"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
"La vigilia di Accattone"
Il 21 ottobre, 1961
Mi alzo, mi metto al lavoro – per ingannare il dolore di Accattone, e no, non sto affatto bene.Lo stomaco è come una bolla che lancia bolle, su, contro la cassa cranica, come contro un coperchio chiuso: non potendo esplodere, comprimono il cervello, e mi danno una specie di capogiro secco, da malato di cuore. È l’effetto della cucina cinese... E così, adesso, chino sui fogli della Storia interiore, penso quasi con ostilità al padrone del ristorante, cinese, appunto, e a tutti quei suoi piatti e piattini.
Era un uomo piuttosto grande per essere cinese: molto gentile, e veramente timido. Un capello – dico un solo capello – o al massimo due o tre, se non mi si vuol prendere alla lettera – gli si staccava dalla calotta nera, un po’ larga alle tempie, da professore, e gli pendeva inerte e assurdo sulla fronte. Nella sua estrema cortesia, egli non faceva altro che lottare contro quel suo capello, cercando di rinserirlo nella calotta, senza mai riuscirci.
Ad agitarlo così era Fellini: io non certo – cinese com’ero, quasi quanto lui.
Fellini ordinava i cibi con acribia di mago: la cena – in quel locale da Dolce vita – era una vera e propria regia. E Fellini usava la sua tecnica etnica: pascoliana. Io l’avrei abbracciato, con quei suoi occhioni calamarati, con quelle sue guancione avvilite.
Eravamo lì per perdonarci a vicenda la questione di Accattone. Anzi, ci eravamo già perdonati, e ci restava da consolidare e verificare il perdono. Era una situazione molto difficile: e solo la zuppetta di pinne di pescecane, il pollo con le mandorle, l’insalata di soia e bambù, il piatto di arancini e zenzero, e il delizioso tè di gelsomino, potevano in quel momento agire da riparo, da transfert. Ci siamo buttati su quella cena, e sulle strane facce dei commensali, come naufraghi su un salvagente.
È molto più facile litigare che sperimentare di comune accordo la persistenza del vecchio affetto.
Lui – mi aveva subito detto – aveva dovuto rispondere almeno a cinquanta persone che si accanivano: «Lo vedi, il tuo Pasolini...». Io non a cinquanta, ma almeno a una dozzina che mi deversavano all’orecchio: «Lo vedi, chi è Fellini...». Quanto a me rispondevo, quasi con ira, che qualsiasi cosa facesse Fellini, sia pure coscientemente, contro di me, non avrei potuto arrabbiarmi con lui. E anche lui aveva dovuto difendersi, in modo analogo, e forse più drammaticamente di me, perché il giro dei miei amici è più ristretto e, vorrei dire, anche più scelto: certo per il diverso mestiere che io faccio.
Ma quanta amarezza, quanto disordine, quanta passività, di fronte alla lenta alienazione che ci porta per una via insensibilmente ma inevitabilmente diversa da quella sperata... Diversa, dico, rispetto alle speranze morali dell’adolescenza. Uno fra i più grossi dispiaceri – di quelli consolabili, da non potersene capacitare – della mia adolescenza, è stato passare, avidamente, dalla lettura dei Tre moschettieri a quella di Vent’anni dopo: vedere l’amicizia tra i moschettieri – quella pura, quella ideale, quella precostituita fantasticamente... – così alterata... dagli anni. Athos, Porthos, Aramis, D’Artagnan, dopo vent’anni, ancora amici, ma divisi da qualcosa che – allora, da ragazzo – mi pareva orrendo: gli interessi dell’inserimento sociale, la diversità delle opinioni: divisi fino al tradimento, un tradimento sottile, giocato con la vecchia amicizia. Qualcosa, insomma, che un giovane non può concepire. Una mescolanza inammissibile, che allora (ma anche oggi!) mi dava un dolore istituzionale... Sono passati vent’anni...
La bella Mercedes nera di Fellini, ci aspetta li fuori. Filiamo – con la corsa tipica di Fellini, distratta, lenta e vorace: non ho mai notato uno stile così riconoscibile nel guidare – verso la solita meta: che è una tradizione recente, rispetto alle Notti di Cabiria (allora si andava a fare un giro, onirico, tra la Flaminia e la Cassia), ma abbastanza solidamente fissata.
La Cristoforo Colombo; poi il lungo mare di Ostia, un obitorio, una pista di aeroporto abbandonato; e la strada di Torvajanica, con la sua costa di cespugli contorti come gruppi di serpi, e compressi contro la sabbia, dalla marea, dal vento, dalla mano di un Papa...
Una chiacchierata senza fine: faticosa, questo sì, ma poi pian piano sempre più intenta e agitata. E, in principio, tutto un lamento: l’incapacità a sopportare i lati sgradevoli del successo, la sua degradazione, la cattiveria dei servi che esso scatena, l’alterazione continua, feroce della propria vita privata, di sé.
A lui – mi dice con la sua voce stupita, bassa, ipnotica – è successo che la gente – certe signore, certi uomini distinti, certa gioventù – incontrandolo, riconoscendolo e guardandolo, dopo la Dolce vita, ha avuto – e ha – negli occhi uno sguardo speciale – non più quello d’un tempo, di connivenza ammirata – uno sguardo sporco, ammiccante, spudorato... E questo lo angoscia, lo umilia, gli dà un dispiacere incontrollabile.
