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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

venerdì 1 dicembre 2023

I connotati di un potere reale - Ancora sulle recenti prese di posizione di Pier Paolo Pasolini - di Maurizio Ferrara

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


l'Unità / giovedì 27 giugno 1974


(Trascrizione curata da Bruno Esposito)


Maurizio Ferrara
l'Unità / giovedì 27 giugno 1974

l'Unità / giovedì 27 giugno 1974

Vivere esteticamente la vicenda politica, aiutandosi con un po' di semiologia, può essere elegante, ma è un errore. Pier Paolo Pasolini torna a compierlo questo errore. Replicando a un nostro intervento sull'Unità {Corriere della Sera, 24 giugno) egli conferma — con qualche estrosità facile in meno e qualche concessione alla ragione politica in più — che, in fondo, il potere va trattato con la P maiuscola perchè è «un tutto » indefinibile ( forse «industrializzazione totale») non identificabile né con il Vaticano, né con le forze armate, né con i potenti democristiani, né con la grande industria.

Tuffi perdenti

Tutte realtà, queste, abdicanti: le quali cedono alla « ideologia edonistica» del nuovo potere (che è «senza volto», come avrebbe scritto Carolina Invemizio se si fosse occupata di queste cose) i loro migliori principi e parametri risucchiati dal nuovo mostro, lo sviluppo, di fronte al quale siamo tutti eguali e perdenti, ricchi e poveri, fascisti e antifascisti.
Siamo di fronte a una « mutazione antropologica », conferma Pasolini, la quale partendo dalla classe dominante, permea e neutralizza le masse, ormai inerti, inebetite dalla TV e dal Totocalcio, emblemi visibili del «nuovo fascismo».
l'Unità / giovedì 27 giugno 1974

Non staremo a rilevare le scaturigini culturali (Adomo) di questa disperata concezione della nostra storia contemporanea. Sono origini culturali pulite, quando non acadono nel rozzo positivismo lombrosiano, e come tali degne di essere considerate. Quel che vorremmo dire è che la loro riproposizione politica a tanti anni di distanza non solo è ambigua ma «casca male», come si dice. Se è vero, infatti, che milioni di italiani hanno gesti e riflessi condizionati dal consumo e dalle sue mode è anche vero che viviamo una fase in cui i riflessi di questa « mutazione antropologica », come la chiama Pasolini, sono fortemente posti in crisi, contestati politicamente, non da altre masse ma dalle stesse che si danno per sedotte.
Viviamo cioè la verifica, in senso contrario a quello che Pasolini afferma, di un fenomeno negativo. Lo abbiamo già detto, e lo ripetiamo: non crediamo che il «no» del 12 maggio sia un «trionfo» o una «palingenesi». Crediamo però (e comincia a non poterne fare a meno perfino la DC) che quella vittoria politica ha un senso profondo; dice che se « mutazione » c'è, essa non avviene nel vuoto di un laboratorio, ma nel vivo di una realtà politica e sociale tutt'altro che spenta. Dato e non concesso che il potere sia un Moloch, i fatti ci dicono che a questo mostro sarà possibile tagliare testa e gambe tanto più agevolmente quanto più le carte del gioco saranno chiare e non mistificate, per sfizio estetico o comodità polemica. Tra queste carte, vi è un dato certo, evidente: ed è che lo sviluppo tumultuoso di questi decenni, insieme ai guai atroci del «miracolo» della DC, di La Malfa e di Malagodi, ha generato contraddizioni e elementi di progretto che restano invisibili (come lo sono, per Pasolini) se per interpretare la realtà politico-sociale ai usa solo il fiuto poetico o la semiologica invece che lo storicismo marxista, se Gramsci è posposto a Dostoievski o, addirittura, a Umberto Eco.
D'altra parte: come si fa a giudicare di sviluppo, e di progresso, assumendo come punto di analisi soltanto lo sviluppo economico e la sua distorsione consumistico-capitalistica?

Unilateralità

Tale unilateralità economicistica fu una sciocchezza anche molti anni fa, quando fu proposta: oggi è penoso ripeterla, pretendendo di discutere di politica mettendo la politica da parte. Se non avesse seguito questo metodo, francamente bizzarro, Pasolini forse si sarebbe reso conto che — e anche col suo contributo — in questi anni abbiamo superato strettoia e paludi cui il rimpianto non spetta. La società pre-consumistica, contadinesca, falsamente « umanistica » di cui egli parla con nostalgia, era forse casta (ma è da dimostrare) ma certamente era indifesa. Vivemmo in molti in quella società
« umanistica »: perchè negare che in queir « umanesimo » provinciale il fascismo potè adagiarsi con una relativa facilità? E d'altra parte, caduto il fascismo, esaurita la stagione della Resistenza, furono i pregiudizi e le falsità abiette di quell'Italia che perdurava a fornire arretratezza politica a tonnellate, per la monarchia nel 1946, per l'ondata clericale del 18 aprile due armi dopo.

