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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 30 ottobre 2024

Pasolini, intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo sul set di Salò - Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



 Intervista rilasciata a Gideon Bachmann e Donata Gallo

Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975





Ci parlavi di un esigenza diversa, in questo film Salò e le 120 giornate della città di Sodoma per quel che riguarda la recitazione di tutti gli attori, puoi spiegarci in cosa consiste?

Sì, negli altri film, agli attori professionistici richiedevo il non professionismo e agli attori non professionisti, quelli presi dalla strada, suggerivo la battuta che poi loro dicevano a loro modo, anche nel loro dialetto se volevano, poi io avrei scelto in fase di montaggio i momenti più felici, ispirati, riusciti, lasciando magari anche degli ascolti che non c’entravano direttamente, ma che rappresentavano quel momento di verità che avevo colto. Qui invece no, in questo film le battute devono essere dette in modo esatto dalla prima parola all’ultima, perché questo non è un film di raccolta di materiali, è un film già montato mentre lo giro, voglio perciò che sia perfetto, esatto come un cristallo. Per cui questa volta, agli attori professionisti chiedo il massimo professionismo e pretendo il professionismo dagli attori non professionisti.

Questa precisione nella recitazione ha, immagino, altri corrispondenti in cui ricerchi un rigore formale.

Sì, infatti, anche tutto il resto è più accurato: i movimenti, le composizioni, i trucchi, tutto questo una volta lo facevo con più disinvoltura, con meno attenzione, con più realismo ma perché con gli altri film me lo potevo permettere essendo film più spontanei, più realistici e disinvolti e magmatici! Qui per Salò invece, deve essere tutto molto curato nei particolari e perciò, se uno deve cader morto, lo faccio ripetere molte volte finché non sembri davvero un corpo che cade morto, e la scena non la spezzetto, deve essere un tutt’uno formale che mi serve per chiudere come in una specie di involucro le cose terribili di De Sade e del fascismo.

Per ottenere questo ho bisogno di una struttura che mantenga un ritmo ben preciso, ben determinato e perciò senz’altro meno realistico appunto proprio perché più perfetto. La conferma poi viene dal carattere dantesco che ho dato alla struttura del film, che poi secondo me era già nelle intenzioni di De Sade, dividendolo in gironi proprio come il verticalismo teologico nell’inferno di Dante.

Come giudichi la pagina di De Sade?

De Sade non era uno scrittore di pagine, le sue pagine sono piuttosto brutte, eccettuate alcune frasi che si possono privilegiare e che sono bellissime: «Tutto ciò è buono perché è eccessivo» è una frase bellissima, ma ce n’è una ogni tanto; no, non ha la pagina, non aveva proprio la qualità dello scrittore della pagina, non c’era proprio la possibilità che potesse esserlo; forse però se la sua pagina fosse stata portata avanti come sa portarla avanti uno scrittore, avrebbe raggiunto un tipo di eleganza che lui aveva soltanto di rado. Lui era uno scrittore di struttura, e questa struttura delle volte era abbastanza elegante, ferma, ben delineata, come per esempio nelle 120 giornate, in cui c’era un disegno di struttura abbastanza preciso; altre volte invece erano delle strutture aperte all’infinito, a fisarmonica, mal delineate, senza contorni.

Non senti nessuna affinità di carattere con De Sade? Penso ad una certa inquietudine che generalmente hai nel girare i film, anche se in questo mi sembra piuttosto controllata.

Affinità? No, perché io, al contrario di De Sade, sono stato educato e sono vissuto in un ambiente letterario e culturale in cui la pagina conta, quindi sento molto il fatto concreto dell’arte; per cui la cosa è diversa, l’inquietudine, la fretta di girare che ho di solito nei film, sono dovuti all’avidità di consumare subito qualcosa che mi sta affascinando in quel momento. Ma soprattutto gli altri film erano congegnati in modo che io dovessi raccogliere materiale per poi montarlo, e quindi dovevo raccoglierne tanto tanto, da tornarmene a casa col sacco pieno, per poi riguardarlo, sceglierlo, montarlo; questa volta non devo raccogliere magmaticamente del materiale, devo già organizzarlo mentre giro, e quindi la mia fretta è più calcolata, perché qui girando soprattutto in interni, deve riuscire un film perfetto, anche nel senso convenzionale della parola.