A me – glielo racconto con quella mia maledetta voce rotta dall’ansia – è successo che al cinema Reale, a Trastevere, vedendo il mio nome come sceneggiatore de La lunga notte del ’43, la platea ha rumoreggiato, lievemente, ma con quel tanto di cattiveria e di ironia, che mi ha dato, nei precordi, il terrore del linciaggio. E si capisce: è tutta l’estate che escono dei cinegiornali in cui dei servi mi fotografano abiettamente e commentano le loro fotografie altrettanto abiettamente, con quell’umore qualunquistico e volgare di fronte a cui le platee italiane sono tanto indifese. Esse non hanno altro documento su di me che quelle abiette allusioni, fatte in malafede pura.
Fellini cerca di confortarmi: ma siccome è anche lui un angosciato, come me e forse peggio di me, le sue parole non fanno altro che accrescere la mia angoscia. È giusto quello che egli dice, e cioè che non bisogna avvalorare in nessun modo, confermare a nessun patto, il «personaggio» che i cronisti fanno di una persona vera, nell’alterazione che essi perpetrano con la piena coscienza del male.
Ma allora cosa fare, se non sono capace di non parlare apertamente e di non rispondere apertamente? La cosa è senza speranza, una valanga che rotolando si fa sempre più grossa: a ogni difesa della mia «persona», corrisponde, nella mostruosa malafede della stampa benpensante, una nuova alterazione del mio «personaggio», senza soluzione di continuità.
Così chiacchieriamo, nella notte esagitata sul Tirreno, a stento. Ed ecco che al margine della strada, contro quei cespuglietti ricciuti e schiacciati, come cosparsi di cipria, vediamo due che ci fanno animosamente dei segni. Freniamo. È una coppia, sana, giovane, e un po’ riservata, che ci chiede aiuto: la loro Topolino si è affondata nella sabbia. Li seguiamo per uno stradello ingoiato dal buio, lungo un muro che pare sopravvissuto a un magazzino appena bombardato, tra un penoso abbaiare di cani. La Topolino è lì, sghimbescia, nera. Fellini e io cominciamo a aiutare il giovanotto, sotto gli occhi umidi – da cagna dolce e impaurita – della ragazza: e spingi, e spingi, sopra quella infernale sabbia, contro quei tetragoni parafanghetti. Finalmente uno scossone: è fatta.
Riprendiamo la Mercedes, grande come una baleniera. La sudata ha sciolto le angoscie. E, tutt’a un tratto, con l’antico fervore, parliamo del prossimo film di Fellini... Egli mi parla, mi parla, mi fa balenare davanti agli occhi, col suo stupore di mago, le immagini di quella che potrebbe essere la sequenza finale della storia... Immagini precise e inafferrabili, vitali e mortuarie... Ha qualche incertezza, io cerco di intervenire, nella materia, fresca e misteriosa, con qualche improvvisa, schematica soluzione...
Parliamo a lungo: ma il segreto di laboratorio mi impedisce di riferire oltre. Torniamo, infervorati e intimamente contenti, tesi verso qualcosa, liberi dall’angoscia, molto tardi, a Roma. Ci salutiamo, baciandoci, a piazza di Spagna.
La notte è ormai fonda. I segnali della circolazione, adesso che tutto è vuoto, sono una vera folla, e indicano, tutti insieme, freneticamente, le loro direzioni al nulla. Puntano a destra, a sinistra, di sghimbescio, di fronte, a frotte, isolati. Sembrano tanti crocifissi: qualcuno ha schiodato il braccio destro, qualcuno il braccio sinistro, qualcuno una gamba, e penzolano immobili e inerti nella notte – così furiosamente recente – dei vent’anni dopo...
Col ricordo, impresso nel cervello come una calcomania, del padrone del ristorante cinese, mi metto al lavoro. L’aver perso Accattone, l’aver subito questo arresto nella vitalità, continua a colorare di una tinta di dolore tutta la vita: «Bocciato in regia», come dice una livida persona sull’«Espresso». Per fortuna è una mattinata calma. E vado avanti con la Storia interiore, questo assurdo lavoro di risarcimento: purtroppo però la situazione psicologica è molto simile a quella del ragazzo del ’46, quando ho cominciato questa roba.
Lavoro, scrivo, ricopio, finché – come ci eravamo messi d’accordo ieri, alla proiezione de La giornata balorda – verso le dodici e mezza viene a trovarmi Bolognini.
È bello, nutrito, reduce da un periodo di riposo, con la voce calda e un po’ roca nei toni falsamente fatui delle sue apprensioni, elegante nelle sue stoffe marroncine o grige, inglesi, acquistate da Testa: il giovane vescovo-conte di un piccolo feudo toscano, capace d’indossare ora l’armatura – non troppo pesante – ora la tonaca – non troppo impegnativa. Sento per lui, vedendolo, nella confortante luce mattutina, un forte affetto: sono ormai anni che lavoriamo insieme. Mi trovo legato a lui come a un compagno di scuola.
È venuto a parlare con me del suo prossimo film, sceneggiato da Pratolini, da un vecchio romanzo di Pratesi: mi chiede, nel suo consueto terrore della vigilia, qualche suggerimento, qualche modifica, o, comunque, la mia critica. Discorriamo a lungo, volentieri, perché si tratta di un lavoro veramente buono.