l'Unità / giovedì 27 giugno 1974

Cosa c'è da rimpiangere dell'umanesimo » di quell'Italia, se non che la Resistenza non sia riuscita a travolgerlo e che sia durato troppo a lungo? Il vero cammino in avanti, rispetto ai crismi, ai dogmi, ai tabù di quell'Italia a senso unico, cominciò dopo, e andò avanti, anche con il contributo di intellettuali come Pasolini. Ma oggi Pasolini ci invita a meditare sul fallimento generale di quel processo. E' un invito che possiamo ascoltare ma che dobbiamo rifiutare. Su questo punto il dissenso è radicale.
Infatti, tra l'Italia del 1945-1948 e quella di oggi c'è un diagramma, ma va in salita e non in discesa. Nell'Italia del dopoguerra, i valori positivi erano forti ma minoritari.
Oggi non è cosi, la sfera del consenso attorno ai valori del salto in avanti — abbrevio, l'antifascismo — si è enormemente estesa, mode o non mode, consumi o non consumi.
Se dal 1945 al 1948 la curva fu negativa (dalla vittoria della Resistenza alla sconfitta del 18 aprile) oggi, dopo il '68 — questa è la nostra convinzione oggettiva — sapremmo vincere di nuovo con la Resistenza e abbiamo già risconfitto il 18 aprile. Cosa si chiede di più per rispettare questo Paese reale e starci dentro, e non sopra, intellettualisticamente?
Ma, dice Pasolini, questo è un Paese morto, dominato da una cultura di massa « americaneggiante » con i suoi nuovi miti. Un brano di vero e un tutto falso: non basta infatti costatare l'ovvio dei condizionamenti di massa (esistiti in tutte le epoche, anche nel medioevo) per decretare che i condizionamenti imposti dallo sviluppo sono peggiori di quelli imposti dalla miseria. Quanto di nostalgico, e di regressivo c'è in questo idoleggiamento di un buon tempo antico, francamente pessimo? Ma, incalza Pasolini, le « facce » ormai sono tutte eguali, il fascista è uguale all'antifascista, è l'americanismo che vince. Ma noi, Pasolini compreso in questo noi, che ci stiamo a fare? Si guardi attorno, Pasolini: si renderà conto che la spinta a liberare il Paese dalla corruzione del potere non è un lagnoso moralismo di pochi, è una realtà politica di massa, un'aspirazione insoddisfatta e tutta da soddisfare, di milioni di persone che si battono e si schierano — e lo fanno bene — per tagliare il passo, centimetro per centimetro e tutto insieme a un potere politico visibile. Il quale potere, poi, non è vero che non abbia un volto: si chiama DC, padronato ottuso, neofascismo incallito, « tradimento dei chierici », pregiudizio borghese e elencale. Tutta roba che già c'era nell'età dell'oro di Pasolini e prevaleva.

La crisi

l'Unità / giovedì 27 giugno 1974

Oggi è in perdita perchè c'è chi, come noi, la incalza su tutti i terreni per venire a capo — certo non da soli o coltivando i malumori dei «refrattari » — del problema centrale, politico e di classe, il problema della democrazia. Pasolini dice che tutto è spento, la società civile è morta, le differenze di classe in essa non hanno peso, l'ipotesi socialista non c'è più. Eppure mai come oggi la domanda di democrazia e di riforma sociale è vivace, perfino impertinente dicono alcuni. Ed è questa domaada che scuote un impopolare potere, mal vissuto e tutt'altro che leviatanico. Quale potere, del resto, è tanto leviatanico da poter ignorare I mutamenti che avvengono non ai margini ma al centro della società?
Non c'è, « americanismo » che tenga. Perchè Pasolini dimentica che abbiamo vissuto la crisi del « sogno americano » durante gli anni del Vietnam? E che questa crisi è stata merito della rivolta delle masse giovanili americane a facce eguali, dominate fino alla pazzia dal consumismo più raffinato del mondo? Da noi siamo molto più avanti, non solo perchè l'« americanismo » è di importazione ma perchè ci siamo noi, un noi politico e di classe che non è più quello del '45-48, prospera perfino dentro i meandri del mondo cattolico. Che senso ha, di fronte a queste dilatazioni di volontà politiche che
sono più forti ed egemoni delle mode che le accompagnano, rimpiangere l'età d'oro preconsumistica segnata da ghetti e steccati invalicabili?
Aver contribuito a rompere quegli steccati, aprire quei ghetti, incrinare soggezioni ataviche, non fu populismo, fu opera politica superiore.
L'impresa continua, oggi su terreni più complessi, meno schematici ma più avanzati.
Che senso ha dunque, se non regressivo, non guardare dentro i cervelli, fermarsi alle facce, in un processo involutivo che nega la storia e si attesta, sul crinale pericoloso di una sorta di misticismo fuori epoca che, certamente, se c'è quel potere di cui parla Pasolini, lo sostiene, sia pur lacrimando?

Maurizio Ferrara

l'Unità / giovedì 27 giugno 1974



Curatore, Bruno Esposito

Collaborano alla creazione di queste pagine corsare:

Carlo Picca
Mario Pozzi
Alessandro Barbato
Maria Vittoria Chiarelli
Giovanna Caterina Salice
Simona Zecchi

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