"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
MAMMA ROMA
DIARIO AL REGISTRATORE
di Pier Paolo Pasolini
1962
3 maggio 1962, ore 9
Ricordo che anche l’anno scorso quando dovevo fare Accattone – e pareva non dovessi più farlo – ho passato delle notti insonni, le sole della mia vita, perché, di solito, io dormo intensamente per nove ore di seguito con dei sogni spesso bellissimi. Invece in quel periodo ho fatto dei sogni terribili. Sognavo nel cuore della notte – avendo coscienza di essere nel cuore della notte – il sole, un sole radioso e stupendo, che era tanto più macabro quanto più era radioso. Perché era, appunto, un sole sognato nella notte, nel cuore della notte. Quel sole colpiva delle facce, o, meglio, dei «primi piani», degli amici di Accattone, al Ciriola, sul Tevere, con i profili delle statue bianche del Ponte degli Angeli. Nel fondo della notte, una luce ardente biancheggiava sulle facce degli amici di Accattone – Peppe il Folle, il Tedesco, Piede d’Oro – con un biancore che aveva qualcosa di mortuario, di funereo – il biancore che hanno le ossa dissepolte abbandonate in un pomeriggio d’estate, con la polvere. E questo senso di funereo che c’era nel sole, che pure era stupendo, era dovuto al fatto che quelle inquadrature erano, per me, irrealizzabili, mi erano impedite dalle circostanze.
La stessa cosa mi è capitata in queste due ultime notti – che sono appunto, con quelle di Accattone, le uniche insonni che io abbia passato nella mia vita.
Nel sonno vengo svegliato dall’immagine lancinante di un’inquadratura della faccia di Accattone: un primo piano con un carrello a precedere. Vedo Franco Citti camminare con dei capelli rossicci, una faccia intensa e biancheggiante, sotto il sole funereo dell’altr’anno, perché, oggi, di nuovo, vedo davanti agli occhi, nel sonno, nel dormiveglia, un primo piano che è irrealizzabile, impedito dalle circostanze. L’idea di essere senza Franco Citti, cioè senza il mio nuovo personaggio Carmine, in questo momento, ha qualcosa di spaventoso. È come se io avessi scritto delle pagine di un romanzo o delle poesie, e – mentre dormo, mentre sono occupato in qualcosa d’altro – una mandria di persone volgari, sudice, incoscienti, feroci, piene di funebre allegria militaresca o goliardica, entrassero nel mio studio, buttassero all’aria i miei cassetti, frugassero nei miei manoscritti, prendessero delle pagine, le pestassero, le strappassero, le buttassero via.
Pagine che io non potrò più scrivere, perché sono uniche, dovute a un momento della fantasia irrevocabile.
Ho conosciuto Franco Citti nel ’51, credo, attraverso suo fratello Sergio. Suo fratello Sergio l’avevo visto un anno prima, o qualche mese prima – non ricordo. Era comparso, trascinando a mano una bicicletta da corsa pescata chissà dove, in quella gran curva che fa l’Aniene passando sotto il Ponte Mammolo, che io ho descritto accanitamente in Ragazzi di vita. È la scena dove i ragazzi fanno il bagno e i cani rissano tra loro, parlando come esseri umani. È passato di lì, ci siamo conosciuti, abbiamo fatto due chiacchiere, poi è scomparso. L’ho visto per caso due tre giorni dopo nel quartiere dove lui abitava, in via dell’Acqua Bullicante, alla Maranella. Mi ha chiamato salutandomi, e abbiamo cominciato a chiacchierare seduti sugli scalini di una scuola.
Era notte alta. Ricordo che la nostra conoscenza è stata rinsaldata da una furente partita a ditate. Uno teneva due dita, l’indice e il medio, tesi, coi polpastrelli in alto, e l’altro con le stesse dita colpiva: un colpo ciascuno. Ci siamo battuti con tanta violenza che dopo un’ora avevamo le dita sanguinanti.
Fu una bravata (avevamo dieci anni di meno tutt’e due): ma eseguita meccanicamente. Il mito della gioventù, in me, in lui il mito della vita come cosa non vissuta ma contemplata. Sergio, praticamente, non vive mai, ma osserva. È totalmente libero dalla vita, non ne subisce nessuna condizione. Se appena appena qualcosa lo implica, egli se ne scioglie con un’osservazione che potrei proprio dire filosofica. Infatti, in tanti anni che mi frequenta ha letto soltanto i miei romanzi e le «massime di Epicuro». Sergio è un campione filosofico dell’abitante di Roma (è di una vecchia famiglia di San Lorenzo): totalmente precristiano, cattolico solo in quanto non credente, stoico-epicureo.