Mentre parliamo, gli occhi di Bolognini cadono sull’enorme pacco di fotografie del mio film, rimaste qui, come il deposito di un’alluvione, su un tavolino dello studio. Comincia a guardare pigramente, poi con interesse sempre maggiore, quasi preoccupato, poi con autentico stupore. Scopre il materiale del mio film, e ne resta attonito: quelle facce dei miei personaggi veri – assurdi e veri, ridicoli e veri, disperati e veri – lo mettono di fronte al fatto inevitabile di sentirsi emozionato. So che lui è resistente a questi entusiasmi: la sa lunga, il vecchio cinematografaro, il vecchio uomo di gusto, e, infine, il vecchio cattolico: perciò son tutto contento, e più forte mi sanguina dentro il dispiacere di averli perduti, tutti quei miei personaggi, tutti quei miei luoghi. Sono come un trapassato che svolazza, fatto ormai irrimediabilmente spettro, nei luoghi dov’è vissuto. Io, che da anni non soffro di nostalgie, sono rigettato, quasi per punizione, a soffrire ora di questa nostalgia, struggente e terribile.
Come Bolognini se ne va, con la sceneggiatura sotto il braccio, tranquillo e roco – dandomi appuntamento per stasera, se voglio, a una cena fredda da Bice Brichetto – vado al telefono e chiamo Cervi.
Caduta la produzione Fellini, sono, infatti, ripiegato sull’Ajace – Cervi e Jacovoni – come un figliol prodigo, con le carte scoperte.
Cervi mi ha riaccolto pieno di buone intenzioni. È accorso subito Interlenghi, che doveva fare la parte di Accattone, e poi, nella gestione di Fellini, era caduto, lasciando il posto a Franco Citti, la «scoperta». Interlenghi mi commuove molto. Non ho visto per anni un uomo preso da tanto entusiasmo per qualcosa come lui per questo film. Ora la mia posizione con lui è delicata, perché avevo sempre pensato a lui, è vero, come possibile protagonista. Poi, dovendo rinunciarci, sono stato costretto a scoprire un Accattone vero, a cui mi sono però immediatamente affezionato, come uno scrittore a una sua invenzione stilistica, a una rima che gli sembri perfetta.
Ora, riaccettare Interlenghi, mi suona quasi un compromesso. Ma nel tempo stesso l’idea di lavorare con lui, così vicino a me nell’entusiasmo, così pronto e cosciente, mi dà una specie di sollievo.
In pochi giorni Cervi, Interlenghi e io (Jacovoni è fuori Roma) prepariamo tutto: vediamo il materiale, buttiamo giù il piano di lavorazione, e infine, dopo aver data la sceneggiatura, andiamo all’Euro, a cui Cervi si è rivolto per la distribuzione, condizione senza la quale in Italia è impossibile fare un film (come se un editore, insomma, potesse pubblicare un libro solo dopo averlo stabilito coi librai).
Bene, andiamo all’Euro. C’è solo Frizzi (Sbarigia è anche lui fuori Roma). Durante la notte egli ha letto la sceneggiatura, restando sveglio fino alle quattro di mattina, perché l’ha voluta leggere forte, con la moglie. Mi sembra completamente convinto: quando poi sa da Cervi le condizioni e il basso costo del film, la cosa è fatta.
Frizzi è un tipo alto, forte e compatto di bolognese. Un ragazzetto della pianura padana diventato adulto nella palude romana: ex-fascista repubblichino, ha distribuito in questi mesi La lunga notte del ’43. Dovrei detestarlo, comunque, e invece, devo dire, non mi è antipatico: il qualunquismo, origine e rifugio del fascismo, l’ha riassorbito completamente.
Come lui dice, con la sua violenza di pronuncia emiliana, nel suo mondo, quello che unicamente conta, infatti, è la Lira.
Allora, non resta che aspettare, con fervore e speranza, Sbarigia, che deve tornare entro due giorni dall’estero: aspettiamo, e intanto finiamo di organizzare ogni cosa. Stabiliamo il giorno in cui cominciare, la prima scena da girare; discutiamo i contratti degli attori; anzi, le ragazze, la Franca Pasut, la Silvana Corsini, la Paola Guidi, vengono addirittura convocate. Completiamo il piano di lavorazione. Salutandoci, alla porta del palazzetto di liquorizia dell’Ajace, sotto il solicello tornato quasi estivo, discutiamo, addirittura, il momento in cui Interlenghi andrà dal barbiere, per uscirne rapato e rossiccio di pelo; e, addirittura, Cervi si mette d’accordo con l’adorabile Di Palma sui primi duemila metri di pellicola da acquistare e sulla sua marca.
Sbarigia è dunque tornato dall’America, dov’era stato a pescare certi pesci rari, e, sbarcato in Italia, contento come un ragazzino, avido di felicitazioni, con la sua faccia molle e grumosa come una borsa d’acqua calda, ancora pavido e quasi trepido per il cumulo enorme di beni ammassati in pochi anni – si è trovato sul tavolo Accattone. Colpo mancino: ma, visti i precedenti successi dei film a cui io avevo lavorato (La notte brava, La lunga notte del ’43, La giornata balorda), tutti distribuiti da lui, vista la bassezza probabile del costo del nuovo film, ha accettato.
Dovevamo dunque cominciare lunedì. Sabato telefono a Cervi, e vengo a sapere che Sbarigia ha fatto marcia indietro. L’Euro non finanzia più il film. Bisogna rimandarlo. È il crollo: in un attimo, il mondo torna a essere per me il teatro di una castrazione, la sede di un popolo di morti. Odio e umiliazione sono i soli sentimenti che vi regnano. Cos’è successo? Sbarigia è andato, non so se fisicamente o no, al Ministero: e lì – dice senza far nomi Cervi – qualche pezzo grosso, magari fascista... I modi per vendicarsi di un distributore audace sono molti: e Sbarigia non è un eroe. Nel suo mondo, questo è il fatto, ciò che conta unicamente è la Lira.