È la prima volta che giri un film a questo modo?

No, in effetti ci sono già dei precedenti, in Teorema per esempio e in parte anche in Porcile.

E allora in che modo si inquadra questo film nel resto della tua opera?

Come un nuovo registro, in cui affronto il mondo moderno: in realtà è la prima volta che lo faccio veramente, l’ho fatto sì, in parte in Teorema, ma in questo momento lo affronto in tutto il suo orrore, e, ci sarà un periodo in cui farò i film più o meno così; quello che è certo è che non potrò farlo realisticamente, non potrei, non reggerei fisicamente nel rappresentare questo potere che sto subendo, lo potrei fare come faccio sempre, con l’uso della metafora.

E nella tua opera letteraria, ci sono dei precedenti?

No, a parte, forse, le poesie friulane, benché ormai siano quasi preistoria, ma per quel che riguarda i romanzi, essi non sono così, sono anzi molto magmatici, c’è sì una struttura, ma poi se un capitolo per esempio mi prendeva di più, succedeva che si verificava una proporzione perché raccoglievo tanto: battute, modi di dire ai quali non volevo rinunciare e allora mi soffermavo nei particolari più del necessario.

E nei miei film avviene la stessa cosa; solo in Teorema, Porcile, e naturalmente in questo, non l’ho potuto fare; d’altra parte, quando un film è una metafora, deve essere per forza fatto in altro modo, perché ogni immagine che giri è significativa di qualcos’altro, e quindi deve essere precisamente quella e non un’altra. Non puoi aggiungere dei dettagli, per esempio, se non sono significativi e necessari! Non c’è, in questi film, il minimo spazio per l’immagine gratuita, non funzionale! Perciò anche qui in Salò, non posso in una scena correre il rischio di perdermi a seguire un particolare che in quel momento mi diverte o innamorarmi di un paesaggio e allungare il tempo di durata più del previsto!

Nel modo di girare questo film, ripeti una certa ritualità comune ai film precedenti?

Sì, più o meno è quello che faccio sempre in tutti i film, qui però è portato alle estreme conseguenze: mentre cioè l’uso ossessivo del campo e del controcampo, del primo piano opposto ad un altro primo piano, l’assenza di personaggi di quinta, l’assenza di personaggi che entrano in campo ed escono di campo, l’assenza soprattutto dei pianisequenza sono cose tipiche di tutti i miei film, direi che in questo ultimo, tutto ciò è portato alla lucidità, alla assolutezza massima, direi quasi che le mie abitudini quasi ossessive, sono portate a tal punto di ossessività, da cambiarne forse la qualità.

Qual è la caratteristica che fa da comune denominatore per tutti i tuoi film, passati e futuri?

E l’idea formale del film, che resta invariata in tutti i film, e cioè lo schema, l’illuminazione che ho di quello che deve essere un film, e questo è inesprimibile in parole; o tu lo capisci o non lo capisci, non te lo so spiegare. Ecco, quando decido di fare un film, lo decido perché ho una specie di illuminazione che è appunto l’idea formale, la sintesi del film.

A chi vuoi rivolgere questo film?

Mi rivolgo in generale a tutti, ad un altro me stesso, a tutti quelli che come me detestano il potere per quello che fa del corpo umano: la riduzione di questo a cosa, l’annullamento della personalità dell’uomo.

E quindi anche contro l’anarchia del potere, perché nulla è più anarchico del potere, il potere fa ciò che vuole, e in ciò è completamente arbitrario spinto da sue necessità economiche che sfuggono alla logica comune. Ognuno odia il potere che subisce, quindi io odio con particolare veemenza questo potere che subisco: questo del 1975.