Sarà forse questa sua disposizione alla contemplazione, all’assoluto distacco critico di fronte ai fatti della vita, che lo ha reso un collaboratore così prezioso della mia ricerca linguistica. Egli infatti – quando gli chiedo qualcosa della vita sottoproletaria da lui vissuta con acume tanto più straordinario quanto più distaccata ne è la partecipazione – si immedesima in ciò che gli chiedo con un interesse che non si sovrappone mai al mio, perché è completamente libero. (Nella sua libertà c’è poi qualcosa di tremendo: il soffio mortuario dello scetticismo belliano.)
Un giorno Sergio, mentre camminavamo, lì, al semaforo della Maranella, per la Casilina, mi presentò suo fratello Franco che era un ragazzetto di diciassette anni. Ancora cucciolo, timidissimo, con gli occhi d’angoscia della timidezza e della cattiveria che deriva dalla timidezza, sempre pronto a dibattersi, difendersi, aggredire, per proteggere la sua intima indecisione: il senso quasi di non esistere che egli cova dentro di sé. Per contraddire questa sua ingiusta incertezza d’esistenza, egli non ha altri strumenti che la propria violenza e la propria prestanza fisica: e ne fa abuso. Per dieci anni ho visto spesso questo ragazzo. Ma è sempre stata, per così dire, una conoscenza obliqua, in second’ordine, frammentaria. Ogni tanto compariva alla Maranella, ma solo «come fratello di Sergio». Alle volte era però lui stesso ad aiutarmi a trovare delle battute, a dirmi delle gags, a raccontarmi degli episodi; poi scompariva. Faccio un po’ fatica a ricostruire, in questi dieci anni, la mia amicizia con lui. Era del resto un’amicizia che non aveva alcuna base: Franco non si pone mai con nessuna persona in un rapporto diretto, totale, leale. È sempre fuggente, obliquo, ha sempre paura dell’altro: e, avendo paura dell’altro, lo aggredisce. È permaloso, geloso, malfidato – come si dice a Roma —, ha sempre paura di non essere all’altezza della persona con cui è in rapporto.
Un giorno ho saputo che si è sposato. Si è sposato giovanissimo, a neanche diciott’anni, per caso. Ha conosciuto una ragazza in treno, credo; questa ragazza aveva con sé sua madre, e, per questa sola ragione – mi par di ricordare – dopo pochi giorni era fidanzato e sposato.
Come tutti coloro la cui psicologia è infantile, Franco ha un profondo senso della giustizia. Sente profondamente la propria colpa quando commette qualcosa di ingiusto e non sa ammettere che altri compiano qualcosa di ingiusto. Si capisce che l’idea della giustizia che egli ha in testa è molto primitiva e deforme: ma c’è, ed egli ne è condizionato. Questa consacrazione, avvenuta nella sua infanzia, di un fondamentale senso di giustizia, e quindi di colpa, fa sì che tutta la sua vita sia pervasa da qualcosa di mitico, di rigido, di immodificabile (come in tutte le consacrazioni). Ha dovuto costruirselo da sé questo senso di giustizia (nelle strade della Maranella, negli istituti di educazione), e l’ha fatto male. Come poteva essere diversamente? Come può conciliarsi la «dritteria», ossia l’onore sottoproletario, con la giustizia? Egli viola continuamente le cose sacre che ha rozzamente istituito dentro di sé, tradendole con le cose che sono consacrate, socialmente, in un mondo nel quale egli considererebbe disonorevole vivere in uno stato di scacco, ossia di diversità. Egli difende la giustizia in un modo ingiusto. È irritante come tutti coloro che sono irriducibili: gli ubriachi, i drogati, gli ossessi. Il suo matrimonio è dovuto a un senso di colpa: si è sposato per selvatica timidezza. Ed è stata una cosa imprevista, senza senso e senza futuro.
Un giorno ricordo che sono andato a Fiuggi, dove viveva in casa dei suoceri, i proprietari d’una casupola e di qualche capra, per avere delle notizie che mi servivano per Ragazzi di vita (Sergio in quel periodo era a lavorare a Genova). E l’ho visto a Fiuggi, perduto in quella tristissima cittadina centroeuropea e ciociara, irriconoscibile, con un mucchio di idee strane in testa, diventato mezzo burino, perché erano già vari anni che stava là. Poi è ricomparso a Roma a fare l’imbianchino con Santino, suo padre. E di nuovo, ho ricominciato a vederlo, frammentariamente.
