"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
l'Unità / mercoledì 12 giugno 1974 |
Vedi anche:
Pier Paolo Pasolini, «Gli italiani non sono più quelli» - Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia
Politica e società secondo Pasolini - I Pasticci dell'esteta, di Maurizio Ferrara
Pier Paolo Pasolini - Il potere senza volto
Ancora sulle recenti prese di posizione di Pier Paolo Pasolini - di Maurizio Ferrara
Pasolini, gli Italiani oggi - Controcampo, trasmissione del 19 ottobre 1974
(Trascrizione curata da Bruno Esposito)
Politica e società secondo Pasolini
Dal rimpianto dell'età dell'oro a un approdo sempre più ambiguo,
dove si perde perfino la distinzione tra fascismo e antifascismo
l'Unità / mercoledì 12 giugno 1974 |
Non si può negare a Pier Paolo Pasolini il fiuto per le anomalie e le contraddizioni affioranti dal magma della società. Quel che preoccupa, tuttavia, quasi la spia di una crisi di involuzione profonda, è che i congegni di ragionamento politico che Pasolini costruisce con fluviale generosità, raramente ormai sfuggono all'ambiguità. Forse per Pasolini si può cominciare a pensare ciò che Mario Spinella ha scritto del « Corporale » di Volponi. E cioè che muovendosi in una ispirazione apparentemente democratico - estremistica, e anatomizzando i meccanismi di crisi della società, il risultato è un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l'età dell'oro perduta.
Anche Pasolini sembra giunto su questo crinale, sospeso nel vuoto: e vi giunge con una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico che si nega, stizzosamente, al riconoscimento che qualsiasi età dell'oro — se mai ne è esistita una — è improponibile. E che, quindi, l'epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie (la visiera di Stalin, di Volponi, il sottoproletario santo di Pasolini) la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti.Ma non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro, negando ogni legittimità ai cambiamenti societari per il fatto che si tratta di eventi che, verificandosi in assetto capitalistico, sono fitti di scorie e contraddizioni.
Deprezzamento
politico
l'Unità / mercoledì 12 giugno 1974 |
A osservazioni di questo genere spinge l'ultimo gesto politico di «provocazione» di Pasolini: una « Tribuna aperta » (insolitamente pubblicata dal « Corriere della Sera > con vistosa evidenza) dedicata al dopo-12 Maggio e al dopo-Brescia. E' un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenziale che, francamente, ci sembra anacronistico avendo come punto di riferimento proprio il 12 Maggio e Brescia. Si tratta di fatti entrambi importanti sui quali se non ci sembra legittimo mitizzare ci pare arbitrario decretare affrettate dichiarazioni di fallimento preventivo per il motivo che, in entrambi i casi, il vero vincitore del confronto, il demiurgo che ha presieduto alla vittoria del « no » e alla strage di Brescia è sempre lo stesso: il Potere (con la P maiuscola) espressione egemonica incontrastata della società dei consumi.
Dobbiamo dire, con tutto il rispetto, che ogni volta che ci troviamo di fronte all'evocazione di questo Potere con la P maiuscola, sentiamo la presenza di una fuga intellettuale dalla ragione e dai suoi obblighi, un « tradimento di chierici » come si diceva una volta. Dal rifiutarsi di connotare il potere di classe con i suoi nomi politici alle tenebrose e insolventi fumisterie dello spiritualismo, sempre reazionario, il passo è brevissimo.
E questo passo Pasolini rischia ormai di compierlo fino in fondo, preso fino al tormento per l'usura della ragione cui è destinato chi assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici.
Guardando al 12 di maggio con questa ottica è del tutto naturale che Pasolini resti deluso. Non si tratta infatti di un « trionfo » (e qui sbaglia nell'addebitare a noi questo termine, deve rivolgersi ad altri) ma soltanto di una vittoria che, però, a stare a ciò che dice Pasolini, non può che essere una vittoria di Pirro.
Che senso ha, infatti, il vincere se poi i protagonisti della vittoria (che sarebbero soltanto i ceti medi) finiscono per assumere in luogo dei loro « valori tradizionali » perduti (gettati a mare « cinicamente » dal Potere, nota quasi malinconicamente Pasolini) altri valori immondissimi, come « la ideologia edonistica dei consumi, la tolleranza modernistica di tipo americano »?