Cervi mi assicura di non voler rinunciare; di andare avanti. Si rivolgerà a qualche altra casa distributrice più forte.
Passano due, tre, quattro giorni. Niente.
Devo, appunto, telefonare questa mattina: e telefono. Ma, ancora, niente. Cervi mi dice che la nuova casa distributrice interpellata non si fa viva: quindi manderà oggi stesso un telegramma, considerando quale risposta negativa la mancanza di riscontro. Stasera alle sei si saprà qualcosa: gli devo ritelefonare a quell’ora.
Stasera alle sei, stasera alle sei... Il ronzio dell’ansia ha il sapore di un rancore di ragazzo.
Mangio con mia mamma, uno di quei nostri pasti silenziosi, nella vecchia camera da pranzo nera che era stata la povera gloria di mio padre, nei lontani anni in cui io sono nato: e che adesso è piena dei miei quadri dipinti quand’ero adolescente a Bologna, e c’è in più, da qualche mese, un tragico televisore. Uno di quei nostri pasti consumati in silenzio, quasi rimasticassimo antichi dolori, inghiottissimo angoscie stantie, e un grande affetto: doloroso però anch’esso, tanto è grande.
Poi esco.
Arrivo a Torpignattara che un sole sfiatato si aggrappa ai terrazzini dei palazzi nuovi, ammucchiati in fila, sopra le case di un quartiere di cui si è persa la memoria: un quartiere tra rustico e malandrino. Una Roma morta senza essere mai vissuta. Il sole si aggrappa a quelle file di terrazzini, dico, e di costoni di case giallastri – quando non sono blu, o grigi, o rossi, e lisci come superfici di quadri a olio (con sotto, ripeto, gli intonachi sgranati delle vecchie case giallette di una periferia ormai finita).
Il colore di fango dell’aria è appena un po’ screpolato dalla luce radiosa, ma compressa, delle tre pomeridiane. Sulla gente, vestita di panni miserabili, unti, impolverati e bagnati, corre un brivido estivo. Fa di nuovo caldo.
Lascio la macchina, e cerco Sergio, camminando intorno al semaforo dell’incrocio tra la Casilina e via della Marranella. Ecco là il posteggio dei camioncini. Ecco il Budda che legge il giornale. Ecco un ragazzo coi calzoni marrone e il ciuffo impolverato di moretto sulla fronte, che mi sorride e mi saluta. È un altro Sergio, uno dei tanti Sergi diventati miei amici in questi anni.
Faccio qualche passo e mi vedo dietro – trotterellante come un cinese – Sergio il Mozzone. Compare sempre così. Come partorito dal marciapiede, dalla costola di una casa. Il suo indirizzo è in via dell’Acqua Bullicante: ma in realtà non è mai vissuto lì. Lì ci sta suo padre. Lui vive dagli amici. E ne La Mortaccia, il mio prossimo libro, salteranno fuori certo molte delle incredibili case in cui lui è vissuto, sempre qui, tra la Marranella, il Pigneto e la Borgata Gordiani.
Ha un giubbotto nuovo, bianco, il Pittoretto della Marranella: che lo rende quasi un po’ grassoccio. Ecco la sua faccia bruna, sotto il ciuffetto che è rimasto quello a trivella di quand’era ragazzino, benché adesso abbia ventisette anni: una faccia che è tutto un poema. L’unica persona simile ai personaggi del Belli che in tanti anni abbia conosciuto a Roma. Ed è anche l’unico vero amico: uno di quegli amici su cui puoi contare quando stai male, quando sei in pericolo, quando crepi.
Mi si affianca, il vecchio Sergio, e camminando sotto quel sole bianco, detergente, sparso nella luce fangosa, cominciamo a parlare dei nostri problemi. Accattone. È meglio, lui dice, è meglio rimandarlo a primavera, ormai il tempo è brutto, sarà impossibile lavorare. Certo, è un pensiero che ho fatto anch’io. Anzi, l’ho già deciso. Ad ogni modo, se all’appuntamento telefonico di stasera, tutto dovesse andar bene – anzi, magicamente bene, tanto che improvvisamente la lavorazione, per cui tutto è pronto, dovesse scattare – potrei anche girarlo subito. Occorre l’estate, è vero. Ma perché poi? La scommessa che Accattone fa all’inizio del film (cioè che l’amico suo detto Barbarone, attraversando il fiume, è morto non per indigestione ma per debolezza) potrebbe essere sostituita da un’altra: Accattone, per esempio, può scommettere che il compare è morto cadendo dalla motocicletta in una curva pericolosa, non perché era ubriaco, ma perché non ci sapeva fare. E così fa la prova: anziché abbuffarsi di pastasciutta e cachi, per poi buttarsi dal ponte, potrebbe ubriacarsi come una cucuzza per poi abbordare a tutta velocità quella curva... E alla fine – fuggendo alla polizia – anziché morire buttandosi a fiume, potrebbe morire, appunto correndo come un pazzo su una motocicletta rubata...
L’idea sorride a Sergio: anzi, così (vedo) gli piace di più. Ma tanto so che, comunque, toccherà rimandare a primavera: non per la speranza che a primavera sia bel tempo, non per questo, ma per la speranza che torni un po’ di bel tempo nella mia vita.
