"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
"La vigilia di Accattone"
Il 21 ottobre, 1961
Mi alzo, mi metto al lavoro – per ingannare il dolore di Accattone, e no, non sto affatto bene. Lo stomaco è come una bolla che lancia bolle, su, contro la cassa cranica, come contro un coperchio chiuso: non potendo esplodere, comprimono il cervello, e mi danno una specie di capogiro secco, da malato di cuore. È l’effetto della cucina cinese... E così, adesso, chino sui fogli della Storia interiore, penso quasi con ostilità al padrone del ristorante, cinese, appunto, e a tutti quei suoi piatti e piattini.
Era un uomo piuttosto grande per essere cinese: molto gentile, e veramente timido. Un capello – dico un solo capello – o al massimo due o tre, se non mi si vuol prendere alla lettera – gli si staccava dalla calotta nera, un po’ larga alle tempie, da professore, e gli pendeva inerte e assurdo sulla fronte. Nella sua estrema cortesia, egli non faceva altro che lottare contro quel suo capello, cercando di rinserirlo nella calotta, senza mai riuscirci.
Ad agitarlo così era Fellini: io non certo – cinese com’ero, quasi quanto lui.
Fellini ordinava i cibi con acribia di mago: la cena – in quel locale da Dolce vita – era una vera e propria regia. E Fellini usava la sua tecnica etnica: pascoliana. Io l’avrei abbracciato, con quei suoi occhioni calamarati, con quelle sue guancione avvilite.
Eravamo lì per perdonarci a vicenda la questione di Accattone. Anzi, ci eravamo già perdonati, e ci restava da consolidare e verificare il perdono. Era una situazione molto difficile: e solo la zuppetta di pinne di pescecane, il pollo con le mandorle, l’insalata di soia e bambù, il piatto di arancini e zenzero, e il delizioso tè di gelsomino, potevano in quel momento agire da riparo, da transfert. Ci siamo buttati su quella cena, e sulle strane facce dei commensali, come naufraghi su un salvagente.
È molto più facile litigare che sperimentare di comune accordo la persistenza del vecchio affetto.
Lui – mi aveva subito detto – aveva dovuto rispondere almeno a cinquanta persone che si accanivano: «Lo vedi, il tuo Pasolini...». Io non a cinquanta, ma almeno a una dozzina che mi deversavano all’orecchio: «Lo vedi, chi è Fellini...». Quanto a me rispondevo, quasi con ira, che qualsiasi cosa facesse Fellini, sia pure coscientemente, contro di me, non avrei potuto arrabbiarmi con lui. E anche lui aveva dovuto difendersi, in modo analogo, e forse più drammaticamente di me, perché il giro dei miei amici è più ristretto e, vorrei dire, anche più scelto: certo per il diverso mestiere che io faccio. Ma quanta amarezza, quanto disordine, quanta passività, di fronte alla lenta alienazione che ci porta per una via insensibilmente ma inevitabilmente diversa da quella sperata... Diversa, dico, rispetto alle speranze morali dell’adolescenza. Uno fra i più grossi dispiaceri – di quelli consolabili, da non potersene capacitare – della mia adolescenza, è stato passare, avidamente, dalla lettura dei Tre moschettieri a quella di Vent’anni dopo: vedere l’amicizia tra i moschettieri – quella pura, quella ideale, quella precostituita fantasticamente... – così alterata... dagli anni. Athos, Porthos, Aramis, D’Artagnan, dopo vent’anni, ancora amici, ma divisi da qualcosa che – allora, da ragazzo – mi pareva orrendo: gli interessi dell’inserimento sociale, la diversità delle opinioni: divisi fino al tradimento, un tradimento sottile, giocato con la vecchia amicizia. Qualcosa, insomma, che un giovane non può concepire. Una mescolanza inammissibile, che allora (ma anche oggi!) mi dava un dolore istituzionale... Sono passati vent’anni...