"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
Il neo-sperimentalismo
Officina
numero 5
1956
Ecco qui, nell’umile corsivetto della rubrica,1 una nuova definizione. Ma bisognava pure decidersi ad aggiornarsi in qualche modo su una produzione, mettiamo quinquennale, che ora gravita, informe, «allo stato fluido» verso le formule già accettate (post-ermetismo, neorealismo ecc.). Tale attrazione delle formule correnti, permane, sì, nella massa che qui ci accingiamo a isolare, ma sotto forma di tendenze, di componenti. Ci conviene perciò suddividere subito questa nostra merce neobattezzata, nelle tre sezioni in cui circa è compresa: 1) Neo-sperimentalismo, tout court, di origine psicologica, o patologica, concrezione di un «caso» solitario, marginale: in termini da manuale: neo-sperimentalismo decadentistico, o, meglio ancora, espressionistico. 2) Neo-sperimentalismo influenzato dalla sopravvivenza ermetica o genericamente novecentesca. 3) Neo-sperimentalismo coincidente con la sindrome stilistica della nuova, appunto spuria, ricerca «impegnata», ma, nella fattispecie, non di partito.
Queste tre tendenze, nella descrizione puramente esterna di un testo neo-sperimentale (come tale intuito per ellissi, secondo l’operazione spitzeriana dello Zirkel im Verstehen) spesso si presentano mescolate. Sull’espressionismo così si depositano toni di rancore sociale; nel dandysmo post-ermetico dardeggiano punte espressionistiche; del maledettismo decadentistico iper-espressivo cova tra gli stilemi neo-realistici ecc. Ma appunto per questo la nuova definizione può portare una luce evidenziante, se angolata con disinteresse sulla massa informe e oscura: tanto che la produzione poetica di questi ultimi dieci anni finisce poi proprio col presentarsi dominata dal segno di una nuova esperimentazione, includente i segni, lisi, delle poetiche novecentesche precedenti, in molti sensi svalutate.
Un largo terreno franco, dunque, a fasce, in cui vengono a sovrapporsi, tingendosi a vicenda, l’area ermetica e l’area neo-realistica.
E ancora una cosa (prima di scendere agli esempi): nella confusione linguistica che ogni sperimentalismo presuppone in luogo degli ordini istituzionali, va tenuto presente che i neo-sperimentali operano spesso dilettantescamente, di seconda mano, spesso sotto l’influenza delle traduzioni: con conseguente costante metrica caratterizzata dal verso libero, amorfo, gli ictus pericolosamente rampanti o sordidamente allineati, la punteggiatura abolita o abnorme, le trovate tipografiche ritrovate a épater les bourgeois, del resto da tempo vaccinati contro simili traumi.
Si veda al proposito, la metrica di due poeti il cui sperimentalismo, assolutamente ancor ingenuo e velleitario, si riduce appunto ai soli – ma fiacchi, ma prefigurati – esperimenti metrici: nella loro inedia, però, paradigmatici: T. Gottarelli, La pioggia in città (Guanda, 1953) o D. Aumu, Notte d’Ulisse (ivi). Quasi il vuoto: nelle audacie metriche novecentesche deraglianti, d’inedito non c’è che un inopinato «spazio» tipografico, talora a surrogare una virgola, talaltra a soddisfare un estro gratuito dell’autore. Allo stesso livello medio, e privo di sorprese (la parabola del pastore che gridava sempre «Al lupo»: ma noi, però, intendiamo crederci ogni volta), altri giovani (E. Configliacco, Ti abbiamo cercato, Schwarz, 1953; U.P. Quintavalle, La festa, Guanda, 1953, per es.) «sperimentano» mantenendosi fedeli ai recenti istituti di difformità metrica, e intenti piuttosto a scandali di dettato, di sintassi: trattandosi di biografie dalle orbite stravaganti, con effetti linguistici