Non ero stato mai molto amico suo, ripeto. Lui lo capiva, e ne era così dispiaciuto che in certi momenti arrivava a odiarmi. Per farsi notare, prendere in considerazione, amare, faceva delle azioni irritanti, sciocche, antipatiche. Era permaloso e vendicativo. Ma teneva tutte dentro di sé le sue tragedie. Io non lo prendevo in considerazione perché mi interessava solo come fenomeno di una psicologia che non mi stava più a cuore di mille altre. Da Fiuggi era tornato ancor più selvatico e minaccioso, con quel grondare di vita, di espressività, nei suoi zigomi alti, nella sua nuca stretta, nella sua camminata tesa, nei suoi occhi torbidi... Credeva nei miracoli: parlava con testarda convinzione di un aratro precipitato con i buoi dalla cima di un monte e fissato dalla mano della Madonna o di qualche santo nella parete liscia di uno strapiombo.
Quando mi sono deciso a scrivere Accattone e ho dovuto scegliere il protagonista, ho pensato che lui poteva andare benissimo e ho ricostruito il personaggio di Accattone su di lui.
In realtà, ora, lui e Accattone sono la stessa persona. Accattone naturalmente è portato ad un altro livello, al livello estetico di un «grave estetismo di morte» come dice il mio amico Pietro Citati, ma in realtà Franco Citti e Accattone si assomigliano come due gocce d’acqua.
Quando qualcuno mi ha chiesto, in seguito all’arresto di Franco Citti, che cosa ne pensavo, ho detto che lui era come Accattone, appunto, perché aveva dentro di sé quel «senso di autodistruzione e di morte» che aveva Accattone. Naturalmente questa schiera di giornalisti nemici ha trovato il modo di far dell’ironia sulla mia frase, chiedendosi come mai questo senso di autodistruzione e di morte si concretizzi nel dare i calci a un barattolo di muratori. E invece è proprio così.
Non ci vuol molto a capire che questo ragazzo ha il vuoto attorno a sé. Un vuoto psicologico dovuto alle sue tragedie familiari, alla divisione tra padre e madre, all’esser stato sempre abbandonato, all’esser stato educato in un orfanotrofio, dove tutti gli erano estranei, all’essersi trovato a Fiuggi, dove la moglie gli era estranea, in una famiglia dove i parenti gli erano estranei. Sempre vissuto in un mondo di estranei, alienato da ogni possibilità di vita reale. Quella notte in cui scorrazzava per Roma ubriaco con l’automobile nuova, egli girava disperatamente nel vuoto.
Franco Citti è solo. La moglie gli è sopravvissuta dai tempi di Fiuggi, triste, spaventata, incapace di capire quello che le accade intorno. Il fratello Sergio è più solo di lui. Gli amici sono una categoria di persone intercambiabili, partoriti da un mondo delle cui leggi sono campioni amorfi, meccanismi.
C’è qualcosa di funereo, di cadaverico nella pelle del mondo – facciate di case, strade, visi di amici, vestiti – che circonda Franco come un pianeta disabitato. So che non può stare fermo, che ha bisogno ogni giorno, ogni ora, di dimostrare che la sua disperazione è falsa, apparente. Per questo, un mese fa, all’inizio di Mamma Roma, mi ero fatto giurare da lui che tutte le sere a mezzanotte sarebbe rincasato (e lui me l’aveva giurato: non gliel’avevo chiesto per gratitudine, sentimento cristiano, ma per amicizia, sentimento pagano...). Ma a chi va a dare queste sue dimostrazioni di esistenza? A un mondo crudele, idiota, vuoto. Il mondo che egli non ha gli strumenti per regolare, per capire – soprattutto dopo il successo come attore – che è stato uno spietato sovrapporsi di vuoto sul vuoto.
3 maggio 1962, ore 10,30
Per arrivare a Cecafumo – al mercato di Cecafumo – al posto cioè dove oggi dobbiamo lavorare – ho fatto una strada bellissima, tra le sette e le otto di mattina, che è un’ora in cui c’è una luce che conosco pochissimo perché io di solito dormo fin tardi. Sono venuto lungo la Garbatella, le mura di San Sebastiano, l’Appia Antica, l’Appia Pignatelli, fino ad arrivare sull’Appia Nuova, e da qui, attraverso degli enormi ruderi – gli archi dell’Acquedotto a cui sono aggrappati villaggi di tuguri – sono arrivato a Cecafumo.
Al centro di questa corsa, nel sole mattutino, c’è una visione di prati, completamente coperti di verde: in un punto che non saprei precisare dell’Appia Pignatelli, c’era un muro coperto di un verde foltissimo, intricato, quasi nero, ma investito dal sole, con la violenza del contro luce, in modo che alcune foglie, in mezzo a tutto questo nero, luccicavano, come se fossero di metallo.
Sopra a questo muro c’era un altro muro a sua volta coperto da una vegetazione altrettanto folta, ma, poiché era messo di sbieco, veniva investito da un altro tipo di luce, sicché, lì, tutte le foglie parevano di metallo.
E sopra questo muro coperto di foglie scintillanti, ecco le cime di un boschetto, di un altro verde, illuminato da un altro tipo di luce, fumosa, appannata, sognante.
