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lunedì 24 marzo 2025

Pasolini, (Ermes tra Musi e Porzùs) UNA LETTERA AL DIRETTORE DEL «MATTINO DEL POPOLO» - 8 febbraio 1948

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pasolini, (Ermes tra Musi e Porzùs) 

UNA LETTERA AL DIRETTORE DEL  «MATTINO DEL POPOLO»

8 febbraio 1948


 Egregio Signor Direttore,


 sono passati tre anni dal giorno dell’eccidio di Porzùs, ma ancora io non so affrontare quella «difficoltà d’infinito» che protegge la vita di mio fratello Guido e il suo volontario sacrificio, dalle nostre disordinate interpretazioni. Certo «interpretare» Porzùs è ancora, dopo tre anni, un’operazione delicata, quasi intempestiva: due partiti, sullo sfondo di uno sconvolto cielo di confine, si contendono la competenza richiesta per estrarre dalle tremende cronache del ’44-’45 quei fatti e assumerli su un

  accomodante piano di storia o di leggenda. Possiamo ammettere che Bolla fosse forse un caso «in fieri» di nazionalismo e il suo rifiuto di fondere le forze osovane con quelle garibaldino-slave presenti qualche incrinatura, qualche vizio d’origine; ciò che però non possiamo ammettere, per appoggiare l’interpretazione democristiana, è che si debba trasferire tutto l’episodio senza limitazioni su un piano di patriottismo in funzione anti-slava e anti-comunista.

 Come fratello di uno di quei morti io mi rifiuto di prestare il mio dolore in qualità di argomento atto a sostenere la tesi di un partito che si è costituito protettore e difensore dei martiri di Porzùs contro un partito nelle cui file militavano gli assassini. So infatti, senza timore di ingannarmi – per l’amore pudico e confidente che mi legava a Guido – che mio fratello e i suoi compagni osovani si trovano con i loro assassini in un rapporto che è semplicemente l’antinomia Bene-Male; così essi – per chi ricerchi senza bende sugli occhi la verità – non sono morti in nome della «Patria», ma in nome di quello che il simbolo «Patria» rappresentava nel 1945 per chi combatteva contro i Tedeschi: sono morti, cioè, in nome di quella Spiritualità che essendo una categoria dell’uomo esisteva potenzialmente anche nei loro carnefici. Se dunque vogliamo che essi, in nome di quella Spiritualità, continuino a vivere, è a Loro che dobbiamo pensare e non ai caduchi simboli umani per cui hanno dato la vita.

 Così l’anno scorso, durante la cerimonia commemorativa a Porzùs, io dovetti ascoltare parole che, nonché confortarmi, mi incollerivano, se da esse risultava tra invocazioni a Dio e alla Patria, che mio fratello, i suoi comandanti e i suoi compagni erano morti «inutilmente» in quanto i comunisti slavi ci avevano strappato parte del territorio nazionale! Ecco a cosa può condurre un’interpretazione interessata, ossia necessitata dal gioco dei partiti a postulare una «utilità»: quando una utilità incorruttibile si è attuata proprio nel martirio, nella scelta della morte, nell’esemplarità del sacrificio – e fuori dunque dalle circostanze determinanti. Contro la tesi retorico-patriottica dei democristiani si trova una tesi dialettica dei comunisti (che preferiscono però passare sotto silenzio la questione) ugualmente inaccettabile. Essi, così almeno suppongo, sono convinti che il nazionalista osovano Bolla fosse da eliminarsi e con lui i suoi «innocenti» compagni, e credono con maggiore o minore sincerità, che il fatto rientri nella necessità implacabile della storia del partito. Ma esiste un’altra necessità implacabile, un’altra storia, la quale pretende che gli «errori siano pagati», e non c’è dialettica che si opponga al corso naturale della giustizia.

 I miei compagni comunisti farebbero bene, io credo, ad accettare la responsabilità, a prepararsi a scontare, dato che questo è l’unico modo per cancellare quella macchia rossa di sangue che è ben visibile sul rosso della loro bandiera...

 Ma mi perdoni, signor direttore, se mi sono lasciato così trascinare dai miei argomenti, ma soltanto ciò che è chiarito e risolto si presta a un discorso sereno; al contrario nel fatto di Porzùs nulla è ancora «chiarito e risolto» e io non posso parlargliene che con passione... Quante volte ho pensato all’inaccettabilità dell’ingiustizia che pesa sulla morte del partigiano Ermes, mio fratello, a quanto sia inconciliabile la sua persona con la sua morte! Basti pensare che l’8 settembre egli era già nel campo di   aviazione di Casarsa a rischiare la vita per portar via armi ai nazifascisti, e da allora non passò giorno che egli non dedicasse, con la purezza e la bontà del diciottenne, tutto se stesso alla causa della Resistenza. Portava giornali e manifestini da Pordenone, dove studiava, a Casarsa e li spargeva per il paese durante il coprifuoco; continuava ad andare a rubare armi nelle caserme; faceva propaganda con un entusiasmo che era quasi imprudenza. E tutto questo in seno al PCI. La sua maturazione politica aveva bruciato le tappe: dalla   turpe ignoranza in cui il fascismo immergeva i suoi giovani-fantocci egli era passato, senza crisi, quasi con la purezza di un fatto naturale, alla luce dell’idea politica a cui la sua generosità senza riserve lo richiamava necessariamente.

Partì poi per Pielungo, per Savorgnano al Torre, per Musi: un anno epico. So di lui imprese di un ardire commovente. Nel gennaio del ’45 era con Bolla ed Enea a Porzùs, dove gli osovani si stavano riorganizzando dopo il disastroso rastrellamento del novembre. Frattanto Guido si era iscritto al Partito d’Azione. Il giorno in cui Bolla ed Enea furono ammazzati egli si trovava a Musi con l’amico D’Orlandi per non so che missione; e stavano insieme tornando verso Porzùs. Ed ecco che alcuni loro   compagni (i quali, dislocati in una malga sottostante, si erano accorti del tradimento e si stavano ritirando), avvisarono i due ragazzi del pericolo. Ma essi non vollero saperne di tornare sui loro passi, e anzi si slanciarono di corsa verso Porzùs per portare aiuto agli amici!... Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzùs percorso da mio fratello in quel giorno tremendo; e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza del cielo. E la persona di Guido è così viva... Vedo in lui tutta la   storia della nostra esistenza familiare, la nostra educazione, gli ideali alla cui luce si viveva quasi disumanamente, senza cioè quegli egoismi e quelle distrazioni, magari invidiabili, che rendevano i nostri compagni diversi da noi. Noi avevamo sempre rivolto il pensiero a non so che imprese eroiche e generose, i nostri giochi erano sempre crudelmente interessati al realizzarsi di una fantasia ossessionata dal Buono e dal Cattivo. Ma ora mi accorgo quanto la natura di Guido fosse sincera e intatta, e quanto assolutamente egli credesse alla verità della nostra storia familiare e alla certezza dei nostri ideali. Vedendolo camminare da Musi a Porzùs verso una morte che egli avrebbe scelta per essere fedele a una vita così breve ma così creduta, qualche volta mi sembra di non resistere all’angoscia, e mi sembra che per lui sua madre, i suoi libri, i suoi divertimenti debbano avere più valore di qualsiasi cosa al mondo; e allora lo chiamo perché torni indietro verso Musi: «Guido!» lo chiamo. Ma Ermes continua a camminare dritto, sicuro, senza pentimenti. 


Pier Paolo Pasolini


©Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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