmo veloce della vita immateriale. La vita metropolitana è dominata dal mito della velocità. Mito che non si è affermato solo a causa dei ritmi di lavoro e di non-lavoro, ma anche a causa dell’introiettamento dei ritmi di comunicazione. L’attesa comunicativa è diventata un inconcepibile “tempo morto”. La lentezza è divenuta un intollerabile disvalore. Ecco che la sistematica delusione delle attese e delle aspettative provoca stress, depressione, panico ecc. D’altronde, l’elettronica si presenta sempre più come la soluzione di un’esistenza dominata dall’impossibilità di vivere nella metropoli. In questa non è possibile fare qualcosa di diverso che dividere la propria esistenza tra il chiuso delle automobili ed il chiuso degli appartamenti. La morte dello spazio pubblico ha determinato la morte della socialità. Ma la liberazione degli spazi della città immateriale pone profondi problemi di democrazia. C’é chi, ottimisticamente, dice che la democrazia sarà salvaguardata dal semplice spostamento dei luoghi politici materiali nelle agorà elettroniche. É qui che Berardi dice: “le libere volontà sono [...] solo un’astrazione formale. In realtà il problema è chi controlla il mixer” [Berardi (Bifo), 1995].
(fine quinta parte)
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2001/03/pasolini-nellera-di-internet-v/
Potremmo dire che le strade di Pasolini, così colme di un’umanità brulicante e per sua natura oppositiva perché marginale, oggi si sono trasformate in autostrade, informatiche, ma non solo. Le strade, come abbiamo visto, erano luogo d’incontro tra i corpi, una corporeità rivoluzionaria; le autostrade informatiche, ma già le stesse autostrade fisiche, rappresentano ciò che potremmo definire antropologicamente dei non-luoghi privi di corpi. Riccardo Staglianò, parlando di Internet, parla della Rete come di una promessa di Utopia. Come l’isola che non c’é di Thomas More, anche la Rete è un non-luogo, uno “spazio reale oltre lo schermo”, come ha scritto William Gibson. Si tratterebbe, per molti ottimisti, di un’utopia che realizza un’altra utopia: la democrazia. Potere ed informazione sinonimi dell’oggi sarebbero trasformati, in quest’utopia, in partecipazione e decentramento [Staglianò, 1996]. Sempre in relazione ai rapporti tra non-luogo e potere, dubbi di tipo opposto si sono posti, come abbiamo precedentemente detto, Berretti e Zambardino. Riferendosi, in particolare, al telelavoro e alla telepresenza, essi si sono chiesti qualcosa di molto rilevante. La società globale, resa possibile dalla telematica, verosimilmente renderà difficile l’ingabbiamento delle idee; io potrò sapere, restando a casa, cosa accade la mattina a Berkeley e quale nuovo libro è uscito a Tokyo la sera. Ma questo nuovo essere umano, informato fino all’estremo, che possibilità avrà, chiuso nei non-luoghi, di uscire e fare pesare la sua volontà? Dove saranno, in una futuristica società telematica, i luoghi del potere dove avranno un peso le mie idee? Oggi non sembra delinearsi una risposta convincente. Appare all’orizzonte una società solipsistica in cui si realizza all’estremo la cosiddetta “disfunzione narcotizzante”, in cui l’individuo gratifica se stesso e la propria coscienza attraverso un’informazione esasperata. Una gratificazione mediatica che esenta, questo futuro essere isolato, atomo pascoliano, da qualsiasi conseguente azione di contrattazione sociale. Credo utile, a tale proposito ricordare ciò che gli autori hanno scritto: “Cosa significheranno i diritti sindacali, intesi come manifestazione della rappresentanza collettiva sul luogo di lavoro, in un’organizzazione nella quale ognuno sarà di fatto solo ed in rapporto diretto con una gerarchia intangibile che potrà giudicarlo senza dovergliene in nessun modo rendere conto ?” [Berretti e Zambardino, 1995]. Si pongono, con le dovute differenze, problemi analoghi a quelli relativi alla riduzione del tempo di lavoro. Una riduzione che, come sappiamo, dovrà essere accompagnata dalla parcellizzazione dei turni di lavoro, e dove il sindacato si vedrà erodere la possibilità di conglobare in modo collettivo le energie di una forza lavoro sempre più frammentata. In entrambi i casi si richiede una trasformazione radicale della funzione del sindacato, sempre più adibito ad un ruolo di formazione di coscienza collettiva del cittadino, più che del lavoratore, in una società in cui il lavoro in senso tradizionale conterà sempre meno. Ma qui la questione si pone soprattutto nel senso di cercare di individuare fisicamente un luogo, uno spazio, un tempo di coagulazione collettiva degli interessi e un luogo fisico verso cui indirizzare, come luogo deputato allo scontro politico ed economico, la propria forza contrattuale.
