"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Pasolini
Nell'Africa nera resta un vuoto fra i millenni
Il Giorno
20 marzo 1970
Nella Costa d'Avorio si parlano 80 lingue diverse; questo significa che nella Costa d'Avorio vivono 80 piccoli popoli diversi, legati tra loro dai legami puramente teorici che legano fra di loro, per esempio, gli indoeuropei.
Lo stesso fenomeno si ha in tutta l'Africa nera equatoriale: gli Ibo, gli Youruba e gli Haussa nella Nigeria, non sono che le «razze» più importanti del paese; insieme ad esse convivono decine di altre tribù, con lingue e tradizioni diverse.
Nell'Africa sudanese il fenomeno è un po' più semplificato; il Mali, il Niger e la Nigeria hanno in comune molte popolazioni (i Peul, i Tuareg, per esempio) le quali dunque - pur essendo ognuna per lingua e tradizioni strettamente unitaria - appartengono a Stati diversi.
Le popolazioni dell'Africa equatoriale nera sono per lo più contadine, e occupano da molto tempo lo stesso territorio, come una specie di tomba in cui hanno sepolto la loro storia, e in cui sono divenute se stesse fino al parossismo, esprimendo la propria vita attraverso canoni sempre identici a sé e iterativi (ho in mente le porte delle case delle tribù Baule, in Costa d'Avorio): la soluzione del difficile rapporto tribù-nazione, dunque, nell'Africa nera equatoriale potrebbe essere la soluzione classica dell'autonomia regionale, della federazione, del decentramento del potere: così che l'artificialità degli Stati disegnati sui tavolini europei dei colonialisti, appunto perché pure astrazioni, finirebbero col diventare un fatto positivo, in quanto le federazioni di piccoli popoli o tribù non sarebbero minacciate dal vecchio spirito nazionale-statale che rappresenta in questo momento la «vecchiezza» dell'Europa.
Il problema dell'Africa sudanese - della savana - è invece più complicato, perché le tribù sono di pastori nomadi: dicevo che i Peul e i Tuareg vivono sparsi nel Mali, nel Niger e in Nigeria, ma anche in Mauritania, e credo, nel Tchad: una nazione Peul o Tuareg è dunque impossibile, almeno così come viene attualmente concepita una nazione (come se fosse obbligatorio cioè che una nazione debba necessariamente coincidere con una sovranità territoriale). Va constatato, comunque, che il problema del rapporto tra tribù e Stato è molto meno drammatico là dove è meno risolvibile, cioè appunto nell'Africa sudanese, dove finora casi come quelli della Nigeria e del Congo non si sono verificati (ma non sono sufficientemente informato di ciò che succede nel Tchad).
I Peul, i Tuareg e gli altri popoli, sparsi in vari Stati lungo il margine del Sahara, si sentono abbastanza estranei a questi loro rispettivi diversi Stati, cioè si sentono naturalmente abbastanza autonomi e orgogliosamente soli, per accettare il dato di fatto di essere integrati in uno Stato razzialmente e storicamente diverso. Esiste una ideale nazione Tuareg, sparsa in vari Stati, che si sente psicologicamente <<separata>>, e rifiuta l'integrazione. Ci pensano gli americani: nel Niger, per esempio, dove intorno alle miniere di uranio (e altrove intorno ai pozzi di petrolio) si avranno fenomeni di integrazione necessitata con tanta virulenza dalle cose, che i Tuareg si troveranno non più Tuareg da un giorno all'altro: lavoratori, al fianco dei Sangai o degli Haussa, nelle stesse miniere, nelle stesse fabbriche ecc.: col miraggio di un improvviso benessere (da notarsi che il benessere in Africa coincide con l'assimilazione di un mondo non africano, con l'industrializzazione: non c'è insomma, come in Italia, il doppio processo (quasi secolare), per cui si ha prima il fenomeno dell'industrializzazione e in un secondo tempo il benessere neocapitalistico ecc.).
