"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Una polemica in prosa ( caro Pasolini )
Eduardo Sanguineti
Officina
numero 11
del 1957
Una polemica in prosa
Io non dubito, caro Pasolini,
non voglio dubitare, che per Sua
cortesia Lei ospiterà sul prossimo
numero di “Officina” questa mia
lettera aperta, apertissima, in cui
voglio discutere un poco (e Lei può
facilmente concedermelo, io credo)
l’alienazione che io (o piuttosto i miei
Erotopaegnia) ho subito sull’ultimo
numero (9-10) della Sua
rivista. Io non discuto, Lei m’intenda
bene, la compagnia in cui Lei mi ha posto
(la comune sventura desta sempre
qualche fraterno sentire... né so
che cosa sentano, in particolare,
i miei compagni), non il Suo arbitrario,
imprevedibile, antologizzare
i miei versi, m’intenda sempre bene,
da me (ahi, quanto ingenuo!) inviati liberi,
dietro Suo invito, e soluti (non solo
quanto allo stile); ma discuto quella
Sua libertà di stile, invece, quella
Sua libertà desidero discutere
(ahi, che lo stile è l’uomo!), che da Lei
fu usata verso i miei testi, per certo
Suo troppo, veramente, troppo libero
‘allegare’, all’interno di un Suo giuoco
di chiaroscuro: vedete ora il verme
immondo, ma cercate (piú oltre e piú
lontano, e adesso vi dico anche dove)
l’angelica farfalla. Il Suo ‘prefare’
diligentissimo, arguto, alla ‘Piccola
antologia’, in effetti viene a dire,
e ancora a dire, sempre, per sei pagine,
del resto abili, quanto disti il Suo
“vero e proprio sperimentalismo”
dal mio non-puro neo-sperimentare,
che si dimostra, per forza di cose
(verrebbe meno, in altro modo, il lucido
superamento dialettico), mero
“epigonismo”, quando anche Lei voglia
concedere, ed è sempre troppo buono,
“epigonismo pieno di energia”.
Che io adesso mi appelli ad un non scritto
codice editoriale, non coerce
certo (ahi, povera Antigone!) la Sua
licenza ormai infrenata, e se troppo
tardi conobbi, tardi sia. Ma al Suo
‘allegato’ conceda che, pur tarde,
io alleghi poche parole, che forse
non sono impertinenti affatto, per
quanto, è vero, inattuali, inattualissime.
Dico subito, caro Pasolini,
che anch’io, se mai credessi ancora nella
storia, nella Sua storia, crederei
doveroso spiegare con estrema
diligenza, con ferma ostinazione,
come io sia giunto già un passo piú in là
dei miei contemporanei (Pasolini
non escluso), e come io sia già salito
un gradino piú in su, concilïando,
superando, inverando; proprio in una
prosaica corrispondenza privata
col nostro amico Fortini (e perdoni,
il Suo poetico corrispondente,
la violazione che ora compio del
segreto epistolare; violo solo
il mio terreno) io spiegavo, a suo tempo,
(da poco avevo pubblicato il mio
Laborintus, ora è un anno) come io
tentassi di fare dell’avanguardia,
in quel libretto, un’arte da museo
(ora violo parenteticamente
il segreto per dirLe, ma rimanga
tra noi, chiusa parentesi entro questa
apertissima lettera, che piacque,
la formula, a Fortini, e che se non
lo persuase, in qualche modo, almeno
— il Foscolo direbbe — lo convinse).
Crede forse che non avrei potuto,
che non potrei ancora, con un poco
di degnità e di corollari intorno,
condire questa formuletta, come
in un honesto manualetto per
le nostre scuole medie superiori?
La storia, Lei lo sa, si fa anche, e forse
soprattutto, così: dico che Lei
lo sa, che lo sa bene: vèr(um) et fàctum.
Ma dico che se mai un giorno, prossimo
o lontano, mi pungerà una tale
voglia, non andrò certo colligendo
etichettate antologie di inediti
obliquamente adescati, per chiudere
sopra le loro teste la mia trappola.
