"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini, Una polemica in versi
Officina
numero 7
novembre 1956
Buio è quasi il meriggio nel lucore
terreo del coppedè vivace
e del marmo fascista, già incolore
quasi disusata divisa d’orbace
di cinici antemarcia non più di primo pelo,
in una sporca fotografia; giace
schermato il sole come in un velo
di grassi, di carta carbone,
di polvere alzata dagli urti sul nero
fondo dei tricicli, dalle gomme
dei filobus che ansando ai semafori
scendono soffici in una pressione
avara, pazzi per mafia
o nevrastenia: e svoltano verdi
per via Quattro Novembre, nell’afa...
È la sera che scende, ancor lontana:
come una tempesta, quando addensa
a un tratto le nuvole, ma le dipana
poi lentamente – della sua violenza
abbandonando in cielo la minaccia.
Scolorato il sole fa più intensa
la sua luce, e ogni strada, ogni piazza
quasi in silenzio brulica al frastuono
d’una gente, ch’è solo folla, razza.
«L’ora è confusa, e noi come perduti
la viviamo...», mi mormoravi, amaro,
disilluso di ciò che hai avuto
per dieci anni dentro, così chiaro
che tra mondo e mente quasi era un idillio:
e ha la tua stanchezza – un po’ volgare –
una smorfia di vecchio figlio
di immigrati meridionali
affamati e vili dietro il cipiglio
di poveri arrivati, d’ingenui dottrinari.
Hai voluto che la tua vita fosse
una lotta. Ed eccola ora sui binari
morti, ecco cascare le rosse
bandiere, senza vento. Hai
quarant’anni, con sorriso e mosse
– come quelle di chi non spegne mai
il vecchio fuoco – giovanili.
E, spento, regredito ai padri, ti dai
a me, con la confidenza dei febbrili
moti dell’amicizia, e con il calcolo
di chi, inconscio, invano non si umili.
E io... io cedo: posso soltanto
appassionarmi, come sempre: pazzo,
ché dovrei tacere, non offrire il fianco,
non confessare che sono un ragazzo,
ancora, eternamente indifeso;
che non sempre la passione è grazia.
Lo so, spesso ciò che ho avuto ho reso
con un atto che non è diverso
dall’arsione del lampo al magnesio.
Ho fissato col mio occhio inesperto
diventato atrocemente esperto – umile
fotografo che la notte inerte
batte dietro l’immoto miraggio del costume –
gli inutili angoli sperduti
del mondo, con qualche grido, qualche lume,
qualche parola di uomini venduti
nei più scuri mercati della vita.
Ne ho riportato attestati muti
d’allegria in cuore a una città nemica.
Grande, di questa città, è la notte,
e misera: mille fiati di scheletrita
luce getta il flash su file dirotte
di gioventù, torrenti di motori,
laghi d’angoli bui tra palpitanti grotte
e inanimati grattacieli. Ma, in cuore,
ognuno dei mille atti è lo stesso.
Uno, delle mille allegrie, il dolore.
Muti attestati di un popolo oppresso
e non conscio, diviso in scantinati,
tuguri, lotti – proletariato che il sesso
e il terrore tengono attaccato
alle sue strade di fango: ma, per strade
nuove – ancora ignote – a lui segnato
da avidità e cinismo, l’anima invade
la fame della storia. È già vecchio
il piano di lotta di ieri, cade
a pezzi sui muri il più fresco manifesto.
Muta, in una qualunque notte, il congegno
che fa la conoscenza luce dell’oggetto.
E la vita riappare più viva: segno
che qualcosa, in chi la viveva, muore.
Essa è proceduta nel disegno
che non ha fine: ma il vostro dolore
di non esserne più sul primo fronte,
sarebbe più puro, se nell’ora
in cui l’errore, anche se puro, si sconta,
aveste la forza di dirvi colpevoli.
Ma troppo fonda è, in voi, l’impronta
della lotta compiuta, nel grande e breve
decennio: vi siete assuefatti,
voi, servi della giustizia, leve
della speranza, ai necessari atti
che umiliano il cuore e la coscienza.
Al voluto tacere, al calcolato
parlare, al denigrare senza
odio, all’esaltare senza amore;
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia del clamore.