cosmopolitici, snob. Sfugge forse a un giovane come R. Leoni (Tenerezza del mondo, Schwarz, 1954) la procedenza vociano-futuristica di espressioni come: «… esasperante mano che sale | per conquistare la f… | datemi un volto innocente | che parta per la Svizzera domani | col treno delle 6,25 | caramelle Golia ecc.». Forme di un maledettismo astorico, ritardatario rispetto a una possibile angoscia «maudite» dei giovani di questi anni. Una variante di estrosità, di sovversione anarchica e cromatica. E aggiungete su questa linea anche una giovane donna, G. Peroni (Terra d’uomini, Pleion, 1955), purché tra gli épatements tipografici non si dimentichi quanto di ragionevole e conformato implichi una vena religiosa d’area ungarettiana. Anche in N. Crimi toni quasimodiani addolciti mettiamo in Sereni temperano gli espressionismi post-bellici (Libero-dici, «Il Raccoglitore», 1954), di un libretto il cui più tipico processo consiste nel percepire con una certa rozzezza preletteraria sensazioni (di viaggio ecc.) squisitamente letterarie: di qui, appunto, il naturale espressionismo; che si fa riflesso poi nell’ultima composizione (notevole, peraltro) chiaramente sperimentale. Niente male, malgrado le copiose fasullaggini, è il chilometrico L’altopiano di A. Peregalli (Guanda, 1955): lasse-articoli di sensato progressismo politico, dove si sperimenta la possibilità di tradurre in poesia qualsiasi forma di prosa (ricordi di guerra, dimostrazioni dell’esistenza di Dio, orazioni antifasciste), tra ingenuità quasi elementari e intuizioni quasi straordinarie.
Calligrammes apollinairiani, fogliettoni futuristi, girandole frammentistiche: l’asemanticità non dell’ingenuo, ma dell’intossicato, insomma. Questo è l’arsenale di cui si presenta armata fino ai denti Marta Vio in Poesia I (Schwarz, 1953): per esprimere in definitiva le aspirazioni di una giovinezza rivoltosa per eccesso d’energia; ottimistica, quindi, e non esente da banalità. L’esibizionismo della ragazza passa poi dallo sventagliare degli avanguardismi indigesti a un più placato cursus ermetico eliottiano nel secondo volumetto (Poesie, Schwarz, 1955), con risultati, stavolta, di pastiches niente affatto disprezzabili, come ad es., il componimento Essa mi chiede, onde volesse imprendere a cantare. Alla gazzarra inscenata con tanta energia dalla Vio, giustapponiamo il caso affine ma assai più grigio di Pagliarani, che del nostro neo-avanguardismo è forse il rappresentante più tipico e assoluto (a parte i ruoli, come vedremo, eccezionali del ventenne Ferretti e del trentenne Leonetti). Cronache e altre poesie (sempre Schwarz, 1954) di Pagliarani non ci risulta fortunata presso la critica militante: ma, per la verità, non ci sembra mica merce da buttar via senza almeno contrattare, questa del viserbese ventottenne laureato in lettere residente a Milano a lottare contro le tentazioni carnali e lo stipendio. È vero, il gran lutto del decadentismo subisce in lui riduzioni al problema finanziario e alla poetica del «casino» che sanno dei canoni più usati del neo-realismo; e le autoironie, le autogogne del poeta maledetto, avanguardistico per rancore anarchico contro le istituzioni, qui calano spesso a querelle vagamente socialistica. Ciononostante gli elementi in disgregazione, per definizione precari, agrammaticali, marcescenti, di questa tecnica, si nutrono in Pagliarani di una misteriosa linfa (misteriosa per chi, come noi ora, non compia la preventiva analisi stilistica, implicante fiducia nella sostanziale effabilità dell’individuo e dei suoi fenomeni) che conferisce a quegli elementi stabilità, grammaticalità e rigore.