Vero è che già mi piacque, per non so
quale ludico spirito, accettare,
inviandoLe una copia del mio libro,
la Sua proposta categorïale;
e mi piacque che a Lei piacesse tanto
questo piacere mio, da compiacersene
ancora in una Sua recensïone
molto cortese (“Il Punto”, 22
dicembre ’56): “A P.P.
P. (sic), questo libretto molto neo-
sperimentale”. Non potevo honesta-
mente (se la grafia promuove l’hErba...
ma veda anche Catullo 84),
dico che non potevo immaginare
che nel germe di quel Suo definire
la mia merce “notevole anche se
leggermente — testuale — quatriduana”
si celasse così robusta pianta
(o così dïalettica piramide),
quale precisamente poi divenne
l’antologietta neo-sperimentale
con relativo allegato. Quel Suo
“leggermente”, di cui potevo allora
giubilare (facendo del mio Lazzaro
un neo-squisito cadavere) si è ora
appesantito parecchio, ed il giuoco
si è fatto quasi serio. Pasolini
seppellisce i sepolti. Oh, amico mio,
lasci che i morti requiescant in pace;
si dimostri, Lei vivo, in questa Terra
Mortuorum, pietoso; salti altrove,
se vuole esercitarsi, ma abbandoni,
cortese, i cimiteri: è magra palma
questo inverare i defunti. O dovrei,
per contro, esserLe grato di aver scelto
questo campo, a giostrare, questo povero
untorello che io sono, ad avversario,
Ammazzasette Pasolini (tanti
noi siamo nella antologietta: quanti
i peccati mortali — o quanti i doni
dello spirito santo —)? Ma, dicevo,
Lei crede nella storia, Lei ci crede
nel modo in cui ci crede, e Lei può scrivere
d’aver con questo ormai rinunciato alla
“sicurezza di un mondo (Sue parole)
stilistico maturo, raffinato
e anche drammatico” in vista di un dramma
piú alto, e appunto piú storico (in vista
di un dramma drammaticissimo, poi,
perché Lei non ha mai voluto scegliere
“nessuna delle ideologie ufficiali”).
E ritiene legittimo questuare
io non so quale ammirata, patetica
trepidazione (è l’immortale brivido,
quanto inguaribile, ahimè!, di una eroica
solitudine, di una “indipendenza
che costa — ahimè — terribilmente cara”),
con uno scarto evidente di stile;
e aggiunge: “quanto vorremmo, come usa
dire, ‘avere scelto’”! Non ci siamo:
è un punto, un altro punto, questo, dove
conviene denunciare una Sua scarsa
maturità stilistica. Ma, già,
per me è facile dirlo, è troppo facile,
legato stretto con i sei compagni;
io che non sono né eroico né solo
sto fuori della storia e della grazia
di quello sperimentalismo vero
e autentico, che già non può, Lei dice,
non caratterizzarLa, se sta sempre
“al punto in cui il mondo si rinnova”.
E come non starebbe, se Lei stesso
lo ha collocato lì? Felice Lei,
Pasolini felice, se la storia,
se la Sua storia, sempre, si capisce,
lavora proprio per Lei, regalandoLe
garanzie tanto certe e confortevoli!
Ma, caro P.P.P., se ora, con qualche
diligenza, mi inoltro in “Officina”,
sempre nell’ultimo numero, sino
a toccare l’intelligente prosa
di Leonetti, e mi fermo (ahimè, malizia!)
giusto alla pagina trecentosettanta-
due, io leggo, ché ognuno si conforta
come può, e c’è chi suona le trombe
della storia, e chi suona le campane
di Leonetti, se, dico, ascolto l’altra
campana di “Officina”, con stupore
mi avviene di poter udire che,
nell’arte, la Sua rappresentazione
(che pure ecc. ecc. ecc.)