Avete, accecati dal fare, servito
il popolo non nel suo cuore
ma nella sua bandiera: dimentichi
che deve in ogni istituzione
sanguinare, perché non torni mito,
continuo il dolore della creazione.
Come altri compagni di strada,
il mistico rigore d’un’azione
sempre pari all’idea, non vi chiedo: si paga,
anche questo, con l’aridità. Chi è ossesso
dal timore di essere ciò che fu nei gradi
del suo cammino, ciò che espresse
in ingenui ritorni al popolo, in amori
d’inerme umanitario, in regressi
alla carità – non è. È all’errore
che io vi spingo, al religioso
errore... Si riapre, nel rosso sole
del meriggio d’autunno ancora afoso,
in un’aria di morte, la vostra
festa. Misero e fazioso
è il brusio. Sparge in una chiostra
fra i tronchi freddi falsamente vivace,
le superfici candide la mostra
dei dieci anni d’ingiallite audacie.
Cento baracchette – dove quanto più
ciò che al popolo umilmente piace
cinicamente appare inattuale virtù
di plebe, tanto più è esaltato,
con ingenua ipocrisia, – su
per le misere gobbe, i bagnati
pendii di Villa Glori, empiono l’aria
primaverile della morente estate
di antichi frastuoni di sagra
alla deriva... A migliaia gli iscritti,
piovendo dai rioni dei paria,
vengono all’assalto, si accampano, fitti,
animosi. Snodati i ragazzi
dentro i panni festivi, ricchi
di nastri, fazzoletti, sono come pazzi
di pregustata gioia sotto i cappelli
messicani, rossi come sangue, e tra spiazzi
e albereti, si muovono in drappelli
disordinati, in branchi, soli,
masticando gomma americana, nella
loro generosità senza pudore.
Gli uomini, già perduti in un’abbietta
ubriachezza, nascosta come un dolore,
si portano dietro la famiglia, stretta
intorno alla sporta della merenda,
quasi guide verso la povera vetta...
E là in cima, sotto una tenda
investita dall’incendio senza calore
di cui metà del cielo risplende,
il palco, vuoto. Nulla accora
più di questa innaturale festa.
Tra i gridi più alti, affiora
fondo il silenzio. Nulla resta
di vivo: neanche i colpi acerbi
dei giovincelli pugili, in questa
arena tra i pini, improvvisata, superbi
sopra il piccolo ring, ai gridi
del pubblico accecato da diverbi
ironici e cattivi, allegri e infidi.
Eppure all’appressarsi del momento
più atteso della sera, ha un brivido
umano questo irretimento
di morte: ma non sai ancora
se a più intenso dolore o a più intenso
amore. D’improvviso, nell’aria ormai viola,
la folla nel parco sfigurato
è perduta in silenzi ed in clamori
d’altra vita, di sterminato
esercito, acclamante o in disfatta,
nell’ombra di un vespro dimenticato.
Come un tremito o una cieca risacca
passa sulla folla disordinata tra i clivi,
i prati senza erba, le baracche,
una musica intonata dalle bande
sparse qua e là, luccicando l’ottone
tra magliette e coccarde rosse,
nell’ingorgo del fiume senza nome.
Ed ecco, incerto, un vecchio si leva
dalla testa bianca il berretto,
afferra nella nuova ventata di passione
una bandiera retta sulle spalle
da uno che gli è davanti, al petto
se la stringe, e poi mentre cantano
tutti, affratellati intorno alle gialle
trombe paesane, si pianta
sulle vacillanti gambe, e scuote
al tempo la bandiera a lui santa
sopra le teste cantando con voce
rauca, di povero manovale ubriaco.
Poi il canto, che s’era levato
gioioso, disperato, cessa, e il vecchio
lascia cadere la bandiera, e lento,
con le lacrime agli occhi,
si ricalca in capo il suo berretto.
Su questa baraonda della Villa, il buio
che sommerge la disperata allegria,
è, forse, più l’ombra del dubbio
che la precoce notte. È la nostalgia
dei vecchi tempi, la paura, pur bandita,
dell’errore, che spira tanta malinconia
– non l’aria d’autunno, o una sopita
pioggia – sulla sfiorita festa.
Ma in questa malinconia è la vita.
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