È un potere che manipola i corpi in modo orribile e che non ha nulla da invidiare alla manipolazione fatta da Hitler: li manipola trasformando la coscienza, cioè nel modo peggiore; istituendo dei nuovi valori alienanti e falsi, che sono i valori del consumo; avviene quello che Marx definisce il genocidio delle culture viventi, reali, precedenti.

Per esempio, questo potere ha distrutto Roma, non esistono più i romani, un giovane romano è il cadavere di se stesso, che vive ancora biologicamente ed è in uno stato di imponderabilità tra gli antichi valori della sua cultura popolare romana e i nuovi valori piccoloborghesi che gli sono stati imposti.

La cosa che colpisce di più in De Sade, è forse il problema della ripetitività del gesto erotico: anche nel tuo film esiste questo problema nei personaggi?

Sì, il potere è codificatore e rituale, e anche i gesti erotici lo sono, e siccome appunto la gesticolazione è sempre la stessa, e si ripete eternamente eguale, risulta che la gestualità sodomitica è la più tipica di tutte perché è la più inutile, quella che meglio riassume la ripetitività dell’atto, appunto perché è la più meccanica delle altre e a questo si inserisce la gesticolazione del carnefice che è anomala, perché il carnefice può ripetere il gesto una sola volta; qui ancora infatti si pone il problema di ammazzarne, anziché una di vittime, mille, sempre per potersi ripetere. Oppure, e questa è una soluzione che ho aggiunto io nel film: fingere di ammazzare la vittima e in realtà non ammazzarla affatto: mettere la pistola sulla tempia, tirare il grilletto e sparare avendo la pistola caricata a salve; il ritorno alla vita diventerebbe una variante perversa, essendo ormai il rito della morte consumato.

Altra cosa importante che ho preso da Klossowski e che poi riprendo in Blanchot, è il modello di Dio: cioè, tutti questi superuomini nicciani ante litteram, in realtà, nell’adoperare i corpi delle vittime come cose, altro non sono che degli dèi in Terra, cioè il loro modello è sempre Dio; nel momento in cui lo negano con la passione, lo rendono reale e lo accettano come modello.

Per una stessa sequenza, fai in media dai due ai quattro ciak, raramente di più e questo senza aver fatto alcuna prova prima.

Sì, non ripeto mai molto la stessa scena a meno che non mi sia particolarmente difficile ottenere ciò che voglio, ma generalmente la ripetizione stanca gli attori che essendo nel mio caso di solito attori non professionisti, danno il meglio subito, con la spontaneità dell’immediatezza; al contrario nella ripetizione perdono di efficacia, perché non sanno perfezionare, così io spiego molto bene prima come devono dire la battuta e poi la prima volta che la dicono, sono già davanti al primo ciak e questo anche per altri due motivi: primo perché tutta la realtà del film va filmata, secondo perché non si può mai prevedere prima quale sarà il momento più felice, più vero, difatti molte volte in fase di montaggio mi sono trovato a scegliere proprio il primo di quattro ciak.

Sul set di Salò ho raccolto fra la troupe un consenso unanime nei tuoi confronti, tutti confessavano di aver accettato di lavorare per questo film, in fondo troppo breve per farci un calcolo economico vantaggioso, esclusivamente perché garantiti dalla tua presenza.

In effetti devo dire che la prima cosa che colpisce entrando su questo set è una non meglio definibile atmosfera di pace, di tranquillità e di collaborazione, dove tutti sono attenti nel dare il meglio di se stessi e dove viene il forte sospetto che lo facciano per far felice te, per darti soddisfazione. Così, quando ti osservavo visibilmente solo a pensare al film, mi domandavo se non era preferibile lavorare con una troupe tutta partecipe, non solo affettivamente, ma capace di collaborare in modo almeno complice a quello che fai.

