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domenica 22 dicembre 2024

Pier Paolo Pasolini, Accattone - La vigilia. Il 4 ottobre, 1961

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Pier Paolo Pasolini
 Accattone - La vigilia

Il 4 ottobre, 1961

 (Pier Paolo Pasolini, La vigilia - Accattone, Edizioni FM, Roma 1961)


       Mi sono alzato tardi, come al solito, verso le undici. So che oggi è un giorno, come si dice?, decisivo. L’ansia mi fa star male: proprio fisicamente. Il cuore mi batte, mi si rovescia lo stomaco. Sento, nella faccia, dolermi certi punti, in cui si annida la vecchiaia: la fronte, gli zigomi sotto gli occhi, la testa dietro le orecchie.

       Mi metto al lavoro. Come un principiante. L’aver ripreso in mano un dramma che avevo scritto nel 1944, e rimasto sempre incompleto, è un fatto che ha in questo momento un significato particolare: non so se è consolazione o disperazione. Rileggendolo, ieri sera, sono entrato in uno stato di nervi che credo provi solo chi è alle soglie dell’esaurimento. Le idee che mi si erano presentate, per completarlo e correggerlo (sedici anni dopo che era stato scritto!) non mi lasciavano in pace un istante: correvano dentro di me come torrenti, come scariche. Avevano qualcosa di radioso e inebbriante, è vero: era la vecchia «joy» che si ridestava. Ma nel tempo stesso mi sfinivano, mi facevano star male come avessi la febbre. A cena, dal Pastarellaro, con Moravia, la Morante, la Adriana Asti (che dovrebbe avere poi una parte importante nel dramma), Parise, mia madre e altri amici, non riuscivo a parlare, né quasi a ascoltare: ero tutto rivoltato in dentro: verso quelle idee radiose, che mi attraversavano dalla testa ai piedi.

       Scrivo: e mia mamma, intorno, sfaccenda per la casa. Mi viene vicino, guarda. Sento che deve dirmi qualcosa. Lo dice, infine, con lo straccio della polvere in mano: «Oggi sarebbe la festa di Guido... Avrebbe trentacinque anni, pensa...». Non so cosa dire; taccio, continuando a lavorare. Poi, come faccio da tanti anni, quasi meccanicamente, le prendo una mano, la sua mano di bambina, e gliela bacio. Il dramma che sto scrivendo è pieno di quei giorni in cui Guido è morto: della nevrosi che avevo ricavato dal dolore: mi pare che non siano passati sedici anni, ma sedici giorni.

       Ed ecco che suona il campanello. A presentarsi è un giovanotto ignoto, alto, dall’aspetto difficilmente definibile. Parla impacciato, presentandosi, con un accento misto... Infatti poco dopo – strappato con rancore alla macchina da scrivere – so che è siciliano, ma viene da su, da Casarsa... È un destino che questa Casarsa si ripresenti con tanta prepotenza, dopo che la credevo esaurita completamente da un’esperienza del tutto esaustiva, prima, dimenticata e sepolta, poi... È un giovane che vuol fare l’attore: ha recitato in Friuli, con dei miei conoscenti di lassù: arriva a Roma per iscriversi all’Accademia d’Arte Drammatica, ma le iscrizioni sono già chiuse. Mi chiede un consiglio, un appoggio... Promesso anche questo. Se ne va, discreto, resto di nuovo solo. Ma non ho più la forza di mettermi a scrivere. Provo quel sapore di noia, depressa e smaniosa, che da anni non provavo più. Anzi, da anni non provavo più addirittura la noia: la sensazione di non saper cosa fare, o di non aver voglia di fare. Un’ansia, terribile, mi stacca da tutto, come una frizione; il cuore mi introna, frullandomi dentro le costole come un ciondolo rotto. Lo so, questo per me non è un giorno buono; me l’ha detto chiaramente l’oroscopo, ieri, sul «Paese Sera»: «Decisioni alquanto contrarie ai vostri desideri...». È la mia unica superstizione: suffragata, naturalmente, da mille prove inconfutabili... e condivisa del resto da quasi tutti i miei amici... So dunque che andrà male: e questa veggenza, questa coscienza anticipata, rende ancora più angosciosa la realtà, che per altre ragioni, ben più precise, mi si sta delineando intorno.