Nella vita quotidiana, nell'«esistere» degli africani, c'è un certo vuoto (quindi anche psicologico) che si è evidentemente aperto in essi con la <<catastrofe spirituale>> dell'uomo preistorico che viene brutalmente a contatto col mondo moderno; c'è in lui una frana interiore di vecchi modi di vita, che lascia appunto uno stato di vuoto, che assomiglia a una specie di stordimento, o stupore o dormiveglia. n loro ingresso nel mondo moderno ha qualcosa di automatico e assente. Malgrado questa lentezza dovuta ai gesti «rallentati» che si hanno in sogno, l'irruzione dell'Africa in una nuova epoca (appunto il neocapitalismo) è uno dei fenomeni storici più veloci che si siano mai avuti.
Si sono avuti e si hanno in Africa degli Stati «socialisti »: la Tanzania ancor oggi, il Mali fino a un anno fa (ora un colpo di stato militare ha liberalizzato il Mali, e tende a inserirlo nuovamente nella grande federazione delle ex-colonie francesi dell'Africa Occidentale, che ha in Dakar e ora forse ancor più in Abidjan le sue capitali più occidentalizzanti): ma si tratta comunque di un <<socialismo >> molto particolare: a Dar es Salam si vendono ritratti di Mao sotto una vetrina in cui sono esposti frigoriferi americani; in Tanzania e nel Mali ci sono fabbriche costruite dai cinesi; ma i cinesi non si vedono mai in giro: sono impalpabili presenze carismatiche di cui si sa solo che ci sono. A Dar es Salam l'anno scorso, mentre io ero là, c'è stata un'unica contestazione studentesca: il suo oggetto era la protesta contro la minigonna; inoltre in Tanzania sono state nazionalizzate le banche, ma a rimetterei è stata la borghesia, la quale è però esclusivamente indiana (si tratta di indiani emigrati dall'India durante la colonizzazione inglese).
L'unico Stato dove il governo cerca di attuare il socialismo rigoroso pare sia la Guinea di Sekù Turè. La Guinea è l'unico Stato dell'Africa Occidentale {con il Mali, che però appunto pare stia cedendo) che non aderisca a quella specie di Commonwealth che è l'Africa Occidentale francese: il grande rifiuto della Guinea risale al no a De Gaulle di alcuni anni fa. Da allora la politica di questo paese è stata di una straordinaria coerenza.
Gli altri Stati «integrati», intorno, guardano la Guinea con un misto di disprezzo e ammirazione, di rabbia e rispetto. I <<bianchi>>, più o meno consapevolmente neocolonialisti - prodi Cavalieri dell'Occidente che risiedono nei comodi quartieri di Abidjan e di Dakar - parlano di Sekù Turè, crollando il capo, per commiserazione e compatimento: poi zitti, non aggiungono altro, fanno i competenti misteriosi, che essendo ben addentro nelle cose dell'Africa, non possono approvare un Governo che costringe i cittadini a un'austerity che rasenta la miseria. Ed essi, i tecnici bianchi, assolutamente <<senza sospetto>> non possono che disapprovare teologicamente chi si rifiuta al benessere (che, tramite loro, è a portata di mano). Non san capaci di far altro che scrollare la testa.
Non sono stato a Conakry, la capitale della Guinea: ma è li che mi riprometto di andare nel mio nuovo viaggio in Africa. Attraverso l'esperienza indiretta che ne ho avuto, mi sembra infatti che la Guinea sia l'unico Stato africano sulla strada giusta, perché è una strada difficile e drammatica, che vive categoricamente la crisi del passaggio d a una storia all'altra, e non <<in sogno>>, come succede negli altri Stati africani, che dal sonno preistorico si ritrovano, da un giorno all'altro, nel sonno neocapitalistico (anche questa è una realtà, intendiamoci, e io non faccio considerazioni settarie). Da notarsi che la maggior parte delle tribù africane contadine e artigiane - hanno un tradizionale sentimento comunitario della proprietà: i campi sono dei villaggi, in comune.