Marc Augé, invece, in un’intervista (Manifesto del 26/5/1995) ci ha parlato della sua “surmodernità”, fortemente intrisa di “solitudini prive di luoghi”. La surmodernità è una variante, o meglio, un’alternativa terminologica al termine: post-moderno. Augé, però, tiene a ribadire che non si tratta di una effimera questione formale, bensì di una questione di sostanza. Il termine post-moderno, per Augé, denota una mancanza di chiarezza, un volere rinchiudere genericamente una multiforme serie di fenomeni nel suggerimento che siamo in un epoca al negativo, dove il movimento si è fermato. É come se si capitolasse dinnanzi l’impossibilità di capire ciò che segue l’esplosione (o implosione) della modernità intesa come fondata sull’idea di progresso. La surmodernità, invece, rimanda, concettualmente, ad un eccesso e non ad una mancanza. Siamo di fronte, dice l’etnologo francese, ad un “sovraccarico di avvenimenti che affollano il presente, dal paradossale effetto di restringimento del pianeta conseguente alla globalizzazione delle informazioni, alla moltiplicazione delle immagini e dei punti di riferimento individuali”. Individualismo e massificazione mediatica, in questo contesto, hanno, come contraltare, l’esasperata ricerca di identità nei particolarismi e nelle micro-unificazioni. Anche Meyrowitz aveva messo in relazione questi due fenomeni apparentemente contrapposti, ma in realtà l’uno causa dell’altro. Peculiarità di questa surmodernità degli eccessi (l’eccesso è, qui, più determinante che non la crisi dell’idea di progresso) sono le cosiddette “comunità simulate”, le quali vivono all’interno dei non-luoghi. I non-luoghi, quest’altra importante metafora dell’oggi, nell’antropologia del quotidiano di Augé, danno forma alla più emblematica esteriorizzazione emotiva del moderno: lo spaesamento. Essi sono, innanzi tutto, gli spazi della circolazione veloce: autostrade, svincoli, aeroporti, centri commerciali, mezzi di trasporto, campi profughi. Sono i luoghi tipici di una società di pieno sviluppo capitalistico e Pasolini aveva ragione nel dire, seguendo Marx, che “il capitalismo produce umanità” (umanità?). Sono luoghi privi di una memoria. La storia non è ammessa, essendo coniugabile solo il presente (non è un caso che Negroponte si sia scagliato contro l’inutilità della storia). Le relazioni d’identità non sono possibili ed il contratto è l’unica forma relazionale. La solitudine è la grande madre di queste comunità non organiche, dove Durkheim sarebbe rabbrividito nel vedere realizzati tutti i suoi timori di smembramento sociale. Tra questi spazi, che si presentano a noi “sotto forma di relazioni di dislocazione”, Augé inserisce anche i luoghi “più astratti” della comunicazione; quegli spazi che ci permettono, magari e al di là della possibilità di agire fisicamente, di “mettere la propria carta di credito in una macchina nel continente americano e di avere immediatamente l’estratto del proprio conto depositato in Europa”. La vita mediata dalle immagini reali (2) o virtuali, ma prive di un possibile contatto fisico, ha così impregnato la nostra “genetica” culturale che anche quando potremmo toccare e vivere corporalmente il quotidiano, preferiamo optare per la sua rappresentazione astratta. É l’esempio, dice Augé, del turista-massa, che si impegna solo a produrre, con la macchina fotografica o la cinepresa, immagini che potrà vedere dopo in un asettico e rassicurante tinello di casa. Quindi, spesso, il non-luogo non è un’oggettiva imposizione sociale, ma una culturale (a livello, dunque, indiretto) disposizione a vivere la realtà in forma mediata. Che Wim Wenders (ma anche Antonioni) avesse ragione a raffigurarci, nella sua arte, così come nella scienza fa Marc Augé?