“contiene, irrisoluta, psicologica
e mentale”, lo voglia o non lo voglia,
ecco, una “disposizione al dolore
come angoscia”. Che io certo non rimprovero,
ed è cosa che certo, honestamente,
“non vale che nessuno Le rimproveri”
(Leonetti sempre, pagina trecento-
settantatré). Mi creda, io ne ricavo
qualche conforto, al contrario, se infine
mi riesce di ritrovarLa alienato
storicamente, caro Pasolini,
accanto a me e a quegli altri, poveretti,
che mi ha stipato intorno: ora La sento,
per quella Sua disposizione infausta
(teste Leonetti), neo-sperimentale,
e in deiezione, e astorico, lodato
Iddio!, quanto me e tanti altri amici
Suoi e miei. Creda dunque al Leonetti,
che sa scrivere storia, ove gli occorra,
con piú fermi paragrafi: i disegni,
gli schemini dialettici, gli riescono
non dirò bene triangolati sempre,
ma almeno un poco piú fermi. Mio caro
Pasolini, non c’è superamento,
qui, dunque, no, non c’è dimenticanza
né sogno: carne viva. E se Henry Miller
diceva (Lei ricorda, forse) che
dalla cintola in giú tutti gli uomini
sono fratelli, noi, lodato sempre
Iddio!, io e Lei proprio, ahi, siamo fratelli
sopra e sotto la cintola. Così
forse, se vorrà credermi una volta,
“la serie delle esperimentazioni
risulterà una strada d’amore”,
precisamente come dice Lei,
con molto sentimento, perché, dice
bene Lei, e creda a sé stesso, è proprio
col sentimento, e non già con le piccole
trappole storiche, che ci si trova
“al punto in cui il mondo si rinnova”.
E quando dico sentimento, caro
P.P.P., non può certo equivocare:
conosce il mio Laborintus, furente
‘pastiche’, come Lei scrisse; e quanto poi
al Laborintus o agli Erotopaegnia
da una parte, e alle Ceneri di Gramsci
dall’altra, a parte il fatto che non sta
a noi darne giudizio, parleremo,
se Lei vorrà, di questo, un’altra volta.
A me importava non fare questione
di poesia, Lei m’intende sempre,
ma di sola morale letteraria,
di civiltà delle lettere, come
ancora si diceva un tempo, nel
buon Novecento dei Novecentisti.
E la strada d’amore è per intanto,
per noi, quel nostro comune gradino
neo-sperimentale, dove ancora
oggi, volenti o nolenti, noi stiamo
appollaiati tutti, Lei compreso,
che solo è bello e re et sutor bonus.
Ma magis vivam te rege beatus,
e il mondo è vario, Pasolini, e proprio
fatto a scale, e non serve veramente
logicizzare la storia con secchi
triangoli, onde decidere subito
quale gradino salga e quale scenda:
questo non è ciò che Gramsci intendeva.
E allora torno a dirLe, e ricomincio
da capo: è certo Lei, che è tanto certo,
che la mia formuletta non conduca,
con eguale speranza, a quella autentica
“opposizione critica e ideologica
agli istituti precedenti”, che
Lei giustamente vuol tentare? è certo
che nei miei versi lo “sperimentare”
non debba fatalmente mai coincidere
con l’“inventare”? Ma se ciò è possibile,
altro che “epigonismo”, Pasolini!
altro che “pieno di energia”! Accettiamo,
dunque, di lavorare con il nostro
intiero rischio e con la nostra intiera
responsabilità, senza tentare
di innalzarci sopra gli Erotopaegnia
etichettati degli altri, che sono
infine giuochi innocenti d’amore,
Lei vede, come, insospettabile, Hölderlin
diceva che fosse anche la poesia.
Finalmente rilegga il Suo Leonetti:
“è piú storia l’attività infelice
(articolo citato, sempre, pagina
trecentonovantadue), È PIÚ STORIA
L’ATTIVITÀ INFELICE DEI ‘VINTI’
NON FURBI, caro Pasolini, PER UN
LORO IDEALE O PER UNO SCOPO
ANCHE PERSONALE CHE PERÒ NON
SA PRESCINDERE DALLA VERITÀ".
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