Questo sovrapporsi di strati di verde, illuminati in maniera diversa, mi ha ricordato improvvisamente una vecchissima primavera, in cui, in una luce così acerba e insieme così ardente, io e i miei siamo partiti a fare una gita. L’inizio di una gita della mia infanzia. Una gita organizzata da mia madre e da mia zia, proprio a quell’ora – ma in un paesaggio completamente diverso, un paesaggio del Veneto, della pianura veneta – precisamente da Sacile alle falde del Monte Cavallo. Siamo arrivati alla meta in un sole molto simile a quello di stamattina... Affamati, abbiamo mangiato sull’erba un panino di cui ritrovo ora nel palato il sapore... Abbiamo bevuto le aranciate comprate in un villaggio che per me era in capo al mondo, lontano come adesso non lo è nemmeno l’Africa... E in tutto questo ricordo, fatto precipitare dalla visione dei muri verdi dell’Appia, mi è venuta in mente mia madre, e ho pensato a questo episodio come a uno degli episodi della vita di mia madre, della povera vita di mia madre; la precisione, la concretezza, la nitidezza, la povertà, l’assolutezza dei piccoli particolari che hanno piano piano costituito tutta una vita, mi hanno misteriosamente sconvolto. Mi sono trovato alle radure dell’Acqua Santa, lungo l’Appia Nuova, davanti a un’infinità di verde splendido e disteso, con le lacrime agli occhi.
Sono arrivato, e sul posto di lavoro mi aspettava tutta la troupe, la brulicante folla intorno, le facce illuminate dal sole – sempre quel famoso sole quasi cadaverico e, nello stesso tempo, felice. E, mentre si girava la prima inquadratura, che è una specie di balletto contro i ruderi, eseguito dagli amici di Ettore (cioè del protagonista del film), mi è stato detto che la Magnani voleva vedermi un momento, prima di girare la sua sequenza.
Sono andato da lei che si era installata in una delle case tutte uguali costruite dall’Ina-Casa qui a Cecafumo. Un’appartamentino di operai, ben tenuto, con i mobili poveri, ma modernissimi, di compensato e di metallo, puliti e pieni di dignità: era dentro l’intimità di questa famiglia che l’ospitava, con i suoi truccatori e la sua parrucchiera, che si era accampata Nannarella.
Stava davanti allo specchio, con la sua angosciata tranquillità, la sua scontentezza, il suo impeto. Quello che doveva chiedermi era se quel giorno poteva recitare senza la parrucca (che di solito si mette, per comodità) in quanto voleva avere la faccia «sua», completamente «sua», per recitare l’ultima scena del film. La scena in cui le viene annunciato che suo figlio Ettore è morto e lei fugge urlando verso casa. Voleva chiedermi solamente questo. E l’ha fatto con un’aria talmente infantile, talmente sospesa, che mi ha commosso. Aveva capito perfettamente il mio desiderio di vederla ingenuamente così com’è – quasi senza trucco, con la sua faccia vera – nel momento più tragico e doloroso del film.
Questo è un piccolo sintomo di come in realtà dopo un giorno soltanto, e non più, di crisi, i rapporti tra me e lei sono corsi via lisci, limpidi, leali. L’incomprensione iniziale è durata due o tre ore: si è subito chiarita e io devo dire che quello che devo prendere da lei lo prendo ora completamente, quasi senza la minima rinuncia, e lei del resto ha saputo capire il mio modo particolare di fare il cinema. Naturalmente questo ha richiesto da parte mia e da parte sua una fortissima buona volontà iniziale.
Il problema praticamente era questo: io giro a brevissime inquadrature – inquadrature che non durano più di due, tre minuti al massimo – dei primi piani, delle figure intere, dei movimenti elementari – che poi coordino in un montaggio che è esattamente quello che ho in mente prima di girare.