Sempre in relazione alla questione della proiezione dell’individuo post-moderno in una dimensione che va oltre il senso del luogo, interessante è l’elaborazione teorico-urbanistica di Alberto Magnaghi. Come sarà facile capire, però, la chiave di lettura, per questo autore, è profondamente diversa da quelle fin qui passate in rassegna. Per Magnaghi la telematica, lungi dal rappresentare un pericolo, deve essere considerata come l’unica carta della nostra società veramente valida per una riscoperta del luogo [Magnaghi, 1995]. Egli comincia il suo ragionamento con una semplice, ma efficace provocazione: la città, che molti intendono salvare dalla sparizione, provocata dallo sviluppo delle relazioni informatiche, è già scomparsa. La città, intesa come luogo fisico contenitore del vissuto sociale collettivo, è scomparsa nella misura in cui la macchina moderna ha trasformato i luoghi in spazi. Il luogo, seguendo in questo Augé, viene inteso come esistente solo nella condizione di una fitta connessione col tempo. In questo senso, il luogo è strettamente collegato alla nozione di territorio. Questo viene definito come “l’esito di un lungo processo storico, un territorio che non esiste in natura e che contiene il tempo dentro di sé”. Si parla, naturalmente, di un’interazione complessa tra la società ed il suo sviluppo storico e la natura. Il territorio, cioè, è un prodotto antropico, “esito di più processi di civilizzazione”. Ognuno di tali processi mirava, nel rispetto della memoria del passato, al recupero e all’incorporamento dei vecchi modelli territoriali ed urbani nei nuovi, anche se radicalmente nuovi. Magnaghi, da urbanista, fa l’esempio della viabilità romana che è rimasta fino ad oggi come struttura fondativa. É nel territorio, quindi nei luoghi, che ritroviamo la memoria ed il nostro rapporto con la storia. La società moderna ha dato vita al più radicale processo di deterritorializzazione mai avvenuto nella storia dell’umanità. Un processo violento i cui esiti ambientali e umani sono sotto gli occhi di ognuno di noi. Trasformare i luoghi in spazi ha significato non prendere in considerazione la memoria dei luoghi e operare su questi seguendo unicamente degli scopi funzionali e produttivi. Nel passaggio dal luogo allo spazio si è invertito un modello di relazione con il mondo. Il rapporto essere vivente/natura è stato sostituito da quello essere vivente/macchina-di-produzione. La città e con essa i tempi, l’emotività ecc. sono stati subordinati alle relazioni produttive e al funzionalismo di tipo lineare, sequenziale, razionale e seriale. “Costruire un quartiere dormitorio sopra un ex-paese che ha mille, duemila anni di storia significa cancellare la Storia”, e con essa le relazioni umane che su di essa si erano costruite. Edificare un centro commerciale sopra una piazza significa subordinare la razionalità di quel luogo a quella di un sistema produttivo di tipo fabbrica-macchina. Tutto ciò ha provocato una nostalgia dei luoghi come ricerca di ricostruzione di una recisa relazione profonda con l’identità storico-culturale. Due, dice Magnaghi, sono le possibili strade da imboccare, fermo restando che è impossibile tornare all’età pre-seicentesca (cioè prima dell’inizio di questo immane processo di deterritorializzazione). La prima consiste nello spingere fino all’estremo questo processo di deterritorializzazione mediante una dinamica di assoluta artificializzazione del mondo. É questa la situazione in cui tanti individui ricreerebbero la vechia vivibilità all’interno delle macchine della virtualità. La povertà ambientale e sociale degli squallidi spazi moderni, in questo scenario, sarebbero lo sfondo scenografico di un individuo solo, rinchiuso nel proprio appartamento, ma in grado, con la Rete, di sublimare la propria frustrazione nel “meraviglioso mondo telematico”. La seconda possibilità, quella auspicata da Magnaghi, consiste nello sfruttare al massimo le potenzialità della telematica per riscoprire e ricostruire i luoghi e la loro fisicità senza rinunciare a quei privilegi che lo sviluppo tecnologico e sociale della modernità comunque, a caro prezzo, ci ha assicurato.