Poi Sergio – come fa spesso – mi racconta un suo sogno (un suo sogno è anche quello che fa Accattone alla fine del film). Si è sognato di essere dentro la platea di un cinema, e di trovarsi tra le mani, o per terra, non ricordo, una catenina d’oro: un pezzetto di catenina d’oro, intricata sotto una sedia, o sotto i piedi degli spettatori. Allora il povero Sergio, pieno di lieta sorpresa, ha cominciato a tirare, a tirare: e più tirava il capo della catenina che aveva in mano, più ne sortiva, sottile e luccicante, dal buio sotto le sedie o sotto i piedi dov’era aggrovigliata.
E tira e tira, si è venuto a trovare tra le mani un malloppo sottile sottile e pesante, da quasi un chilo. Un uomo, grande, grosso e severo, lo stava a osservare, ma lui continuava a tirare ugualmente, pensando: «E che, l’ho rubata? L’ho trovata!». Alla fine è uscito dal cinema, e è corso a vendere la catenina, ritrovandosi subito tra le mani una borsa piena di fogli da diecimila ben stirati, nuovi nuovi.
Ma, man mano che camminava sentiva, tra le braccia, che il pacco dei bigliettoni gli si assottigliava, gli si squagliava come neve al sole. Allora si è messo a correre, per andare a nasconderli. Solo mettendoli al sicuro, a casa, avrebbero smesso di squagliarsi in quel modo.
Arriva a casa – un palazzo elegante e moderno – sale le scale, e vede dalla finestra un giardino, con due alti alberi scheletrici, nudi. A un tratto un grosso ramo di uno dei due alberi, si piega, si piega, e si schianta. Precipita a terra. Non è un ramo, ma un cristiano.
Mentre Sergio mi racconta questo sogno, mi viene da ridere, e alla fine, ridendo, gli dico che ha sognato esattamente quello che ci è successo in questi mesi: la catenina d’oro, tirata dolorosamente, a tratti, senza fine, con una sorta di dolore e insieme di gioia, è stato il nostro lungo lavoro alla sceneggiatura: meraviglioso e esasperante, durato l’intera estate. Il signore severo che stava guardando, come un minaccioso osservatore di cui però non ci si doveva curare, era il Produttore. L’assottigliarsi dei bigliettoni era insieme il simbolo della prodigalità di Sergio (egli brucia i soldi, qualsiasi somma, in poche ore) e del fatto oggettivo che i soldi guadagnati lavorando a quella sceneggiatura sono stati, purtroppo, molto meno del previsto per Sergio (e niente addirittura per me). La corsa verso casa, era una corsa verso la mia casa, come luogo, per Sergio, di sicurezza e di nuovo lavoro: e infatti la mia casa ha accanto un grande giardino ottocentesco, con degli alti alberi. Il fatto che questi alberi fossero scheletriti è un simbolo che è fin troppo facile spiegare.
E il ramo che cade dall’albero e si schianta a terra, e non è un ramo ma un cristiano? È semplice: sono io.
Torno subito a casa, come un matto.
Andando da Sergio, correndo per il suo quartiere, aspettando, parlandogli, chissà in quale strato del mio malpensare, mi sono venute in mente due tre invenzioni per la Storia interiore, che sto scrivendo forsennatamente (a risarcimento e consolazione della sconfitta narcissica di Accattone). Torno a casa, pilotando «alla gratta», per il vecchio itinerario.
Frattanto è venuto fuori uno splendido sole. Il paesaggio, rugginoso, rognoso, e splendente, sembra immerso nel rosolio. Mi mordo le mani pensando alla fotogenia di questi sfondi.
Torno a casa e lavoro (forsennatamente) alla Storia interiore. Tanto, che altro potrei fare, dato che sono bloccato per le sei, dalla telefonata sul destino di Accattone?
Neanche a farlo apposta, mentre lavoro, una telefonata strana – perché a quest’ora nessuno telefona mai, io non esisto – è Fellini, che mi fa da tramite con De Lullo e Romolo Valli, coi quali aveva accennato, appunto, alla Storia interiore, incuriosendoli subito, e promettendo di metterci in contatto per la messa in scena: tutto è prematuro, perché la Storia interiore non è finita, e poi è una pura follia. E poi ancora è tanto tempo che prometto la commedia a Adriana Asti. Anzi, telefono subito a Adriana, e la metto al corrente di tutto: e prendo anche un appuntamento per la sera, per cenare insieme, dato che Moravia è occupato con dell’altra gente, e la Morante deve andare con Mariola Parise a vedere Rocco.
Mi rimetto al lavoro: ma il sole è sempre più fulgido: il giardino, qua, coi famosi alberi ottocenteschi, e la casa dove è morto Mameli, e le incannucciatelle, e le fratte, e l’erba lucida e dolce, tutto dice che la «vera vita» non è qui dentro, in casa, ma fuori, per le strade, all’aperto.
Riprendo, agitato, la macchina. E, siccome voglio star solo col sole, vado verso il Trullo, dove so che c’è un monte, senza un albero o un cespuglio, sopra cui sole ce n’è quanto voglio.
Lascio la macchina tra i lotti del Trullo, infangati dalle nuove piogge, induriti dal nuovo caldo: è l’ora dell’uscita dalla scuola. Un formicaio di bambini, con le mamme e le sorelle, toste, urlanti, punteggiano il povero quartiere squadrato come un «lager», con gli alberelli tisici che fingono spazi sfarzosi, sulla terra battuta. Bambinelli, piccoli come tanti spilli. (I ragazzini romani sono forti e vivaci solo nella piccola parte che si fa notare: in realtà il loro formicaio è dolce, debole, misero: hanno vocine e carnagioni da denutriti, da delicati, come giù nel Meridione.)