Ora la Magnani non è preparata a questo tipo di ripresa; è abituata, evidentemente, alle inquadrature lunghe, articolate, in cui lei appare in tutta la sua pienezza, coglie il personaggio sfumatura per sfumatura, di minimo passaggio in minimo passaggio, in tutte le più dettagliate e infime fasi dell’espressione. Così lavora da anni e quindi capisco che per lei sia stato difficilissimo adattarsi ad un genere di lavoro che invece coglie i sentimenti, le espressioni, i passaggi psicologici in un momento culminante, assoluto e fermo. Insomma la Magnani è abituata a recitare scene intere, mentre io, invece, le faccio recitare una battuta sola alla volta, e questo implica tutto un modo diverso di concepire la recitazione. Voglio dire che il mio modo di concepire la recitazione, benché io desideri che sia assolutamente reale, o, meglio, realistica, fino in fondo, fino all’esasperazione – è tuttavia contrario a ogni forma di naturalismo. Non mi interessa la cosiddetta spontaneità, la cosiddetta naturalezza; mi interessa cogliere, e poi unire insieme, le fasi dei sentimenti dei personaggi nei loro momenti culminanti, senza i passaggi intermedi, che richiedono, appunto, spontaneità e naturalezza. Io chiedo alla Magnani – che è abituata a scolpire i suoi personaggi col piglio di uno scultore di monumenti, di statue equestri – di lavorare piuttosto come un orefice – cioè di dire le battute a una a una, come se fossero dei pezzettini d’oro – di cesellarli, anziché a rapidi ispirati colpi di pollice, con paziente, minuziosa intensità. In principio questo ha imbarazzato sia me – che non sono capace di girare in altro modo – sia la Magnani, che era costretta a comprimere in brevi inquadrature il suo impeto che invece avrebbe voluto espandersi in una scena compiuta. L’unica difficoltà vera che c’è stata nel nostro incontro è stata questa, ma, come dico, è stata completamente superata nei primi giorni di lavorazione e adesso mi pare che il nostro rapporto di dare e avere sia perfetto. L’aria con cui stamattina si è offerta a propormi una cosa che «sapeva che io desideravo», mi ha convinto che ci stiamo comportando, nel lavoro, con la lietezza, la paura, l’impegno di due ragazzi.
3 maggio 1962
C’è stato un periodo, alcuni anni fa, in cui mi ero messo a scrivere delle favole, alla maniera di Esopo.
Una di queste favole era la seguente. Due signori, come tutti gli altri signori della loro specie, ogni mattina dovevano combattere contro un serpente. Il signor X doveva combattere contro un serpente enorme, lungo almeno venti metri, una specie di drago. Tutta la sua giornata era impegnata a lottare contro questa bestia indomabile e pressoché invulnerabile. Il signor Y, invece, tutte le mattine, appena alzato, verso le otto, preso il caffè e latte, combatteva contro il suo serpente: che era un vermiciattolo lungo una decina di centimetri e che egli toglieva di mezzo in quattro e quattr’otto. Ora, il signor Y trovava molto sconveniente che il signor X dovesse passare tutta la sua giornata a combattere contro quel serpente enorme, vantando la propria capacità di liberarsi così rapidamente del proprio.
Franco Citti è uno di quegli uomini che devono combattere contro il serpente grande. La sua enorme carica vitale lo costringe ad una lotta incessante contro se stesso, a un tipo di vita eccezionale, speciale, fuori dalla norma – che io fra l’altro comprendo benissimo. È la lotta contro questa carica vitale che coloro che devono combattere contro una carica vitale piccolissima condannano. I signori che passano le loro serate davanti alla televisione a vedere gli ambigui sorrisi perbene delle presentatrici o la barba ricattatrice di Padre Mariano, sono coloro che combattono contro una carica vitale poco più grande di un vermiciattolo ed è quindi per loro facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a combattere contro la dolce violenza della tentazione.
Il primo piano di Franco che dicevo prima sognarmi durante queste notti come in un incubo, che mi taglia come una coltellata nei risvegli di soprassalto è, come direbbe un critico stilistico, un campione dello stile dei miei film. I miei film consistono in una serie di inquadrature brevissime e ogni inquadratura ha un’origine lirico-figurativa, più che cinematografica. Ora, la folla delle mie brevissime inquadrature si riassume fantasticamente in questa immagine, in questa faccia, in questo primo piano di Franco Citti che cammina contro uno sfondo di sole. L’intuizione che questo fosse lo stilema base, lo stilema tipico dei miei film, l’ho avuta mentre giravo le sequenze di Accattone alla Borgata Gordiani – sia quella del sogno, sia quella in cui Accattone si accompagna al Balilla discutendo se sia meglio fare il ladro o lo sfruttatore.
Erano i primi giorni di vero bel tempo; un sole fortissimo biancheggiava appunto, in maniera confusa, disperata e, nello stesso tempo, profondamente felice, sulle rovine della Borgata Gordiani. Biancheggiava cioè su un doppio strato di miseria: la miseria storica della borgata e la miseria preistorica dei suoi ossari di pietre. Questo sole, che era un misto di morte e di vita, di felicità e di lutto, illuminava la faccia di Accattone in un modo particolare, in quei giorni. Dava alle inquadrature un qualcosa di profondamente distaccato dalla realtà, di profondamente irreale e, siccome erano i primi giorni in cui si mangiavano le ciliegie, il colore aspro, rossastro, scarlatto delle ciliegie si era un po’ come diffuso nell’atmosfera. Impregnava di sé, del proprio rossore queste rovine biancheggianti, questo sole, quest’erba secca e troppo folta, queste facce, patite, digiune e nello stesso tempo piene di salute. Le sequenze di Accattone col Balilla e di Accattone con i suoi amici nel sogno, sono rimaste impresse nella mia mente come le inquadrature delle ciliegie o per dir meglio delle cerase, come pervase, misteriosamente pervase, di questo colore scarlatto che poi non si vedeva, che era sprofondato nel biancore del sole.