La proposta concreta che fa Magnaghi è quella di abbandonare l’idea dello sviluppo delle megalopoli e di dare vita, grazie alla telematica, a delle reti integrate di piccole città. Riscoprire la dimensione piccola o media per ridare luce ad un vissuto fitto di relazioni umane in cui le piazze reali, i luoghi e la loro storia carica d’umanità, diventino di nuovo il fulcro di una rivalorizzazione dell’affettività, della convivialità, della democrazia, della discussione e della municipalità: in altre parole riterritorializzare. In questo scenario la telematica permetterebbe un’integrazione di tipo metropolitano in grado di assicurarci la soddisfazione di tutti i bisogni cosmopoliti, globali dell’individuo moderno. La linearità dello sviluppo moderno verrebbe sostituita dalla integrazione delle piccole diversità. L’alternativa sarebbe la conurbazione metropolitana o, nel terzo mondo, le baraccopoli in cui ogni baracca è dotata di computer. Per Magnaghi bisogna scegliere tra una telematica intesa come sublimazione, come fuga artificiale dalla realtà ed una telematica che aiuta la realtà e la sua fisicità ad essere riscoperta. Annullando le distanze e la fatica omologanti potremmo concentrarci a rivalorizzare le piccole cose concrete e materiali che ci stanno vicino. Questa è la proposta “ecologica” che può permettere, secondo l’autore, di abbandonare, inoltre, l’accezione negativa del concetto di territorializzazione, intesa come scontro tra “energie da contraddizione”, come esplosione “nel mondo delle identità”. É ciò che è avvenuto nella ex-Jugoslavia, è ciò che, in forme diverse, potrebbe accadere nelle nostre culture se, accanto agli inevitabili processi di spersonalizzazione ed omologazione delle identità non si penseranno meccanismi di riscoperta di queste identità, della loro integrazione “gentile” e mitigata con altre identità. Questo auspicio potrebbe materializzarsi abbandonando gli spazi (non-luoghi) e ritornando a popolare i luoghi intrisi di memoria, grazie all’integrazione telematica.
Già quest’ultimo contributo di Magnaghi (ma ne troveremo altri) ci fa capire che l’opposizione netta tra reale e virtuale è più una trovata giornalistica che una condizione effettiva. L’opposizione andrebbe sfumata. Anche il virtuale può aiutare il reale ad essere rivalutato, in un contesto, il nostro, caratterizzato da un forte degrado del reale stesso. E se alla fine del nostro percorso scoprissimo che la nuova tecnologia potrebbe addirittura esaltare il reale pasoliniano?
Per il momento atteniamoci al nostro compito e continuiamo a passare in rassegna i contributi più interessanti.
Sicuramente fondamentale è il brillante contributo di Paul Virilio. La luce e la velocità sono i punti di riferimento, esistenziali oserei dire, da cui prende avvio la sua eclettica analisi [Virilio, 1989]. Secondo Virilio, innanzi tutto, l’età moderna si è caratterizzata per il ruolo centrale che la luce ha avuto. Una centralità dovuta essenzialmente al desiderio di trasparenza per alcuni, di controllo per altri (il potere). è stato tale duplice desiderio che ha permeato gli eventi più importanti della nostra storia.
La nascita della Ville lumiere, così come il secolo dei lumi, trovarono certamente un perno essenziale proprio nel binomio ideologico “clarté et sureté”. Spazio pubblico e, poi, spazio privato furono il fulcro di un’attenzione mirata all’illuminazione, alla trasparenza e al potere di controllo assoluto (si pensi alla rivoluzione francese e all’ “occhio” della polizia rivoluzionaria). Un voyeurismo esistenziale che ha trovato nell’invenzione del cinema, alla fine dell’ottocento, il suo sbocco naturale; e forse più nobile dato che spesso tale voyeurismo veniva mosso dalla volontà di potenza politica oltre che dalla richiesta di dare vita ad un nuovo sapere positivo illuminato ed illuminante. Cioè, dalla disamina storico-filosofica di Virilio, si capisce che il bene ed il male sono stati intrecciati in un’inseparabile commistione e per tale motivo, scienza, arte e cultura da una parte, crescita del quarto potere e desideri polizieschi dall’altra, sono stati i figli legittimi di una stessa madre rivoluzionaria: la luce. Allo stesso modo, la luce è stata la protagonista incontrastata, in epoche più recenti, di un’altra grande avventura rivoluzionaria: la relatività. Virilio, giustamente, ci ricorda che Einstein, mettendo in crisi la fisica classica, ha dimostrato che il tempo e lo spazio sono delle forme d’intuizione e come tali non separabili dalla nostra coscienza, come avviene per le altre forme d’intuizione quali il colore o la dimensione ecc.. La teoria della relatività ristretta, ma anche allargata, ha distrutto ogni carattere assoluto ad eccezione di uno: la luce o meglio la sua velocità. Le categorie di spazio e tempo si sono relativizzate e la luce (la sua velocità) ci serve come vero strumento per “vedere, per concepire più o meno nettamente”. Cosa ha significato tutto ciò? E=mc² ha significato, di fatto, la “disintegrazione nucleare dello spazio della materia”. “La frequenza tempo della luce è diventata un fattore determinante dell’appercezione dei fenomeni, a scapito della frequenza spazio della materia”.