Forse l'ammettere più sensatamente, e realisticamente, che il 12 Maggio non è stato uno scontro fra Bene e Male ma una dura battaglia politica italiana degli anni '70 che ha dimostrato la crescita di un processo di maturazione democratica, deve essere sembrato poco. E in effetti è poco, quasi una scontata banalità, per chi guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico e avrebbe voluto quel « trionfo » che non c'è stato perchè impossibile nell'Italia di oggi. Ed è quasi un nulla, per Pasolini, la verifica che anche tramite un e « no » politico, ben dato contro qualcuno, vi siano stati ceti che liberandosi da ceppi culturali da sottosviluppo, siano trasmigrati nella sfera della « cultura di massa »: nella quale, ce lo permetta Pasolini, non è secondario che accanto alle molte scorie immesse dal Potere (dai « caroselli » TV alle mode) vi sia pure qualcosa che scoria non è, è politica immessa dal movimento democratico: come l'ammissibilità del divorzio, la negazione dei « valori » clericali, la difesa della democrazia come garanzia di libertà, l'emancipazione della donna, una nuova concezione della famiglia.
Lo abbiamo già detto, vale ripeterlo: favoleggiare in termini palingenetici sul 12 maggio è puerile. Ma accusare il 12 maggio di non essere una palingenesi, è perlomeno gratuito discredito verso masse immense che nell'esporsi a una scelta politica contro il Potere politico (e chiamiamolo Fanfani, DC, MSI) si sono dimostrate forse meno sofisticate ma, certo, più sensibili di Pasolini al valore che in sé — anche al fine socialista — ha la dilatazione della democrazia civile.
Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent'anni fa, quando in una loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai « caroselli » che siano? Se il « no », dunque, non è stato un trionfo cosmico, non è neppure stato un semplice cambio della guardia tra un pregiudizio e l'altro. Ed è perlomeno ambiguo, risulta un favore postdatato a chi durante il referendum predicava che il divorzio è un vizio da ricchi consumisti e corrotti, sostenere che poiché il « trionfo » è mancato laddove si legge vittoria democratica abbia da leggersi perfida astuzia dell'onnipotente Potere.
Analoga responsabilità nell'equivoco — e più grave data la materia — si assume Pasolini nella parte dell'articolo dedicata alla questione fascismo-antifascismo. Anche qui l'ossessione di tener fede allo schema dell'ideologia dell'anticonsumismo e della negazione in assoluto della « cultura di massa », induce Pasolini a concedere un visto di entrata alle tesi di chi ha tutto l'interesse politico a che i contorni del fascismo e dell'antifascismo restino annebbiati. Sulla natura e attualità di questi contorni il discorso è aperto, anche nel movimento operaio, e da tempo. E dunque di questo sì discuta, se si vuole strappare l'antifascismo alle sue fissità. Ma che senso ha, invece, il deprecare che sussistano ancora termini come fascismo e antifascismo che, a parere di Pasolini — anche dopo Brescia — non significano più niente? Non diciamo che Pasolini voglia dare una mano ai « mostri » del fascismo. Diciamo però che, in fondo, rifiutandone la specificità politica, e la tragica attualità, finisce per chiederci di ignorarli. Il che è aberrante, sempre e comunque, ma in particolar modo in una società nella quale la distinzione fascismo-antifascismo non risulta un obbligo rettorico ma una perdurante e amara necessità del tempo politico reale.
Unificazione
inesistente
Che senso ha, se non deviante, assumere per dato politico sicuro alcune intuizioni psico-sociologiche di dubbia estrazione e livello culturale, fino al deprezzamento della « indignazione antifascista » dopo Brescia?
l'Unità / mercoledì 12 giugno 1974 |
Pare poco, a Pasolini, che a distinguere gli uomini sia la scelta politica, la « decisione ». E ce ne dispiace per lui. D'altra parte, quando, e con pretesa di analisi e indicazione, si arriva a considerare « schema morto », « gesticolazione », l'intera attività politica, ovunque collocata, e nel giudizio si fa spazio dominante alla circostanza che i giovani, fascisti e antifascisti, vestano egualmente e abbiamo identici « dati somatici », il discorso si fa difficile, quasi impossibile.
Parlare il linguaggio delle idee è d'obbligo: parlare il linguaggio delle « facce » è pasticcio, sedimento lombrosiano vagamente razziale. Ed è questione che non ci compete.
Maurizio Ferrara
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