Discorso non esteriormente diverso si potrebbe fare per Ferretti (Deoso, Maia 1954, e Allergia, Jesi 1955): solo che il caso di questo ragazzo ventenne, traumatizzato e quindi prematuramente rivelato a se stesso da un’endocardite reumatica, è veramente unico, preistorico meglio che pregrammaticale, malgrado la straordinaria maturità. E, malgrado la straordinaria maturità, è impossibile riferire che cosa esprima questo adolescente, capace di tradurre in concrezioni linguistiche «moderne», presupponenti almeno Rimbaud ed Eliot, dei dati che sembrerebbero intraducibili, tanto sono dinamici, in vorticoso assestamento, giovanili. Rimandiamo ad altra sede («Officina», n. 5) il tentativo di darne uno «psicogramma»: ma va osservato subito che questo non-comunicare di Ferretti niente altro che la propria presenza evidenziata dal male, produce i versi più intimamente gioiosi e vitali degli ultimi anni. Ecco un caso in cui lo sperimentalismo si presenta come mezzo necessario. A nessuno verrebbe in mente di avere dei sospetti sulla sua purezza. Semmai ci si potrebbe chiedere di Ferretti che cosa egli farà quando uscirà dalla malattia, dall’adolescenza, da Jesi, dal puro e conclamato Dasein di Deoso. E ha ragione Leonetti di temere sui suoi inediti (nel lavoro redazionale dalla citata «Officina») un «suono qualunquistico». Effetto della solitudine, per chi vive in essa per definizione, incurante della propria integrità morale rispetto alla vita di relazione. Il suo sperimentare non è altro che il suo attaccarsi alla vita: un solo gesto, cioè, che per valere deve essere sempre diverso. Inoltre, appunto perché la vita lo esclude e lo isola, il «segnato» la ama di un amore più forte: e la ricerca di continuo, nella sua monotonia che si rinnova incessantemente. Assordato da questo concerto altissimo di angoscia e di gioia che è il suo rapporto con la vita in sé, egli non sente che deformato il linguaggio del rapporto storico, della cultura. Ecco perché lo «sperimentale» corre insieme i pericoli dell’assenteismo e del misticismo: delle terribili indifferenze e dei terribili engagements. Per puro caso, egli può vivere una vita da recluso o gettarsi in una vita tutta esterna, d’avventure. Si veda per esempio un altro giovane, Beppino Goruppi (di cui B. Marin ha curato per le edizioni di «Universitas», Trieste 1953, gli scritti postumi col titolo Rovo di biancospino). Egli nasce nel 1930, e ha perciò dodici anni e mezzo nel 1943, al crollo: e a neanche quattordici anni, fugge con un suo compagno per raggiungere i partigiani della divisione «Garibaldi». I suoi lo ricercano, ma, durante le ricerche nell’entroterra vengono uccisi. Il ragazzo ritorna e sa della morte dei suoi: sospettando che siano stati uccisi dai partigiani, fugge di nuovo dalla casa dei parenti. Nel gennaio del ’45 va a Brescia ad arruolarsi tra i paracadutisti della «Folgore». Alla fine della guerra dopo una violenta resistenza, viene fatto prigioniero dagli americani a Borgomanero. Aveva quindici anni. Poi riprende gli studi due volte interrotti, a Trieste: ma nel ’47 è di nuovo all’«azione»: a Pola, ad aiutare i profughi. Nello stesso anno scappa di nuovo da casa: va a Roma, dove per vivere si esibisce in tuffi acrobatici sul Tevere. Poi si arruola nella Legione Straniera, arriva in Indocina, combatte, viene fatto prigioniero, viene liberato in circostanze romanzesche da una signora di Monfalcone sposata laggiù, e torna in Italia. A Trieste finisce gli studi liceali, indi frequenta l’Università di Perugia (dove – insiste il biografo – è campione di nuoto), finché nel ’51 si ammazza presso il Trasimeno in un incidente motociclistico.
Risulta chiaro, ci sembra, dalla breve «razos» il rifiuto alla vita di un giovane fin troppo carico di vita, eslège, ribelle, e le cui forze informi, mistiche sono state, per puro incidente, calamitate dal misticismo fascista. L’espressionistico estetizzare del Rovo – in tanto vortice di azioni esterne – è la spia di tale condizione.