É facile interpretare il significato di tale mutamento, riferendolo allo sviluppo delle comunicazioni moderne. Cinema, radio, televisione, informatica, telematica, un tripudio di potenza per la luce e la sua velocità, i veri nuovi immateriali supporti della comunicazione umana e, secondo Virilio, del controllo sociale. Ancora una volta, la luce si ripropone come il perno centrale di progresso e potere. É qui che Virilio parla del paradosso logico “dell’immagine in tempo reale che domina la cosa rappresentata, il tempo che vince sullo spazio reale. La virtualità che domina l’attualità, sconvolgendo la nozione stessa di realtà”. L’unico assoluto scientifico è rintracciabile nella velocità della luce; la velocità, nella versione quotidiana e tangibile della relatività, intesa come rapporto tra due fenomeni relativi come lo spazio e il tempo, è il nuovo assoluto. Virilio, allora, propone una nuova scienza, la dromologia, in grado di potere studiare la nuova forma di inquinamento della realtà: la contaminazione dello spazio-tempo del pianeta terra. L’impatto del “tempo macchina” sull’ambiente umano richiede la messa a punto di una vera sociologia che studi il ritmo e le velocità delle società. Il mondo, in seguito allo strapotere dei mezzi di comunicazione e di telecomunicazione, ha subito una riduzione ad un’ “ampiezza residuale dell’estensione”. Il mondo “esterno” è finito e si è creato un nuovo orizzonte “trans-apparente” figlio dell’amplificazione ottica, elettro-ottica ed acustica. Ciò che la fotografia ci insegna empiricamente è che il nuovo dittatore della modernità è il “tempo-luce” (nella fotografia impariamo, infatti, il potere del tempo d’esposizione) ed il suo conseguenziale eterno presente. La velocità si è affermata grazie a due processi fondamentali: la rivoluzione dei trasporti nel XIX secolo che ha intaccato la nozione tradizionale di spazio; l’affermazione delle tecnologie di comunicazione che utilizzano la velocità della luce tramite l’elettronica. La sovrapposizione sinergica di queste due rivoluzioni ha modificato il concetto stesso di movimento. I tre tradizionali termini costitutivi del movimento (partenza, viaggio, arrivo) si sono ridotti ad un solo termine: l’arrivo. Noi, dice Virilio, viviamo nell’era dell’arrivo generalizzato. Le teletecnologie hanno provocato la fine del mondo reale, lo spazio reale cede di fronte al tempo reale. Il mondo di cui parla Virilio è il mondo del senso della materia e del luogo del diritto, della politica e “del luogo tout court”: “Noi stiamo perdendo il mondo a causa della velocità, poiché essa riduce sempre di più l’ambiente mondiale ad un niente”. L’essere umano, per muoversi in un mondo virtuale, ha visto progressivamente ridurre il proprio corpo in un modello super-attrezzato di protesi, come quello di un handicappato per muoversi nel mondo reale. La città e gli stati-nazione sono stati sostituiti dal villaggio globale che, però, per Virilio, è semplicemente un ghetto nato dalla contrazione dello spazio. Siamo, cioè, di fronte alla più grande incarcerazione della storia dell’umanità, dove la prima a cedere, in questo lager, è la società civile. Il cittadino, infatti, ha perso il contatto con le istituzioni, il rapporto con il potere. Si è affermato un nuovo territorio mondiale sovranazionale, non controllabile democraticamente, in cui il potere è assoluto e “trans-politico”. Virilio, evidentemente, rievoca Orwell ed il grande fratello in un contesto sociale privato dello spazio pubblico, tradizionale luogo della politica come l’agorà ateniese, in favore di uno spazio virtuale, circo della simulazione, che si ripiega sul privato. Virilio parla della disintegrazione della tradizionale organizzazione sociopolitica. Al classico “complesso industriale e politico” si sovrappone un nuovo “complesso informatico