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sabato 3 maggio 2025

Una polemica in prosa ( caro Pasolini ) - Eduardo Sanguineti, Officina, numero 11 del 1957

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Una polemica in prosa ( caro Pasolini )
Eduardo Sanguineti

Officina
numero 11 
del 1957


Una polemica in prosa

Io non dubito, caro Pasolini,

non voglio dubitare, che per Sua

cortesia Lei ospiterà sul prossimo

numero di “Officina” questa mia

lettera aperta, apertissima, in cui

voglio discutere un poco (e Lei può

facilmente concedermelo, io credo)

l’alienazione che io (o piuttosto i miei

Erotopaegnia) ho subito sull’ultimo

numero (9-10) della Sua

rivista. Io non discuto, Lei m’intenda
bene, la compagnia in cui Lei mi ha posto

(la comune sventura desta sempre

qualche fraterno sentire... né so

che cosa sentano, in particolare,

i miei compagni), non il Suo arbitrario,

imprevedibile, antologizzare

i miei versi, m’intenda sempre bene,

da me (ahi, quanto ingenuo!) inviati liberi,

dietro Suo invito, e soluti (non solo

quanto allo stile); ma discuto quella

Sua libertà di stile, invece, quella

Sua libertà desidero discutere

(ahi, che lo stile è l’uomo!), che da Lei

fu usata verso i miei testi, per certo

Suo troppo, veramente, troppo libero

‘allegare’, all’interno di un Suo giuoco

di chiaroscuro: vedete ora il verme

immondo, ma cercate (piú oltre e piú

lontano, e adesso vi dico anche dove)

l’angelica farfalla. Il Suo ‘prefare’

diligentissimo, arguto, alla ‘Piccola

antologia’, in effetti viene a dire,

e ancora a dire, sempre, per sei pagine,

del resto abili, quanto disti il Suo

“vero e proprio sperimentalismo”

dal mio non-puro neo-sperimentare,

che si dimostra, per forza di cose

(verrebbe meno, in altro modo, il lucido

superamento dialettico), mero

“epigonismo”, quando anche Lei voglia

concedere, ed è sempre troppo buono,

“epigonismo pieno di energia”.

Che io adesso mi appelli ad un non scritto

codice editoriale, non coerce

certo (ahi, povera Antigone!) la Sua

licenza ormai infrenata, e se troppo

tardi conobbi, tardi sia. Ma al Suo

‘allegato’ conceda che, pur tarde,

io alleghi poche parole, che forse

non sono impertinenti affatto, per

quanto, è vero, inattuali, inattualissime.

Dico subito, caro Pasolini,

che anch’io, se mai credessi ancora nella

storia, nella Sua storia, crederei

doveroso spiegare con estrema

diligenza, con ferma ostinazione,

come io sia giunto già un passo piú in là

dei miei contemporanei (Pasolini

non escluso), e come io sia già salito

un gradino piú in su, concilïando,

superando, inverando; proprio in una

prosaica corrispondenza privata

col nostro amico Fortini (e perdoni,

il Suo poetico corrispondente,

la violazione che ora compio del

segreto epistolare; violo solo

il mio terreno) io spiegavo, a suo tempo,

(da poco avevo pubblicato il mio

Laborintus, ora è un anno) come io

tentassi di fare dell’avanguardia,

in quel libretto, un’arte da museo

(ora violo parenteticamente

il segreto per dirLe, ma rimanga

tra noi, chiusa parentesi entro questa

apertissima lettera, che piacque,

la formula, a Fortini, e che se non

lo persuase, in qualche modo, almeno

— il Foscolo direbbe — lo convinse).

Crede forse che non avrei potuto,

che non potrei ancora, con un poco

di degnità e di corollari intorno,

condire questa formuletta, come

in un honesto manualetto per

le nostre scuole medie superiori?

La storia, Lei lo sa, si fa anche, e forse

soprattutto, così: dico che Lei

lo sa, che lo sa bene: vèr(um) et fàctum.