       A dire il vero, era molto che pensavo di fare un film. Idea con radici molto lontane. Da ragazzo a Bologna amavo il cinema almeno come Pietro Bianchi. E devo dire, a distanza di anni, che i film di Charlot, di Dreyer, di Eisenstein hanno avuto, in sostanza, più influenza sul mio gusto e sul mio stile che il contemporaneo apprendistato letterario: subito dopo, s’intende, le letture epiche di un adolescente, Shakespeare e Dostoevskij. Poi, in questo ultimo periodo, ci sono stati dei motivi immediati: una specie di rabbioso capriccio, nei confronti di registi e produttori (La notte brava, Morte di un amico), il desiderio di veder realizzati fatti, persone, scene, proprio come io, scrivendo, li vedo. Questa mia ripicca si è trasformata poi in una specie di vera e propria ispirazione, che in questi ultimi mesi non mi ha dato più pace.

       Il film Accattone, dovevo farlo coi produttori Cervi e Iacovoni. Dovevo partire ai primi di settembre. Ma, in quei giorni, improvvisamente, e del resto non inaspettatamente, i due produttori mi sono sembrati incerti, distratti, assenti. O ero io che avevo la coda di paglia? Non senza giustificazione, tuttavia: dato, diciamo, il mio stato di disgrazia presso il mondo ufficiale e clericale. Così sono andato da Fellini. Che proprio durante l’estate aveva fondato la «Federiz», con Rizzoli: e mi aveva chiesto più volte, con Fracassi, di produrre lui il mio film. Anzi, aveva fatto delle trattative coi due giovanotti dell’Ajace: senza però arrivare a un accordo (che avrebbe dovuto essere la coproduzione). Il mio contratto con Cervi e Iacovoni era però per un altro soggetto, La commare secca, che avevo abbandonato: non avevo per questo ricevuto alcun anticipo, e ero perciò libero. L’estate stava passando, la mia ispirazione era, come dire, intrattenibile. Sono andato da Fellini, che mi ha accolto con un grande abbraccio. Proprio in quei giorni dei primi di settembre, stava arredando la nuova sede della società in via della Croce: cosa che faceva con felicità e fierezza di ragazzo: naturalmente anche un poco civettando. Abbracciandoci, abbiamo cominciato il lavoro.

       Ho così passato, credo, i più bei giorni della mia vita. Avevo presenti quasi tutti i personaggi, e ho cominciato a farli fotografare, decine e decine di fotografie. Con un fotografo fedele, tutto preso dalla verginità del mio entusiasmo: col figlio di Bertolucci, Bernardo, altrettanto preso. Le facce, i corpi, le strade, le piazze, i mucchi di baracche, i frammenti di palazzoni, le pareti nere dei grattacieli spaccati, il fango, le siepi, i prati delle periferie sparsi di mattoni e di immondizia: ogni cosa si presentava in una luce fresca, nuova, inebbriante, aveva un aspetto assoluto e paradisiaco.

       Accattone, Giorgio il Secco, lo Scucchia, Alfredino, Peppe il Folle, lo Sceriffo, il Bassetto, il Gnaccia; e poi il Pigneto, via Formia, la Borgata Gordiani, le strade di Testaccio; e le donne, Maddalena, Ascensa, Stella; e il Balilla, e Cartagine... Tutti sono stati fissati in sfarzose fotografie, scelte e ordinate: un materiale frontale, ma ben altro che stereotipo, allineato a aspettare di muoversi, di vivere.

       Poi, su suggerimento di Fellini, ho fatto delle prove: ho girato cioè, quasi per intero, due scene del film.

       Erano giorni stupendi, in cui l’estate ardeva ancora purissima, appena svuotata un po’ dentro, dalla sua furia. Via Fanfulla da Lodi, in mezzo al Pigneto, con le casupole basse, i muretti screpolati, era di una granulosa grandiosità, nella sua estrema piccolezza; una povera, umile, sconosciuta stradetta, perduta sotto il sole, in una Roma che non era Roma.

       L’abbiamo riempita: una dozzina di attori, l’operatore, i macchinisti, i fonici. Ma poiché non c’erano i «gruppi» – di cui io non ho mai voluto sentir parlare – l’operazione aveva un’aria tranquilla: sembravamo operai in mezzo agli altri operai che lavoravano nelle piccole officine del Pigneto.