3 maggio 1962
Il sole così poetico e pieno di memorie di stamattina è scomparso.
Delle nuvole noiose, senza futuro, senza pioggia, aride, inerti, hanno coperto il sole e impediscono di lavorare.
Perciò mi ritiro in una stanzetta di Cecafumo con Di Carlo e il registratore.
Penso che il più grave difetto della critica cinematografica sia quello di mancare di gusto filologico. Essa è una critica tutta sensibilità, di fondo idealistico, superata sia all’Università che fuori dall’Università, da molti anni, da almeno venti, trent’anni.
E, quando non è idealistica, allora è la critica marxistica, schematica, di contenuto, dei giornali di sinistra. In tutti e due i casi manca completamente la filologia. Le fonti cinematografiche sono sempre viste come qualcosa di mitico, mai di storico.
Direi che per una critica filologica, alla saggistica cinematografica, manca addirittura la terminologia.
Me ne sono accorto naturalmente dopo che ho fatto un film, leggendo le critiche su Accattone – spesso molto intelligenti, molto belle, molto acute. Però in nessuna di quelle che ho letto ho riscontrato la penetrazione filologica del testo, senza la quale, infine, un testo resta incomprensibile. Non credo che un critico letterario si illuda in questo momento di poter capire una poesia prescindendo da un esame filologico di questa poesia, nel senso magari meno specifico di questa parola.
Per esempio, per quel che riguarda Accattone, ci sono in questo film degli elementi tecnici estremamente appariscenti, sia per la loro mancanza che per la loro presenza.
Vorrei fare alcuni esempi. In Accattone mancano moltissimi degli accorgimenti tecnici che vengono generalmente usati: in Accattone non c’è mai un’inquadratura, in primo piano o no, in cui si veda una persona di spalle o di quinta; non c’è mai un personaggio che entri in campo e poi esca di campo; non c’è mai l’uso del dolly, con i suoi movimenti sinuosi, «impressionistici», rarissimamente vi sono dei primi piani di profilo o, se ci sono, sono in movimento. E così un’infinità di altri particolari tecnici di questo tipo. Ora per tutto questo ci sarà pure una spiegazione. Ma, una spiegazione, presuppone un’impostazione analitica, un rilievo filologico.
Per me, tutte queste caratteristiche che ho qui elencato frettolosamente, sono dovute al fatto che il mio gusto cinematografico non è di origine cinematografica, ma figurativa. Quello che io ho in testa come visione, come campo visivo, sono gli affreschi di Masaccio, di Giotto – che sono i pittori che amo di più, assieme a certi manieristi (per esempio il Pontormo). E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizioni di figure al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica, trecentesca, che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva. Quindi, quando le mie immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obiettivo si muovesse su loro sopra un quadro; concepisco sempre il fondo come il fondo di un quadro, come uno scenario, e per questo, lo aggredisco sempre frontalmente. E le figure si muovono su questo fondo sempre in maniera simmetrica, per quanto è possibile: primo piano contro primo piano, panoramica di andata contro panoramica di ritorno, ritmi regolari (possibilmente ternari) di campi, ecc. ecc. Non c’è quasi mai un accavallarsi di primi piani e di campi lunghi. Le figure in campo lungo sono sfondo e le figure in primo piano si muovono in questo sfondo, seguite da panoramiche, ripeto, quasi sempre simmetriche, come se io in un quadro – dove, appunto, le figure non possono essere che ferme – girassi lo sguardo per vedere meglio i particolari. Sicché la mia macchina da presa si muove su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente.
4 maggio 1962
Ripercorro le strade, l’Appia, la Tuscolana – che ho percorso ieri in tanta gloria di sole, di luce, di pianto – sotto il cielo grigio della pioggia dirotta.
Arrivo a Cecafumo e mi trovo di fronte la disfatta: la troupe sparsa sotto l’acqua, il mercato confuso, grigio, stillante.
Non c’è niente da fare.
È un senso d’angoscia che provo; lo stesso, esattamente, che provo nel vedere Accattone proiettato nelle terze visioni, tagliato, manomesso, davanti a un pubblico imprevedibile e disattento. Questa è l’effimera vita del cinema; lavorando al cinema si hanno solo presentimenti di caducità e sconfitta.