Salgo il monte, nudo e screpolato come un Calvario: ed è proprio sull’ultima gobba – sotto il bel sole finalmente raggiunto, quasi doloroso nella sua bianchezza – che mi traversa l’idea del finale del terzo atto del dramma che sto completando. È un impeto di felicità. Come capisco il Boiardo che faceva suonare le campane di Scandiano quando aveva qualche bella trovata per il suo poema! Mi guardo, leggero e quasi volante, intorno: dall’alto del monte del Trullo, compare, ai piedi, il Trullo, coi suoi lotti, ordinati e fumiganti, color fango nel colore del fango delle alture verso il mare: pare un angolo di Lombardia, con una enorme fabbrica abbandonata. Dall’altra parte, distribuito come sul rosa evidenziante d’una cartolina illustrata, si vede l’Eur, dal grande fungo di cemento, al piatto del Palazzo dello Sport, al rettangolo del Palazzo delle Esposizioni, al mammellone della chiesa, a due tre frammenti di grattacieli, e infine, sul cucuzzolo di un’altura più vicina, a un cadente patetico casale papalino tra gli eucaliptus.
Intorno a me, nel sole, ci sono due di quei bambinelli che non mancano mai, a pascolare, come pecorelle, in cerca di chissà cosa nella pace meridiana. Mi passano vicini, come non vedendomi, persi in quei loro sacchettini di stracci, sul leggero strato di fango. Ne prendo uno sotto le ascelle e lo alzo contro il cielo, come Astianatte: non è altro, poverino, che un po’ di peso, denso e dolce, con un po’ di sgomento acquarellato negli occhi. Poi mi sorride, subito amico. Mi trafigge una pietà – certo ingiustificata, certo irrichiesta – per queste due creaturine innocenti, condannate a diventare, senza speranza, vili e cattivi.
Vengono le sei, anzi sono le sei passate. Tutto preso dal lavoro a cui mi sono rimesso, a momenti mi dimenticavo della cosa che ho più a cuore in questo momento.
Faccio il numero dell’Ajace: ma – siamo sempre in piena astrologia – il telefono non funziona. Sento per un attimo una conversazione telefonica ineffabile tra una Anna e un Mario, in quel romanesco della piccola borghesia che è tanto odioso ai settentrionali, il romanesco dei cartoni animati delle réclames, o delle Miss Italia, adenoidee, o, comunque, raffreddate. Rifaccio il numero: silenzio, ronzante silenzio di morte. Scendo al baretto sotto casa (a Roma un baretto non manca mai) col simpatico proprietario e i simpatici baristi tutti sorridenti, e faccio quella cosa sgradevole che è sempre una telefonata a un bar. La voce non mi esce dalla strozza, maledetta. Cervi non c’è. Magnifico! C’è Jacovoni, che, dei due dioscuri, è quello meno favorevole al progetto, per le sue elucubrazioni, appunto, da dioscuro. Con quel romanesco di cui sopra, mi dice che Cervi non c’è, che tutto va bene (!) e che telefoni più tardi. Torno al lavoro, e più tardi telefono. Il mio apparecchio adesso funziona, ma quello che non funziona è Cervi, all’altro capo della linea – laggiù, a via Micheli, angosciosa traversa di viale Buozzi, nel quartierino di bambole dell’Ajace: non funziona perché inzuppa le parole della rassicurazione di prammatica in un magma di silenzio tragico. Gli dico: «Tonino! Se hai brutte intenzioni, dimmelo subito, non farmi perdere altro tempo». «No, no, tu sei matto – mi dice lui, con quella sua aria da avanguardista tra una partita di calcio e una visita alla casa di tolleranza. – Noi lo vogliamo fare il tuo film, a tutti i costi..». Sento che è meno sincero del dovuto. Il ricevitore mi cade di mano e sto a pensare alle forze misteriose e spietate che regolano l’umanità.
Mi vesto: vesto un corpo dissanguato e agghiacciato. Ho due appuntamenti stasera: a cena con Adriana, poi, dopocena, da Bice Brichetto.
Filo giù per la Roma di Greggi, verso piazza del Popolo, posteggio la macchina e entro al Bar Rosati.
Dieci minuti penosi, per me, come sempre. La folla che a quest’ora riempie il bar, dentro e fuori, mi mette a disagio: conosco molte persone, di quelle che stanno lì, ma poco più che di vista, per la maggior parte. E mi sono incomprensibili: le regole del loro gioco sono le solite, quelle crudeli di un «popolo di morti». Lo so. Ma nel mio caso – dico in questo periodo della mia vita – certe cose acquistano una particolare importanza: non so quali carte ho in mano, quali carte hanno in mano loro – che, il fatto di essere qui frequentatori abituali, rende ancora più crudeli.
Entro a bere un caffè Hag, come qualcuno mi avesse applicato del fuoco alle falde della giacca. Mentre cupamente bevo al banco, di spalle a tre persone, due donne e un giovane, succede qualcosa di inaspettato.
Sento, come in sogno – perduto come sono nei giri d’elica dei miei pensieri – una voce che dice: «Lo conosci Pasolini?». È la donna davanti a me, al banco, che parla: non più giovane, bionda, magra, con due occhi dolcissimi e un po’ pazzi. L’altra, più giovane, tranquilla e bruna, le risponde: «Sì, l’ho visto nelle fotografie...». È un po’ imbarazzata, perché deve aver intuito che sono io, quel tipo magro e cupo, lì al banco.