Non avrei mai immaginato che il lavoro della regia fosse così straordinario. Sceglievo il modo più rapido e semplice per rappresentare quello che avevo scritto nella sceneggiatura. Piccoli blocchi visivi giustapposti con ordine, quasi con rozzezza. C’era dentro di me la suggestione di Dreyer: in realtà seguivo una norma di assoluta semplicità espressiva. Sarebbe troppo lungo entrare nei particolari: la lotta con la luce, in continuo, ossessionante mutare, la lotta con la vecchia macchina da presa, la lotta con i miei attori di Torpignattara, tutti, come me, al loro primo set. Ma erano lotte che si risolvevano sempre in piccole, consolanti vittorie.

       Per le tre notti che ho girato, non ho dormito. Pensavo sempre come in una specie di incubo radioso al film: a destarmi di soprassalto, ogni pochi minuti, erano come delle brevi, piacevoli emorragie interne, in testa alle quali comparivano le inquadrature o il seguito di inquadrature della scena che avrei girato il giorno dopo; o delle scene che man mano nel sonno mi venivano in mente. Ho passato una intera notte abbacinato dal sole del Ciriola sul Tevere, sotto Castel Sant’Angelo, con le facce di Alfredino e di Luciano, che ridevano, strizzando gli occhi e le rughette intorno agli occhi, in quel loro riso malandrino che abolisce ogni regola della vita, in un’allegria stoica e antica. Facce di peoni, di mozzi del Potëmkin, di frati.

       I travagli con la stampa, con la moviola, col montaggio, con le colonne sonore, richiederebbero un volume di memorie: specie per i non iniziati, come del resto ero io. Finalmente le due scene furono pronte, ed è cominciata questa attesa, che non avrebbe ragione di avere dubbi, e, invece, è così cosciente di basarsi sul nulla, su una sorte che non si muove, senza futuro.

       Mi annoio, così, di una noia smaniosa, di fronte ai fogli privi di significato. Ed ecco, che, come aspettato, come una conferma, suona il telefono. È Franco, quello che dovrebbe essere «Accattone», il protagonista. Ormai mi telefona da una settimana, a quest’ora, tutti i giorni: inutilmente, e lo sa. Con lui suo fratello Sergio, il mio vecchio, insostituibile aiutante, il mio vivente lessico romanesco, e tutti gli altri: la mia ansia è esasperata dalla loro. Non so come tranquillizzarli, come medicare la loro possibile delusione. Fellini, ieri, si è preso la pizza ed è andato a vedersi il materiale da solo. Dovevamo andarci insieme, anche con gli attori, perché venissero un po’ incoraggiati... Soltanto dopo, Fellini mi ha telefonato per avvertirmi della cosa. In realtà era comprensibile, giusto che egli facesse così. Ma poi nuovo silenzio. Ho aspettato per tutta la mattina una telefonata: niente. Allora ho telefonato io, verso mezzogiorno; e ho saputo che Fellini e Fracassi erano fuori: erano andati a un matrimonio.

       Bene: mi rimetto al lavoro, alla mia vecchia Storia interiore, che non ingrana più.

       Adesso, a telefonarmi, è Bernardo Bertolucci, anche lui in ansia: mi avverte che è arrivato suo padre. Allora mangio in fretta e salgo su al quinto piano. Bertolucci e io abitiamo nella stessa casa, dietro a Villa Sciarra.

       Bertolucci è solo, col figlio maggiore. I suoi non sono ancora tornati. Ci mettiamo nel suo dolce salotto parmense. E cominciamo a fare una di quelle nostre lunghe chiacchierate, quelle che si fanno proprio tra amici. Anche se io sono così depresso e ridotto all’osso dalle notti insonni. Sul suo tavolino c’è «Paragone», con due sue poesie, che leggo subito: come tutte le sue ultime, sono stupende, struggenti...

       Poi parliamo di cento cose, dei nostri amici, letterati e scrittori; facciamo un po’ di allusioni maldicenti, perfettamente innocue, perché né lui né io siamo capaci di farle sul serio, e se non del tutto motivate da un preventivo giudizio di valore. Parliamo delle mie disgrazie, che lo opprimono e lo angosciano, lo vedo dai suoi occhi marroncini che si empiono di smarrimento. Parliamo del mio film, naturalmente, e di Fellini, che è là, come una Pizia deliberante e remota. Bertolucci, che viene giù dalla sua Parma, dove già è autunno (lo vedo: coi vigneti vendemmiati, la pianura sfumata verso il Po, le colline incerte, smunte, e quell’aria allegra dell’inizio delle scuole, con gli studenti eleganti, vestiti di stoffe inglesi, che affollano la via Emilia): e trova sacrilego il tepore ancora estivo di Roma. Il sole arde, sfatto ma cocente: e soffia uno scirocco che fa sudare.