Di una esperienza simile ha dato testimonianza Leonetti, in un’operetta (Antiporta, Libr. Palmaverde, 1952) che è senza confronti il più bel libro di ricordi di guerra che sia uscito in questi dieci anni: guerra e immediato dopoguerra. Assolutamente fuori dall’aneddotico e dal cromatico, privo di qualsiasi qualità commerciale, e perciò sfortunato, accantonato, ignorato. È infatti il referto della partecipazione alla tormenta di un poeta, in quanto tale: visto da un angolo visuale interno, in certo modo specializzato, che riporta l’infuriare dell’azione e l’attuarsi delle scelte a un tono assoluto, benché esagitato nel corrusco saggismo di una prosa d’arte, ma violentissima, lucida, tragica. Il lealismo del giovanissimo scrittore vi risulta del tutto aprioristico e meccanico: un aspetto appunto del conformismo di chi, sepolto nel furore stilistico, sa del mondo esterno e politico quello che sa un ragazzo. Un ragazzo nel ’42-43 educato nella Gil o nel Guf. E fa della propria scelta una scommessa morale: un atto assoluto della storia, concluso in se stesso, nella drammaticità che gli è insita e in cui il dramma oggettivo non è che un fenomeno visto sotto l’aspetto dell’eternità. Anarchismo, dunque, per «deformazione professionale» (malgrado l’acerbissima età), a risoluzione mistica: e – in quanto atto letterario – una specie di prova d’Ercole, da cui tornare – ricchi di un’esperienza preventivamente e quindi scetticamente scontata – alla letteratura. Naturalmente la solitudine dello sperimentale Leonetti andava necessariamente violentata in un rapporto frequente e per così dire auto-parenetico con gli altri, visti come esseri eterni, categorie etiche, oggetti di rispetto o pietà. La tremenda avventura di Cassino, coi fascisti, non è che questo. E che poi non sia avvenuta con gli antifascisti, ciò è il risultato di una pura incidenza delle circostanze, aiutata dalla naturale attitudine scettica di fronte ad esse, di fronte all’azione come pura pietra di paragone, misticamente cercata. Ma, a differenza degli espressionisti e degli avanguardisti ngenui, meramente patologici, Leonetti era troppo ricco di cultura per non porsi in atteggiamento critico davanti a questa sua solo apparente, in realtà coatta, scelta giovanile. E il recupero fu immediato: il recupero della libertà a scegliere, a differenziare lo slancio etico, il rapporto non puramente e rigidamente moralistico con «gli altri», ma il rapporto storico e culturale con la società. Tuttavia nella posizione laica e progressista raggiunta da Leonetti, permane la rigidezza dell’imperativo categorico, il riverbero di una lucidità etica acquisita contro la propria natura: e quindi permangono in lui ancora le premesse per un incessante, eroico sperimentare, per un inesauribile amore verso una vita continuamente avversa e nuova.