E anche il giovanotto è un po’ imbarazzato. Allora la signora bionda, si rivolge verso di me e fa: «Eccolo, ma come è magro!». Può darsi che io l’abbia conosciuta, e non la riconosca; oppure può darsi che non siamo mai stati presentati.
Poi, con un gesto improvviso, essa allunga una mano, e mi fa una rapida, eppure indugiante, carezza su una guancia: «Come è magro...», ripete.
Il suo gesto è intimidito e trattenuto, come fosse una figlia che accarezzasse il padre, e, insieme, sicuro e pietoso, come fosse una madre che accarezzasse il figlio.
Arriva Adriana, elegante, vivida di intelligenza e di ansietà.
Andiamo a cena da Nino, a via Borgognona: abbiamo tante cose da dirci, tutto un programma da stabilire, una tattica da tracciare: le parlo a lungo, ma come snervato, sfinito, e il mio tanto parlare è come per una sovraeccitazione che nemmeno i fagioli alla francovich e il baccalà con la polenta riescono a correggere. C’è come un eccesso di lucidità nella mia esposizione della Storia interiore, della sua possibile realizzazione, dei suoi possibili interpreti...
Finita la cena, lascio scegliere a Adriana: o al cinema o da Bice Brichetto, com’ero d’accordo con Bolognini. Tutti e due però avevamo già optato internamente per Bice, e, tutti e due un po’ folli, per le ragioni diverse ma un po’ convergenti che riguardano il nostro immediato futuro, raggiungiamo via Margutta.
A casa di Bice c’è un’aria di grande attesa: gli ospiti sembrano tanti ragazzini che stanno preparando al padre una sorpresa. È vero che sono tutti un po’ ragazzini davvero, Piero Tosi, Franco Zeffirelli, e i loro amici, scenografi, costumisti, figli di industriali: eleganti e un po’ crudeli, come si deve nel giro di Visconti, e insieme – appunto come lui – pateticamente timidi e ansiosi. Bice, che è una bambina, più di tutti, ha un sorriso di comprensione materna, a proposito della sorpresa: e riceve, col suo eroico «r» dell’ambiente bene milanese, i nuovi ospiti, dolcissima. La cena in piedi non è ancora finita: i ragazzini sono ancora tutti, ghiottamente, attorno al tavolo, cospirando. Ma ecco in un angolo sul divano, Elsa Morante, con Mariolina.
Ma Elsa, non doveva essere a vedere Rocco? Che piacere, ci incontriamo quasi ogni giorno, e incontrarla mi dà un senso di festa, ogni volta come fossimo reduci da lunghi viaggi. Noi non ci pensiamo, ma in fondo è sempre un miracolo rincontrarsi. Elsa è seduta sull’orlo del divano, eretta, fasciata di uno di quei suoi colori sottomarini: con gli occhi la cui miopia spande intorno alle pupille, alle palpebre e alla faccia burrascosa, uno strato di leggera foschia. Vedo che stasera è dolce, al di là del territorio dell’Angst: anche lei quandoquidem dormitat: un sonno leggero, aggressivo e lampeggiante, di gatto. Stasera non partirà con la lancia in resta, in groppa al suo cavallo matto. Perché, devo dire, quasi ogni sera, nell’arengo dell’ideologia letteraria, mi disarciona: anzi, non mi dà nemmeno il tempo di afferrare la lancia, di tirar giù la celata. Pum!, mi trovo subito sulla polvere, disarcionato, e lei là, sopra il nembo fumigante, tra le gualdrappe azzurre, violacee, tra i pennacchi spumosi, sopra il cavallo bretone, che mi guarda, ancora furente, con una prima ombra di sorriso che taglia di fendente la foschia violetta degli occhi. Questo nelle questioni di ideologia letteraria. Negli altri campi, mi lascia non solo cavalcare, ma volare sull’Ippogrifo.
Chiacchieriamo subito fitto delle nostre cose, che sono l’alone, l’eco delle cose. Ma ecco che si avvicina Bolognini, venendo dal gruppo che affolla caciarone il tavolo, e, masticando ghiottamente (e con aria colpevole perché non deve ingrassare) mi borbotta qualcosa: «Una buona notizia!».
Io drizzo le orecchie, ma non aggiungo parola, per timore di rovinare questa improvvisa impennata di gioia dentro di me: non voglio sciupare una possibilità così fresca e fragrante... Qualcuno interrompe il nostro discorso... Bolognini si allontana un attimo, prende un’altra piccola cosa sul tavolo, e si riavvicina, lento. «Dicevi?», mi decido a chiedere. «Il tuo film quasi sicuramente lo farà Bini», mi dice semplicemente, inghiottendo il ghiotto bocconcino, calmo, caldo, convinto. È stato lui – il mio compagno di banco – a parlargli del materiale visto a casa mia, delle mie intenzioni, della poetica del film. E Bini pare partito. Mi tengo la speranza, il piacere dentro, torace nel torace, nervi nei nervi.
E così, con quel focolaio di gioia dentro, seguo la serata, nell’aria sempre più secca della notte che si fa alta. La sorpresa, che tanta agitazione aveva messo addosso agli ospiti, era Alfredo Bianchini, famoso in questo giro romano-fiorentino-lombardo. Gran daffare, ora, per spegnere le luci, per velare un piccolo riflettore da studio, ed ecco Bianchini che entra, vestito da signora del 1925, di nero.