Ma dico che se mai un giorno, prossimo

o lontano, mi pungerà una tale

voglia, non andrò certo colligendo

etichettate antologie di inediti

obliquamente adescati, per chiudere

sopra le loro teste la mia trappola.

Vero è che già mi piacque, per non so

quale ludico spirito, accettare,

inviandoLe una copia del mio libro,

la Sua proposta categorïale;

e mi piacque che a Lei piacesse tanto

questo piacere mio, da compiacersene

ancora in una Sua recensïone

molto cortese (“Il Punto”, 22

dicembre ’56): “A P.P.

P. (sic), questo libretto molto neo-

sperimentale”. Non potevo honesta-

mente (se la grafia promuove l’hErba...

ma veda anche Catullo 84),

dico che non potevo immaginare

che nel germe di quel Suo definire

la mia merce “notevole anche se

leggermente — testuale — quatriduana”

si celasse così robusta pianta

(o così dïalettica piramide),

quale precisamente poi divenne

l’antologietta neo-sperimentale

con relativo allegato. Quel Suo

“leggermente”, di cui potevo allora

giubilare (facendo del mio Lazzaro

un neo-squisito cadavere) si è ora

appesantito parecchio, ed il giuoco

si è fatto quasi serio. Pasolini

seppellisce i sepolti. Oh, amico mio,

lasci che i morti requiescant in pace;

si dimostri, Lei vivo, in questa Terra

Mortuorum, pietoso; salti altrove,

se vuole esercitarsi, ma abbandoni,

cortese, i cimiteri: è magra palma

questo inverare i defunti. O dovrei,

per contro, esserLe grato di aver scelto

questo campo, a giostrare, questo povero

untorello che io sono, ad avversario,

Ammazzasette Pasolini (tanti

noi siamo nella antologietta: quanti

i peccati mortali — o quanti i doni

dello spirito santo —)? Ma, dicevo,

Lei crede nella storia, Lei ci crede

nel modo in cui ci crede, e Lei può scrivere

d’aver con questo ormai rinunciato alla

“sicurezza di un mondo (Sue parole)

stilistico maturo, raffinato

e anche drammatico” in vista di un dramma

piú alto, e appunto piú storico (in vista

di un dramma drammaticissimo, poi,

perché Lei non ha mai voluto scegliere

“nessuna delle ideologie ufficiali”).

E ritiene legittimo questuare

io non so quale ammirata, patetica

trepidazione (è l’immortale brivido,

quanto inguaribile, ahimè!, di una eroica

solitudine, di una “indipendenza

che costa — ahimè — terribilmente cara”),

con uno scarto evidente di stile;

e aggiunge: “quanto vorremmo, come usa

dire, ‘avere scelto’”! Non ci siamo:

è un punto, un altro punto, questo, dove

conviene denunciare una Sua scarsa

maturità stilistica. Ma, già,

per me è facile dirlo, è troppo facile,

legato stretto con i sei compagni;

io che non sono né eroico né solo

sto fuori della storia e della grazia

di quello sperimentalismo vero

e autentico, che già non può, Lei dice,

non caratterizzarLa, se sta sempre

“al punto in cui il mondo si rinnova”.

E come non starebbe, se Lei stesso

lo ha collocato lì? Felice Lei,

Pasolini felice, se la storia,

se la Sua storia, sempre, si capisce,

lavora proprio per Lei, regalandoLe

garanzie tanto certe e confortevoli!

Ma, caro P.P.P., se ora, con qualche

diligenza, mi inoltro in “Officina”,

sempre nell’ultimo numero, sino

a toccare l’intelligente prosa

di Leonetti, e mi fermo (ahimè, malizia!)

giusto alla pagina trecentosettanta-

due, io leggo, ché ognuno si conforta

come può, e c’è chi suona le trombe

della storia, e chi suona le campane

di Leonetti, se, dico, ascolto l’altra

campana di “Officina”, con stupore

mi avviene di poter udire che,

nell’arte, la Sua rappresentazione

(che pure ecc. ecc. ecc.)