Ma passiamo al secondo gruppo. L’area post-ermetica in cui questo si colloca, implica, questa volta, da parte dei suoi rappresentanti, una ideologia di sapore liberale (magari con estremismi di destra o azionistici) oppure cattolico, ma di quello speciale cattolicesimo che ci siamo abituati a collocare intorno al protoermetico «Frontespizio». Per il primo caso, possiamo fare il nome, fuori dal nostro discorso, ma un po’ come paradigma, di Luciano Erba, che sulla linea lombarda, sereniana, inocula, nei ben noti stilemi, acidi e veleni che ricordano un po’ certo spirito francese della «religione del dandysmo», magari nei minori, ossessionati ed eleganti. Il che, se l’esibizionismo sentimentale non può che produrre elementi linguistici iper-espressivi, implica nell’operazione di Erba lo scandalo linguistico, una sorta, nella fattispecie, di accademico avanguardismo (si veda Il bel paese, Ed. della Meridiana, 1955). Potremmo, per questo primo caso, citare anche Manfredi (Poesie, Mondadori, 1954) se, pubblicando in volume i suoi versi, non li avesse così sfrondati, riducendo il suo abnorme cursus prosaico-delirante a un cursus poetico quasi di tipo ungarettiano, affermante, anziché l’essere, il confuso essere, una propria presenza, neanche sentimentale, ma quasi unicamente e desolatamente fisica, un senso para-religioso di irripetibilità. Il che lo sospingerebbe piuttosto verso le sfere del secondo caso. Dove si colloca, esempio invece limpido ed esauriente, il bravissimo Zanzotto (Elegia e altri versi, Ed. della Meridiana, 1954). Ma sullo stesso versante di Erba, anche se non necessariamente lombardo, potremmo allineare – quivi destinati dalla comune operazione del fuoruscire o del tendere a fuoruscire dalla stilizzazione ermetica attraverso incidenti espressionistici o elementi di pastiche – Orelli, che è l’esempio più chiaro, Modesti (Due di briscola, Ed. Magenta, 1954), e ora, 1955, presso la stessa casa editrice, G. Guglielmi con Essere & non avere e A. Giuliani con Il cuore zoppo (quest’ultimo includente sette stupende, sebbene interessate, versioni da Dylan Thomas). Sia Guglielmi che Giuliani sembrano assumere a contenuto della loro poesia rigorosamente circoscritta, una sorta di Angst esistenziale, di male allo stato puro: irriferibile – se lo stato puro è atrocemente complesso – se non attraverso una qualche complessità, che, in questo caso, è un gergo letterario, in parte adottato da un milieu stilistico abbastanza ben solidificato, in parte contaminato con linguaggi poetici leggermente diversi ma comunque finitimi, in parte infine strettamente privato. E tutta privata, l’allure interiettiva, passionale, dolorante, in cui siffatti modi vengono immessi. In questa oscurità patetica o ironica, la vita interiore stagna, marcisce. E ciò rientra nel gioco, nell’esibizione di una disperazione cosciente ma non razionale. Nessuna forza vi interviene, se non la convinzione che anche un’espressione irrazionale – e naturalmente squisita – sia sufficiente a eticizzare una disperata operazione già prefigurata in sia pur recentissimi istituti espressivi. Il mondo esterno subisce quindi una specie di «fissazione»: corrispondente alla volontà d’immobilità del poeta: una disperazione suprema non può avere che varianti, e minime, possibilmente verso il tipo ironico. Lo spiegarla condurrebbe a ripiegare verso la storia, la definizione morale; l’abbandonarvisi del tutto condurrebbe verso una asemanticità dichiaratamente psicologica ed erotica. Ammesse le minime modulazioni, è dunque necessario restare dentro lo stesso tono: sicché una libertà espressiva che sembra sconfinata, valicante trionfalmente ogni pregiudizio, scandalizzante per estrosa e tetra inventiva, è in realtà rigorosamente delimitata. «Pregherò te, Monotonia, di costruirmi un’arte?» intuisce perfettamente il Giuliani. Quindi: stretta paratassi, giustapponente periodi che sono in realtà monadi non comunicanti, o meglio la stessa monade in forme diverse, quasi una palla iridescente, che, rigirata, mostra un colore per volta. E ognuna di queste monadi contiene un frammento in cui si specchia il mondo «fissato»: rigidamente tonale. Incapsulati ognuno in uno stilema – quasi sempre coincidente con la breve coordinata della paratassi – e variante leggermente dal tonalismo pittorico, all’espressionismo, al dandysmo, al manierismo di memoria, allo stilismo ermetico ecc., gli «oggetti» di questa poesia in re, si susseguono roteanti per asindeto o addirittura senza virgola: frantumi del mondo fattisi preziose pietruzze musive. La restaurazione raziocinante che Giuliani tenta (Prologo, in «Nuova Corrente», luglio-settembre 1955), su modelli