Vedo ammassati sotto un portoncino, per le strade di Cecafumo, l’operatore, la segretaria di edizione, i macchinisti, tutti con la faccia cosciente di chi sa che non c’è niente da fare. Sotto un altro ombrellone c’è Di Carlo, il mio aiuto regista, con alcuni dei ragazzi che devono girare oggi, e i membri sparsi della troupe, tra i banchi disordinati, gli attrezzi smontati. Una specie di Caporetto.
Qualcuno mi dice che la Magnani desidera parlarmi e io salgo da lei, nella stanzetta della famiglia di Cecafumo che la ospita.
Tira l’aria delle grandi occasioni. C’è il problema dell’inquadratura vista ieri, che ci ha angosciato, per diverse ragioni, tutti e due. E su questo siamo tutti e due d’accordo: è una inquadratura che va rifatta.
La Magnani mi spiega le sue ragioni, che sono fondamentalmente simili alle mie, ma naturalmente, con delle motivazioni diverse.
Io: «Discutiamo di questa inquadratura, Anna. L’inquadratura in cui tu ridi e chiedi a tuo figlio: “È bella questa motocicletta che ti ho comprato? è come la volevi te?” Quel riso, parlami di quel riso».
Anna: «Quel riso. Tu sai meglio di me che, pur restituendo lo spirito con cui tu l’hai concepito, quel riso si può eseguire in tante maniere diverse. Il riso può venire prima, può venire dopo, può venire in anticipo, può venire in ritardo. Io sono una cosa fragilissima. C’è stato un momento in cui io ho cominciato la scena e, all’azione, tu mi hai gridato: “Ridi, ridi, Anna!” e io ho fatto una risata cretina. Mi sembra che il mio riso in quell’inquadratura sia falso, e siccome non mi è venuto spontaneo – e su questo mi sembra che sia d’accordo anche tu – mi ha fatto perdere l’equilibrio del resto della battuta. Insomma recito male, sì, recito male, io, di cui si dice che sono un’attrice consumata, una vecchia volpe...»
Io: «Nel caso della cattiva riuscita di questa inquadratura siamo d’accordo. Però ciò che vorrei farti notare, non proprio a proposito di questa inquadratura, ma a proposito di molte altre inquadrature simili, è questo: il dirti “Ridi, ridi”, mentre stai per recitare, cioè il mio imbeccarti dal di fuori, in una specie di iniezione di espressività, è un’abitudine che io ho preso facendo recitare gli attori della strada, alle cui facce io devo dare un colpo di pollice nel momento per loro più inaspettato, quasi a tradimento. Ora tu devi saper comprendere e perdonare questi miei interventi e prenderli in considerazione per quello che sono, cioè un’abitudine».
Anna: «Ma certo, ed è per questo che ne parliamo con tanta tenerezza e tanta amicizia. Io ho capito benissimo che tu funzioni con degli attori che prendi e plasmi come una materia grezza. Essi, pur con la loro intelligenza istintiva, sono dei robot nelle tue mani. Ora, io non sono un robot, io ho avuto la tua sceneggiatura in mano per tre mesi, l’ho letta almeno quattro volte, ne ho analizzato il più piccolo stato d’animo, il più importante, il più sottile. Ora, da attrice (no, io detesto essere chiamata così!), da animale istintivo quale sono!, mi sono subito messa dentro a questo tuo personaggio. Perciò automaticamente – e tutto è merito tuo, della tua sceneggiatura! – io ti funzionerei ugualmente. Succede però che, rispetto a Mamma Roma, io sono una cosa nuova. Ecco perché mi gridi “Ridi, Anna!” “Più seria, Anna!” C’è una specie di lotta adesso, dentro di me, per contentarti. Da una parte sento che dovrei funzionare lo stesso come vuoi tu anche con le mie sole facoltà interpretative, dall’altra vedo che non sempre le nostre interpretazioni del tuo personaggio coincidono: e allora ho perso l’equilibrio; così non sono né una buona attrice (se Dio vuole, per fortuna!) né un obbediente robot. Dovrei essere solo spaventosamente viva, per non subire un confronto molto pericoloso, Pier Paolo. I ragazzi che tu dirigi, che tu plasmi, che tu manovri, sono molto più autentici di me. È un paragone che io non devo far fare al pubblico».
Io: «Ma questo è una difficoltà che io avevo calcolato, Anna. Amalgamare te con gli altri era il problema principe del mio nuovo lavoro di regista: ne avevo piena coscienza all’inizio del film. Non sarebbe meglio, su questo, essere reticenti?».
Anna: «No, io credo che occorra avere dei piccoli conflitti di chiarificazione. La via d’intesa tra due persone intelligenti si trova sempre. D’altronde io ho la sensazione di funzionare senza avere la coscienza di quello che faccio; invece io ho bisogno, assoluto, di avere questa coscienza».