“contiene, irrisoluta, psicologica

e mentale”, lo voglia o non lo voglia,

ecco, una “disposizione al dolore

come angoscia”. Che io certo non rimprovero,

ed è cosa che certo, honestamente,

“non vale che nessuno Le rimproveri”

(Leonetti sempre, pagina trecento-

settantatré). Mi creda, io ne ricavo

qualche conforto, al contrario, se infine

mi riesce di ritrovarLa alienato

storicamente, caro Pasolini,

accanto a me e a quegli altri, poveretti,

che mi ha stipato intorno: ora La sento,

per quella Sua disposizione infausta

(teste Leonetti), neo-sperimentale,

e in deiezione, e astorico, lodato

Iddio!, quanto me e tanti altri amici

Suoi e miei. Creda dunque al Leonetti,

che sa scrivere storia, ove gli occorra,

con piú fermi paragrafi: i disegni,

gli schemini dialettici, gli riescono

non dirò bene triangolati sempre,

ma almeno un poco piú fermi. Mio caro

Pasolini, non c’è superamento,

qui, dunque, no, non c’è dimenticanza

né sogno: carne viva. E se Henry Miller

diceva (Lei ricorda, forse) che

dalla cintola in giú tutti gli uomini

sono fratelli, noi, lodato sempre

Iddio!, io e Lei proprio, ahi, siamo fratelli

sopra e sotto la cintola. Così

forse, se vorrà credermi una volta,

“la serie delle esperimentazioni

risulterà una strada d’amore”,

precisamente come dice Lei,

con molto sentimento, perché, dice

bene Lei, e creda a sé stesso, è proprio

col sentimento, e non già con le piccole

trappole storiche, che ci si trova

“al punto in cui il mondo si rinnova”.

E quando dico sentimento, caro

P.P.P., non può certo equivocare:

conosce il mio Laborintus, furente

‘pastiche’, come Lei scrisse; e quanto poi

al Laborintus o agli Erotopaegnia

da una parte, e alle Ceneri di Gramsci

dall’altra, a parte il fatto che non sta

a noi darne giudizio, parleremo,

se Lei vorrà, di questo, un’altra volta.

A me importava non fare questione

di poesia, Lei m’intende sempre,

ma di sola morale letteraria,

di civiltà delle lettere, come

ancora si diceva un tempo, nel

buon Novecento dei Novecentisti.

E la strada d’amore è per intanto,

per noi, quel nostro comune gradino

neo-sperimentale, dove ancora

oggi, volenti o nolenti, noi stiamo

appollaiati tutti, Lei compreso,

che solo è bello e re et sutor bonus.

Ma magis vivam te rege beatus,

e il mondo è vario, Pasolini, e proprio

fatto a scale, e non serve veramente

logicizzare la storia con secchi

triangoli, onde decidere subito

quale gradino salga e quale scenda:

questo non è ciò che Gramsci intendeva.

E allora torno a dirLe, e ricomincio

da capo: è certo Lei, che è tanto certo,

che la mia formuletta non conduca,

con eguale speranza, a quella autentica

“opposizione critica e ideologica

agli istituti precedenti”, che

Lei giustamente vuol tentare? è certo

che nei miei versi lo “sperimentare”

non debba fatalmente mai coincidere

con l’“inventare”? Ma se ciò è possibile,

altro che “epigonismo”, Pasolini!

altro che “pieno di energia”! Accettiamo,

dunque, di lavorare con il nostro

intiero rischio e con la nostra intiera

responsabilità, senza tentare

di innalzarci sopra gli Erotopaegnia

etichettati degli altri, che sono

infine giuochi innocenti d’amore,

Lei vede, come, insospettabile, Hölderlin

diceva che fosse anche la poesia.

Finalmente rilegga il Suo Leonetti:

“è piú storia l’attività infelice

(articolo citato, sempre, pagina

trecentonovantadue), È PIÚ STORIA

L’ATTIVITÀ INFELICE DEI ‘VINTI’

NON FURBI, caro Pasolini, PER UN

LORO IDEALE O PER UNO SCOPO

ANCHE PERSONALE CHE PERÒ NON

SA PRESCINDERE DALLA VERITÀ".





@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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