anglosassoni, non fa che rendere ancora più violento l’attrito tra «delirio» e «intelletto», la cui instabile contaminazione rende appunto immoto e monotono, fisso, il mondo. Il «gotico», insomma, in cui su tutti eccelle Edoardo Cacciatore. Su questa direzione, ma con assai più flebili effati, possiamo collocare B. Calzolari con 42 poesie (Guanda, 1954) o M. Pulito con Poesie (Schwarz, 1954); con prevalenza del tono ermetico G.C. Pozzi (Due liriche, Ed. della Rotonda, 1954), e, con maggiore dilettantismo quasi da volgarizzatori freschi e pirotecnici, i meridionali B. Cattafi (Partenza da Greenwich, Ed. della Meridiana, 1955) e, qualche linea più in basso, G. Averna (Il Cavaliere Gotico, Guanda, 1954). Il sia pur incolore liberalismo, dunque, e il sia pur idillico cattolicesimo, quali avevamo predicato in principio a questa ala del neo-sperimentalismo, tendono insistentemente a sfumare in un ateismo misticizzante o in una religiosità aconfessionale. L’indipendentismo che ne deriva, precostituito, predicato, si risolve spesso in una specie di religione letteraria, implicante anzitutto la fede in un privilegio sociale e politico del poeta (quello, insomma, degli omaggi a Pound: Scheiwiller, Omaggio a Pound, 1956, «Stagione», II, n. 7, idem, e, annunciato, sullo stesso argomento, un numero doppio di «Nuova Corrente»).
Il terzo gruppo. Lo sperimentalismo, con l’inquietudine, l’instabilità, l’isolazione ch’esso importa, non sembra esser visto con simpatia dai critici marxisti. Non vale che l’istituzione contro cui esso opera sia l’istituzione della cultura borghese. In fondo il linguaggio nazionale-popolare, così come in questi giorni lo si desume correntemente da Gramsci, è inteso soprattutto come linguaggio franco, di divulgazione, d’organizzazione: e, dato il «tatticismo» politico di questo periodo di lotta, non disturba i marxisti l’entrare in gara con partiti borghesi nella diffusione ideologica, usando per comodità, e d’altra parte per necessità, la loro stessa arma: la lingua cioè elaborata strumentalmente e letterariamente dalla borghesia in questi ultimi decenni, centralismo fascista compreso. Si tratta per il critico marxista di scegliere fra tendenze linguistiche e stilistiche affini, accantonando per il momento qualsiasi tendenza a carattere violento e innovativo. Tra una tendenza classicistica d’area quasimodiana (cfr. Il giorno sulla Vojussa di M. Cerroni, Cappelli, 1955) – alquanto fiacca ed estetizzante, per la verità –, una tendenza realistico-pavesiana (ossia di tipo americano), quale si può delineare nel Barbaresco di G. Arpino (Ed. della Meridiana, 1954) e, infine, una tendenza neo-realistica o lirico-realistica (Scotellaro, e sulla sua linea Fiore e altri meridionali), il critico marxista per il momento sembra simpatizzare per quest’ultima. Sparuto, così, si presenta il gruppo socialistico «sperimentante», e ridotto da una interna intimidazione, quando si tratti di poeti iscritti al partito, compromessi pubblicamente. Per lo più la carica di violenza, l’eccesso psicologico, viene smaltito in una poesia epicizzante, le cui audacie «sperimentali» consistono nell’immissione di dati prosaici e politici, nell’onda dei metri dilatati e informi: una specie anche questa di scandalo, in barba al conformismo borghese, ma scandalo «protetto», spalleggiato da un altro tipo di conformismo, d’ideologia collettiva. Il côté messianico, insomma: in cui l’oscurità di provenienza variamente ermetica trova una lecita coincidenza con l’oscurità profetica, carbonara. Si veda come tipica di questa tendenza la poesia di Baglio; o, per es., in second’ordine, Poesia d’apertura (Quaderni dell’Arlecchino, 1953) di S. Salvi: tipico per la conclamazione di salute, di virilismo collettivo e primaverile («Così qualcuno di noi si è ridotto | a sostare sotto l’ombra dei fanali, | a rendersi per fame pederasta. | Ma la domenica sempre correva | lungo i prati cavalcando felice | il ventre di giglio della sua ragazza», in corsivo gli ultimi tre versi: il tutto risultando stranamente seppur fiocamente affine a certo Soffici 1912). Sicché rientrano lecitamente nel nostro discorso i poeti apartitici, e politici solo genericamente, per un impegno genericamente – come da un decennio usa dire – «umano»: poeti pensosi della sorte dei rapporti sociali, dell’Europa ecc. A rappresentare questa esplosione dell’io verso gli altri io, nell’atto, nel farsi ancora informe, nel proponimento raziocinante ed esaltato, ecco tre volumetti crudamente avanguardistici dovuti all’imperterrito Schwarz: Centone, 1954, di H. Corbani e F. Tanza, Principio di linea, 1955, di G. Corradini, e Le attrazioni, 1955, di E. De Miceli.