Io: «Questo, più che chiedertelo, lo pretendo. Non voglio che in tutto il nostro lavoro ci sia il minimo d’incoscienza in quello che fai. Dunque: sulla questione specifica di questa inquadratura del “Ridi, ridi, Anna!” siamo d’accordo su due cose: sul fatto che ho torto di intervenire quando reciti; un torto in parte giustificato... e sul fatto che tu hai accettato la mia possibilità di girare unicamente come giro, a piccole monadi figurative».
Anna: «Ah, alle volte, prendere una scena e cominciare dalla fine, mi scombussola un pochino, perché non so com’è, come dev’essere l’inizio. Certo tu lo sai..., però, da attrice cosciente, vorrei saperlo anch’io!».
Io: «Bene: in futuro l’unica cosa da fare è studiare insieme la scena sin dall’inizio, nel suo ordine cronologico, e poi, battuta per battuta, vederla idealmente insieme, di modo che se devi cominciare a girare dall’ultima battuta, la difficoltà diventa un puro fatto tecnico. Certo è questo, che le interpretazioni nostre dell’anima di Mamma Roma possono non coincidere. Perché anche il più sublime e assoluto sonetto del Petrarca implica contrastanti interpretazioni. Figurati un copione!».
Anna: «Ma io ho una fiducia cieca nelle didascalie del tuo copione: della scena in questione mi ero fatta un’idea precisa... Solo che ho cominciato dalla fine e non so se l’ho dosata giusta: il riso, l’emozione, l’orgasmo... Ora, il tuo metodo di girare, io lo rispetto nel modo più assoluto, perché ho visto i risultati. Se questo è il tuo metodo e i risultati sono quelli che io ho visto in Accattone, io posso stare tranquilla. Si tratta solo ora di levare a me questo complesso».
Io: «Sì, sì, certo. Se noi avessimo discusso prima questa famosa scena del “ridi, Anna”, io ti avrei detto che questo è l’unico momento del film in cui l’allegria è totale, cioè non ci sono ombre o presagi. E questo proprio perché subito dopo scoppierà la tragedia. Non la volevo, questa scena, con dei sottofondi di dolore, o di malinconia; doveva essere di un’allegria totale».
Anna: «Io forse avrei riso un po’ più tardi perché il mio tono all’inizio era... non di malinconia, ma di... di...»
Io: «...di ansia».
Anna: «No, non era ansia, era interna gioia».
Io: «Ebbene, no, io non volevo nemmeno questo. Doveva essere una scena di allegria semplice, comune, esteriore, se vuoi. E allora bisognava parlarne prima, lasciandoti poi naturalmente libera nelle varianti, perché anche in un tipo di allegria, diciamo, esteriore, allegria e basta, ci sono infinite varietà espressive. Bastava solo impostare prima la scena criticamente, insieme».
Contro gli spigoli color polmone delle case iterate di Cecafumo – palazzoni uno uguale all’altro disposti con asimmetria contro il cielo degli Acquedotti – piove con subdola abbondanza. (C’è un po’ troppo desiderio di andare d’accordo, nella discussione tra me e Anna.) Sotto le finestre dell’appartamento operaio, la strada del mercato luccica sinistramente, con i suoi banchi in disfacimento, migliaia di zampe di cavalletti rovesciati e fradici. (La poetica di Anna nel suo lato peggiore è romantica e naturalistica, la mia, nel suo lato peggiore, squisita e manieristica. Io cerco la plasticità, soprattutto la plasticità dell’immagine, sulla strada mai dimenticata di Masaccio: il suo fiero chiaroscuro, il suo bianco e nero – o sulla strada, se volete, degli arcaici, in uno strano connubio di sottigliezza e di grossezza. Non posso essere impressionistico. Amo lo sfondo, non il paesaggio. Non si può concepire una pala d’altare con le figure in movimento. Detesto il fatto che le figure si muovano. Perciò nessuna mia inquadratura può cominciare col «campo», ossia col paesaggio vuoto. Ci sarà sempre, anche se piccolissimo, il personaggio. Piccolissimo per un istante, perché grido subito al fedele Delli Colli di mettere il settantacinque: e allora giungo sulla figura: una faccia in dettaglio. E, dietro, lo sfondo, lo sfondo, non il paesaggio. I cafarnai, gli orti di Getsemani, i deserti, i cieloni annuvolati. Anna è romantica: vede la figura nel paesaggio, la figura in movimento, immersa tra le cose come in un abbozzo impressionistico, magari della potenza di un Renoir: ombre e luci in movimento, sulla figura e sul paesaggio, la silhouette che danza contro gli sfondi in scorcio – mai frontali – dei lungofiumi, dei mari increspati, dei boschetti da déjeuner sur l’herbe, dei vicoli pascarelliani.) Piove che Dio la manda. In fondo fare il cinema è una questione di sole.
Pier Paolo Pasolini
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare |
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