       Io invece amo questo sole. Conosco, oltre il quartiere dove abitiamo, altri cento quartieri, alti e turriti come Città di Dite, accecati da quel sole; con sotto i prati sporchi e le distese di casupole, le scarpate nere.

       Non posso più restare in casa. Abbraccio Attilio e me ne vado, a ingannare la nuova attesa perdendomi nella vecchia solitudine.

       Dove vado? C’è poco traffico a quest’ora, e spingo la macchina pigramente per le strade calde e gialle. Ecco, andrò a dare un’occhiata all’Acqua Santa, è più di un anno che non ci vado, ed è, invece, uno fra i luoghi più dolci e riposanti di Roma. Arrivo sull’Appia Nuova, lascio la macchina, entro attraverso un reticolato abbattuto. Intorno a me, palazzoni, a mandrie, come depositati lì da una mareggiata: in mezzo – annidate tra scarpate e terrapieni – strisce di baracche, di casupole; e, davanti, il prato. Sembra un pezzo dei paesaggi di Ford. Ondulato, piatto, selvatico. Proprio in fondo allo stradello si erige una specie di informe monumento di tufo, rotondo, corroso da chissà che alluvioni. E, man mano che si avanza, dietro siepi compatte e verdi come il fondo del mare, dietro distese di umili puncicarelli, si aprono le grotte: tutte foderate di pungitopo, con delle piccole voragini nere come pozzi, e sormontate da ponticelli naturali vividi di erbetta: grotte complicate, ariostesche.

       In fondo alla distesa di cucuzzoli, montarozzi e sprofondi, dietro a una specie di dolce vallata che finisce lungo un rigagnolo, si vede l’Appia Antica sotto il cielo già spento, con la tomba rotonda e marroncina di Cecilia Metella. Il sole inonda ancora tutto, come una colata di miele o di bruma. Ecco laggiù, in cima al montarozzo più alto, un gruppetto di preti seduti, che tutti neri si prendono il sole come ramarri; ed ecco qui, sul ciglio d’un burroncello, un ragazzo in bicicletta, fermo, con la faccia liscia e i lineamenti di animaletto selvatico, di gatto bianco. La sua bicicletta è quella dei pazzi dei paesi: sul manubrio pendono delle striscioline colorate di tela pesante, come stelle filanti, e due tre altri oggettini rossi, verdi, gialli. Sul parafango della ruota davanti è attaccato un aeroplanino rosso aerodinamico: la pompa è rossa, e c’è anche quel piccolo treppiede con cui si reggono in equilibrio le motociclette, tutto dipinto in azzurro. Il ragazzo se ne sta lì profilato contro l’orizzonte romano, come un azteco...

       Si fa sera, rientro in città: la vecchia, disperata città serale, con le sue luci che ricordano la morte, le sue file di automobili una addosso all’altra, rabbiose, senza spazio e respiro: e le migliaia di estranei, intorno, non più uomini di formiche o defunti.

       Indicibile la lotta per posteggiare la macchina, nei pressi di via della Croce. Finisco a via dell’Oca, dopo un’infinità di giri per sensi unici e circolazioni rotatorie. Lascio la macchina – è presto – e vado a piedi verso via del Corso, che, tra via della Scrofa e via del Babuino, è la meno noiosa. All’angolo di via dell’Oca, vedo venire avanti Moravia; sarà che sono giù io, ma anche lui mi pare abbastanza triste. Va verso casa, visibilmente con tutto un pezzo di pomeriggio consumato con insoddisfazione, e tutto un pezzo di sera davanti, da consumare forse con altrettanta insoddisfazione. Ci salutiamo allegramente, ma poi parliamo un po’ a fatica: io non riesco neanche quasi a spiegargli che cosa vado a fare da Fellini e che cosa aspetto: balbetto con una voce che pare pestata a martellate in gola, da castrato. Benché, come si sa, un po’ duro d’orecchio, Moravia, al solito, capisce tutto subito. L’intelligenza è bontà e la bontà è intelligenza; se, per lui, posso parafrasare Keats. E si trascina verso casa, fissandomi l’appuntamento per andare a cena insieme.