Imita una intellettuale dell’epoca, fan di Pirandello, anzi, portatrice del nuovo verbo: che sarebbe totalmente felice di questo rapporto se non ci fosse su esso un’ombra: Marta Abba, la vera, la grande, l’ufficiale portatrice del messaggio. Così – umilmente, perché la grande è la Abba – la signora del ’25 recita a un ristretto ed eletto pubblico una primizia pirandelliana, il monologo amaro-filosofico di Cia, il cui relativismo è condito dal dannunzianesimo liberty dei velami neri che avvolgono la ben nutrita signora, dai fianchi sodi e potenti: con due occhi incredibili, a forma di mezza luna, proprio quelli delle ragazze che ballavano il charleston.
Dopo la recita la signora si è lasciata intervistare cortesemente dal pubblico, radiosamente modesta, e ha offerto qualche aneddoto su Pirandello, sull’arte della recitazione, non perdendo magari l’occasione di recitare umilmente – lei, serva dei grandi messaggi – una poesia di Ada Negri, dal volume Fatalità. «Tu che amavi le gotiche navate...».
Finito il recital, Bianchini s’è andato a togliere le gonne, ed è tornato, sodo e potente, a beccuzzare con fame un po’ isterica gli avanzi squisiti della cena fredda, inghiottendo come con pena, e agitando le mani davanti alla faccia, quasi che l’improvviso appetito fosse una contrazione interiore.
Poi si è seduto, e ha cominciato a fare altre imitazioni: stupende. C’era un vecchio contadino toscano, stupido, retorico, di quelli che si incontravano negli scompartimenti di terza, tra le carte unte del pollo, che confidava ai presenti i suoi malanni con la faccia di Cecchi: si rassegnava a tutto – diceva – a non mangiare, a non fumare: ma non a rinunciare alla donna, madonnabona! E qui giù lunghe storie becere e a dispetto, sugli amorazzi militari, in Abissinia, con le donne nere; e poi tutte bianche, su e giù per l’Italia percorsa dalle carrozze degli accelerati... E c’era una nobildonna della provincia toscana, sordida, feroce, che, parlando con una faccia impressionante, immota come quella di Farinata, si grattava continuamente con le unghie il dorso di una mano, e, ripetendo quel gesto appena percettibile e ossesso, racconta la ricerca di un regalo per i suoi fattori, che sarà poi un cucchiaio placcato d’oro, con sopra, applicato apposta, lo stemma nobiliare della famiglia «perché ai fattori fa piacere avere la roba dei padroni»: racconto spento, a fior di labbra, agghiacciante, in cui quel mostro di freddezza sciorina senza il minimo pudore linguistico, a una a una, tutte le parole del gergo bene. Non riesco per un po’ a togliermi di dosso quella faccia, con la bocca amara, e il naso che vi pende sopra scontento, e quel parlare sommesso e isterico, pieno di una istituzionale cattiveria.
Sono ormai le tre di notte. Presi da un sonno improvviso, cotti e screpolati dal sonno, ci congediamo.
Accompagno a casa prima Elsa, poi, alla sua macchina, Mariolina Parise, bella e dolce come un’hawaiana, con quel suo viso di collegiale veneto-muta, zingaresca: già!, assomiglia all’allenatore della squadra ciclistica sovietica alle olimpiadi, che doveva essere chirghiso o mongolo: una sua splendida nipotina. Poi accompagno Adriana, a via Condotti, ridotta tutta occhi, come un lèmure, con quel vestitino verde tappezzeria, una minuta vittima di Cagliostro. Ci salutiamo, con un leggero bacio, e io rimetto in moto la macchina, correndo pigramente verso Monteverde: l’essere solo fa sì che la mia gioia per Accattone raggiunga il suo normale livello, mi empia.
Corro e mi guardo, intorno, le cose pacificate del mondo.
Roma è un paese a quest’ora. La notte è fonda e secca: tutto vuoto, tutto vicino. Da piazza del Popolo a piazza Venezia ci si arriva in un attimo, son due passi. E di qua e di là vie deserte, antiche e deserte, dove, se uno passa, ci se ne accorge a un chilometro di distanza. La luce pare quasi mattutina, tanto tutt’intorno è vuoto e sono, senza mistero, come denudato, e inutilizzato sotto i lampioni tranquilli. Una macchina che passa ha la goffaggine e la stranezza di un avvenimento irreale. Ci si conosce tutti, come in una cittadina: così doveva essere Roma cent’anni fa: la notte l’ha respinta indietro nei secoli.
Infatti, una macchina nera, funerea, che mi era passata accanto prima, mentre portavo a casa Mariola e Adriana, mi incrocia di nuovo, e rallenta, mi sorpassa e rallenta: largo Chigi, intorno, come un palcoscenico vuoto e atrocemente illuminato, con gatti e cartacce.
La macchina nera mi si ferma accanto: è piena di giovinotti, neri anche loro, e pallidi per il sonno, coi loro capelli e le loro mascelle cariche di gioventù assonnata, e turbolenta. Ci conosciamo. Grandi saluti, strette di mano dagli sportelli: sono di Trastevere, li conosco da ragazzini. «Eh, beato te» mi dicono «che sei stato con quelle belle ragazze! Noi le stiamo cercando!» «Beati voi, non io!» «Dove vai?» «A dormire, son stanco, vi saluto!» «Ciao, a Pa’!» Ci stringiamo di nuovo le mani. Premo l’acceleratore e filo per via del Corso, mentre la macchina nera resta dietro a me, sola, contro lo scenario di una Roma ricostruita in una notte di scirocco, dopo la fine del mondo.
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