Mentre i giovani, i giovanissimi, sono a questo modo intenti all’evasione, esposti, provocanti, viene da ripensare a come sono finiti coloro il cui avanguardismo originario è passato di seconda e terza mano all’ultima generazione (che ne usufruisce, spesso ignorante e offensiva, le invecchiate innovazioni). Ma ecco qui, sia pure come tre ombre, tre deliziosi fascicoletti scheiwilleriani, tutti del ’55, a dimostrare una sopravvivenza almeno personale al Caporetto (l’anarchismo, l’anti-borghesismo letterario, il pragmatismo vociano, la resa e la restaurazione rondiana) di una generazione: dei risultati splendidi, benché confinati in fondo alle diramazioni ormai più marginali e ritardatarie del corso dell’evoluzione stilistica. Il Viaggio sentimentale di Palazzeschi, risente di tutte le intimidazioni, le violenze, le umiliazioni che può aver subito un poeta nel suo stile in questi ultimi trent’anni. Vi si avverte lo svuotamento di un’idea della poesia che si fondava, leggermente ma lecitamente, su una aprioristica anti-istituzionalità e su una libertà asemantica, interiettiva, anarchica. Svuotamento che porta ora Palazzeschi quasi sull’orlo del ridicolo, alla vanificazione dell’eloquio pseudo-ingenuo, salottiero, che fu la sua scoperta e la sua fortuna, prima che egli si arrendesse alle richieste conformistiche, dalla coazione nazionalistica a quella confessionale. Lo sperimentalismo dei tempi eroici si è ridotto a scandali del tipo: «acquaperlacquarosacquaverdacquablu, | acqua, acqua, acqua», «firenzeveneziaparigi», «fiesoletivoliassisi»: mossette che stringono il cuore. Eppure quanta grazia, ancora in Prato, in Bellagio e passim, nelle allocuzioni furbescamente banali, squisitamente dilettantesche, in cui questo poeta dichiara, ammiccando, imprendibile, la propria volontà di divertimento, proprio nell’atto in cui per leggerezza o per indifferenza si mostra ridotto a penitente, a utente delle istituzioni ideologiche e linguistiche più correnti. In realtà, l’unica parte effabile della poesia palazzeschiana è quella, per diverse ragioni, sbagliata: i suoi momenti aggraziati restano ineffabili: fuori dall’espressione, fuori dalla storia; in un lembo di anima pura.