e metropolitico, legato all’onnipotenza della velocità assoluta delle onde elettromagnetiche [...] di cui il sistema borsistico odierno, automatizzato e mondializzato, è diventato il principale sintomo clinico”. É, la nostra, una società dromocratica, dove la velocità significa ricchezza e potere e le guerre “intelligenti”, guerre combattute dalla “macchina che vede”, ne sono l’esempio più eclatante. Guerre che, se una volta erano fondate sulla dissuasione, oggi si fondano sulla simulazione. Siamo dappertutto senza esserci veramente, dando vita al paradosso della riunione a distanza. Il luogo del diritto è scomparso e allo spazio topico si è sostituito “lo spazio tele-topico”, in cui il tempo reale ha il sopravvento sullo spazio reale e l’evento è sostituito dalla sua immagine di rappresentazione. Il principio di realtà è dominato dal tempo-luce, unico vero fattore dell’”appercezione relativistica”. Alla domanda: “La fisica contemporanea abolisce il reale?”, Virilio risponde: “Abolirlo, no di sicuro! Risolverlo, certamente, ma nel senso in cui oggi si parla di una migliore “risoluzione dell’immagine”".
Malgrado le divergenze, Franco Berardi (Bifo) assume un punto d’analisi assai vicino a quello di Virilio. Anche per Berardi la società attuale è dominata dal regime della velocità assoluta, cioè, di fatto, dalla teletrasmissione delle immagini in tempo reale. Berardi (Bifo) ricorda che la società di ieri è stata dominata dall’accelerazione della velocità e dal potere dell’automobile e del trasporto su strada; potere che ha reso possibile lo sviluppo metropolitano e dei suoi portati infrastrutturali (strade, autostrade, ecc.). Oggi, quest’accelerazione significa velocità assoluta, velocità della luce e sua applicazione elettronica, cioè la cosiddetta conurbazione elettronica. Ciò ha provocato, nel primo mondo, il blocco dell’espansione delle megalopoli e le prime esperienze di dematerializzazione della città e della sfera pubblica. Bologna, ad esempio, è uno di questi tentativi di digitalizzazione della polis. Ma, è questo il nodo affrontato dall’autore, lungi dal significare, ciò, il confinamento definitivo della vita umana nella sfera dell’immateriale, gli uomini e le donne continuano a vivere una contraddittoria e schizofrenica doppia esistenza. Essi si dividono tra materiale ed immateriale, provocando un “nervosismo sociale” in cui gioca un peso notevole proprio il fatto che la vita materiale non riesce a muoversi al ritmo veloce della vita immateriale. La vita metropolitana è dominata dal mito della velocità. Mito che non si è affermato solo a causa dei ritmi di lavoro e di non-lavoro, ma anche a causa dell’introiettamento dei ritmi di comunicazione. L’attesa comunicativa è diventata un inconcepibile “tempo morto”. La lentezza è divenuta un intollerabile disvalore. Ecco che la sistematica delusione delle attese e delle aspettative provoca stress, depressione, panico ecc. D’altronde, l’elettronica si presenta sempre più come la soluzione di un’esistenza dominata dall’impossibilità di vivere nella metropoli. In questa non è possibile fare qualcosa di diverso che dividere la propria esistenza tra il chiuso delle automobili ed il chiuso degli appartamenti. La morte dello spazio pubblico ha determinato la morte della socialità. Ma la liberazione degli spazi della città immateriale pone profondi problemi di democrazia. C’é chi, ottimisticamente, dice che la democrazia sarà salvaguardata dal semplice spostamento dei luoghi politici materiali nelle agorà elettroniche. É qui che Berardi dice: “le libere volontà sono [...] solo un’astrazione formale. In realtà il problema è chi controlla il mixer” [Berardi (Bifo), 1995].
(fine quinta parte)
Fonte:
http://www.fucinemute.it/2001/03/pasolini-nellera-di-internet-v/
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