C'è dunque in essi una strana disposizione a una società comunista: probabilmente la grande difficoltà di Sekù Turè, isolato, quasi per una specie di sanzioni, in un lembo dell'Africa tra l'oceano e una catena di monti selvaggi, consiste nel conciliare questo spirito comunitario arcaico con l'industrializzazione e l'organizzazione moderna della società. Solo la brutalità antologica del benessere - concesso come un miracolo degli uomini bianchi - pare abbia la possibilità di sciogliere d'incanto una vecchia mentalità tribale, polverizzandola in una improvvisa, e quasi sognata, appunto, smitizzazione.
Mentre il comunismo non smitizza, ma, al contrario impone <<altri>> miti, rifiuta la soluzione del miracolo, non vuole abbandonare all'albeggiante società consumistica dei tramortiti <<uomini vuoti>>. Ci sono altre osservazioni, forse un po' troppo generali, ma che mi sembrano inevitabili, da fare. La prima osservazione riguarda la diffusione del cristianesimo in Africa, e le sue conseguenze. Ho conosciuto nel sud del Sudan (tra i Denka che vanno ancora completamente nudi, e non conoscono l'uso della moneta, praticando il baratto) dei deliziosi piccoli missionari (tra cui un mio vecchio compagno di elementari friulano). Il paese dei Denka è il più poetico paese del mondo; non ho visto in nessun luogo nulla di simile (aveva completamente ragione Rousseau?). I Denka sono dunque in piccola parte cristianizzati; hanno a Wau un loro piccolo vescovo, dolce e timido. Ma mi accorgo che uso il presente, mentre avrei dovuto usare il passato. Infatti i Denka sono stati quasi completamente distrutti dalle truppe del governo centrale, mussulmano (allora il capo dello Stato era il famigerato Abboud). Anche gli Ibo in Nigeria erano non-mussulmani0 (cioè feticisti, e quindi in parte cristianizzati). Insomma, il cristianesimo in Africa è stato, oggettivamente, prima il persuasore occulto del colonialismo <<civilizzatore>>, e poi uno dei pretesti, molto popolari, per gli attuali genocidi dell'era neocolonialistica.
La seconda osservazione da fare è che ci sono in Africa alcuni piccoli popoli o tribù che si rifiutano di accettare il mondo nuovo e dunque, praticamente, la storia. È stato mai scientificamente studiato un fenomeno di questo genere? Che ha l'equivalente, in Europa, negli zingari? (quegli zingari che nessuno ricorda come tra le più innocenti vittime delle soluzioni finali di Himmler, come se anche oggi, ai nostri occhi, non fossero uomini del tutto degni di vivere). Fenomeni come quelli degli zingari cominciano a presentarsi come molto comuni e tipici nell'Africa d'oggi. Si vedano specialmente i Tuareg (ne ricordo alcuni in visita al museo di Niamey, straniati a tutto); e, meglio ancora, la tribù dei Beja (nel Sudan), che si chiudono nei loro villaggi dove non lasciano entrare nessuno (io ci ho provato, e ho rischiato la vita, perché dei giovani hanno sguainato le loro sciabole, e non avevano affatto l'intenzione di scherzare).
A rifiutarsi alla storia, in una misteriosa decisione collettiva e irrevocabile, sono soprattutto le tribù nomadi di pastori. I contadini, così più tradizionalisti e anche fanatici, sono .invece più pronti ad accettare gli inviti della civiltà borghese (<<contadini>> diceva Lenin <<sono dei piccoli borghesi>>). I loro idoli agresti sono già raccolti nei piccoli preziosi musei delle capitali, Niamey, Bamako; stupendi idoli di legno, rivestiti di fibre; d'una bellezza che dà una profonda commozione; pensando che tali idoli contadini dovevano essere identici, per esempio, a quelli del Lazio prima dell'arrivo di Enea, mi sono sentito gli occhi improvvisamente bagnati di lacrime.
Pier Paolo Pasolini
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