Infinitamente più cara costa, questa salvezza fuori dalla storia, ad un altro sopravvissuto, Rebora (Il gran grido, e si veda anche la breve lirica Per Ezra Pound nei citati omaggi poundiani). Poiché egli, nella storia, permane, con l’istituto secolare di quello spirito «ineffabile», o stavolta più precisamente metafisico, in cui egli, dalla storia, ripara: l’Ordine religioso, la Chiesa. E, anche attraverso l’irrigidimento della convenzione sia pur sacra, l’accettazione ossequiente e incondizionata di un credo, traspare, ancora di magma purissimo, la sua libertà sintattica dei tempi eroici, mondani, letterari. Da dove altro, se non da quella prima esperienza d’avanguardia, proviene a questo Rebora – tanto simile, così fatalmente simile a quello dei Frammenti lirici e dei Canti anonimi – l’audacia espressiva, scandalizzante per la potente incuria formale, per la goffaggine scolastica della sua ispirazione eteronoma? Basti guardare l’esempio più appariscente dell’inserzione, non a contaminazione, ma per così dire ad attrito, delle citazioni nel testo: da S. Agostino, S. Benedetto, S. Francesco d’Assisi ecc. fino a Rosmini, nel Gran grido, Dante («l’Amor che muove il sole e l’altre stelle») in Per Ezra Pound.
Ma la meraviglia vera, la commozione vera sono per il libriccino in cui Sbarbaro ha raccolto le sue poesie «escluse» dal 1913 al 1932. Forse la poesia di Sbarbaro è il prodotto più perfetto uscito dalla rivoluzione linguistica vociana o genericamente del primo Novecento. No, non è paradigmatica, non servirebbe per il laboratorio: la sua forza di adattamento a quel clima innovativo è tutta interna, sfuggente. Marginale com’è questo poeta, poi: e tirato indietro da una residua e tenace riserva mentale, da un timore contraddittorio del nuovo che lo fissa a un sostanziale tradizionalismo (leopardiano, pascoliano, crepuscolare). Ma in realtà l’abrasione linguistica è interna, e l’istituto tradizionalistico che intonaca questa poesia si sfalda, si sbriciola a ogni parola. Il ridicolo (autopunitivo, autoumiliante), l’eccessivo sentimentalismo che l’odio – un grigio e tetro odio – contro la retorica incanala verso concrezioni linguistiche scandalizzanti per goffaggine ed eccesso di intimità, verso il più terreo parlato: sono dati bastanti a guastare ogni residuo apparente tradizionalismo. Il quale ultimo tende a prevalere, naturalmente, dopo Pianissimo, e, in queste Rimanenze, dalle prime alle ultime: l’ultima, La bambina che va sotto gli alberi (1932) è già in clima betocchiano o bertolucciano: sebbene anch’essa internamente abrasa, guasta, faticata nella sua splendida e spenta evidenza: un’intima e cieca tristezza impedisce qualsiasi empito musicale. Una forza che verrebbe voglia di chiamar colloidale lega le parole all’unico umore del poeta: alla loro funzione monotona e ossessiva a esprimere l’intima sfiducia e quasi l’impotenza a vivere. Forza che permane anche nel rifacimento recente di Pianissimo, malgrado le attenuazioni e le correzioni in senso anti-espressionistico e la pulizia esteriore e letteraria. Di sperimentale – all’aspetto tipografico o metrico – non c’è in Rimanenze che Occhi nuovi: il resto ha assorbito ogni forma di innovazionismo, con una pignoleria che ha riscontro forse nel solo Pascoli, con la stessa furia pascoliana se non di pre-grammaticalità, di grammaticalità depressa, usata ostinatamente per giungere il più dentro possibile nei «particolari», negli oggetti o nei gesti quotidiani: determinati fino all’eccesso di evidenza, ma (come osserva il Contini per il Pascoli) contro un fondo sempre indeterminato. Resta da dimostrare la ragione di siffatta indeterminatezza nel Pascoli – se puramente psicologia così aberrante e indurita che non sia passibile di forma. Forse, nello Sbarbaro, quel fondo indeterminato e indeterminante, non è che la sua indifferenza ideologica – ridotta appunto allo sperduto atto del poetare – in un momento storico in cui, d’altronde, nessuna ideologia praticamente valeva: non era che illusione per mistici o pretesto a difesa dei recenti privilegi borghesi. L’involuzione di una società non poteva produrre che buio nel fondo delle anime.
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