No, questa è un’idea orribile, la complicità in questo caso diventerebbe falso permissivismo, paternalismo, nessuno è interessato al film all’infuori di chi l’ha pensato e voluto fare; quello che mi dici sullo stato d’animo della troupe, mi fa piacere, ma è il massimo che può succedere in un set. Il fatto che io sia da solo è una cosa normale e perciò non mi pesa, anzi, ci sono già tanti problemi da risolvere durante una lavorazione, che se mi mettessi a coinvolgere altre persone non verrebbero mai risolti in breve tempo. Del resto per quel che riguarda alcuni problemi tecnici, per esempio sulla luce, chiedo sempre l’aiuto di Tonino Delli Colli, direttore della fotografia, ma sul senso di una inquadratura, se ne fossi incerto, devo trovarla io la soluzione, io devo prendermi la responsabilità di essere magari inefficace.

Le fasi di cui si compone un film sono grosso modo tre: 1) il momento in cui l’autore pensa e scrive il film, 2) il momento in cui lo gira, 3) il momento in cui lo porta in montaggio e lo «chiude». In quale fra queste tre fasi ti senti di vivere veramente il film?

Ma, io direi tra il primo e il secondo momento, in quella fase intermedia in cui cerco le facce che ho pensato per il film.

La ricerca dell’attore è la cosa che mi prende perché in quel momento io verifico se le mie ipotesi sono state arbitrarie: cioè se ad una fisionomia che ho immaginato, corrisponde effettivamente il carattere che immagino debba avere. Quando ho bisogno di giovani attori, che siano scanzonati, furbi, smaliziati, ma ancora un po’ incerti e un po’ buffi, non cerco dei giovani attori appena usciti dall’Accademia che rifacciano magari a stento il verso a quelli che invece vivono in una borgata di periferia e sono realmente così! Più semplicemente vado appunto in una borgata romana e cerco dei ragazzi che interpreteranno, in un certo senso, se stessi. Quando invece ho bisogno di qualcuno che reciti una parte più complessa allora faccio ricorso all’attore professionista, ma riduco questa scelta sempre al minimo indispensabile.

Comunque, questo è sempre il momento più entusiasmante, perché il film senza esserci ancora, comincia a fissarsi in queste facce che trovo e che molte volte sono così autentiche da suggerirmi cose nuove, utili per il film.

Tu dici che il cinema è la realtà in un infinito pianosequenza; perché nei tuoi film non fai mai uso del pianosequenza?

Proprio per la ragione che io faccio i film e non il cinema. E la stessa differenza che distingue la «langue» dalla «parole», io facendo i film, uso la «parole» del cinema, cioè della «langue»; e la mia «parole» è fatta di campi e controcampi, di primi piani opposti ad altri primi piani ecc…

Tutti i tuoi film sono girati da te, ad altezza d’uomo, con appena l’aiuto di un cavalletto e molto spesso anche a mano, non fai carrellate, non fai riprese dall’alto, non usi insomma nessun mezzo tecnico di effetto.

Il fatto che sia io a farmi da operatore deriva da una ragione molto semplice: io finché giro, cerco sempre, voglio dire che essendo interessato a raccogliere materiale, il mio girare non è mai la messa in opera di alcuni piani già decisi a tavolino prima di essere davanti alla realtà. Sì, è vero che nella sceneggiatura a volte preciso anche i piani oltre ai movimenti, ma sono più che altro indicativi, il resto lo decido in rapporto alla realtà che mi si presenta. Per quel che riguarda poi il mio modo di girare, deriva da una precisa volontà di rispettare con un certo realismo la scena stessa.

Io sono per ipotesi davanti a due ragazzi che si parlano, metto tra loro e i miei occhi la macchina da presa e riprendendoli li guardo come potrei fare io o chiunque altro spettatore, poi mi avvicino perché anche l’occhio mette a fuoco, nella sua curiosità, dei primi piani, eppoi il campo e il controcampo, per vedere come tra loro si vedono parlare. Ma «l’effetto» voglio che a renderlo siano le espressioni dei volti dei ragazzi.

Da Filmcritica, n. 256, agosto 1975

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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