       La Federiz è vuota e disponibile, con le sue belle tende bianche listate di verde, di buona tela, i suoi mobili da ricco e arioso refettorio: entro, e subito lì, senza mistero, ecco Riccardo Fellini, ecco Fracassi, nel suo ufficio. Come entro io, entra per caso anche Fellini dalla porta interna. Il grande Mistificatore non sa nascondere, nell’occhio bistrato, che giungo inaspettato, e un po’ prematuro: ma mi accoglie abbracciandomi. È pulito, liscio, sano come una fiera nella gabbia. Mi porta di là, nel suo studio. E, come si siede, mi dice subito che vuol essere sincero con me (ahi), e che il materiale che ha visto, no, non l’ha convinto…

       Io lo sapevo: era chiaro che non gli sarebbe piaciuto da almeno dieci giorni; forse fin dalla prima sera che mi sono presentato a lui proponendogli di produrre il film – che lui lo sapesse o no. Non mi stupisco quindi. E discuto per puro e semplice amore della chiarezza e della verità.

       In sostanza che cosa non piace a Fellini? La povertà, la sciatteria, la rozzezza, la goffa scolasticità quasi anonima con cui ho girato. Bene, sono d’accordo. Era il mio primo esperimento: per la prima volta in vita mia mi trovavo dietro a una macchina da presa: questa macchina da presa era tutta scassata, vecchia, conteneva poca pellicola alla volta: dovevo girare un’intera scena in un giorno. Gli attori, anch’essi erano per la prima volta davanti a un obiettivo. Cosa potevo fare, un miracolo? Sì, certo, Fellini si aspettava un miracolo. Che non è accaduto, perché, non avendo esperienza dei risultati, mi sono trovato alla fine con dei primi piani che erano piani americani, con dei testoni alla Dreyer che erano comuni primi piani, delle carrellate veloci che invece erano lente, della luce torbida che invece era limpida e viceversa. È mancata, insomma, in questa scena, quella rifinitura che in definitiva è lo stile: cioè il miracolo.

       Tuttavia, se dovessi rigirare la scena – è una precisa domanda che mi pone Fellini – sì, la rigirerei con quel ritmo: rapido, affrettato, sciatto, buttato via, funzionale, senza coloriture e atmosfere, tutto addosso ai personaggi. È tutto il film che vorrei girare in questo modo.

       Sono forse troppo sicuro di me, e forse anche un po’ indisponente: da elegante vescovone, Fellini trasferisce allora la questione su un altro piano: quello finanziario: se il film verrà a costare veramente poco, è un tentativo che si può fare. Bisognerà fare i conti, e li faremo domattina con Fracassi. Sì, va bene, tornerò domattina. Ma so che si tratta di un eufemismo, di una litote: di una mossa da confessore. Verrò ma non se ne farà niente. Del resto è probabile che la Federiz non produrrà nessun film, eccetto quelli di Fellini, certo, e forse, se le circostanze vorranno, di qualche felliniano, extravagante, che non so però quanto gioverà a Fellini stesso...

       Rieccomi sulla strada. Risalgo a Monteverde, per San Pietro e via delle Fornaci, in mezzo al traffico che ha l’indifferenza dei momenti di grande pena: quando ti senti sfuggire la vita, la tua vita personale, mentre la vita del mondo continua identica e quasi felice.

       La mia casa, con la solitudine di mia madre. Siamo due sopravvissuti, senza mai probabile pace, terrorizzati da tutto quello che ci può sempre succedere: dalla morte di Guido alla tragedia degli ultimi anni di mio padre, alla tragedia mia, sopita e neutralizzata, per qualche periodo, ma sempre pronta a riesplodere, spietata, scontata, senza speranza.

       Appena rientrato, telefono a Elsa Morante per l’appuntamento per la cena: prometto di raggiungere lei, Moravia, Wilcock e Bolognini al ristorante. Ma appena telefonato, cambio idea. Dico a mia mamma che, invece, mangio a casa. È la prima volta in vita mia che manco a un appuntamento. Lo faccio quasi con voluttà, come se dal dolore non potesse nascere che altro dolore, e questo fosse già una consolazione.

Pier Paolo Pasolini

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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