"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Nelle immagini Pasolini a New York - photo by Duilio Pallottelli
Nell’ottobre del 1966, al festival di New York vengono proiettati i suoi film Accattone e Uccellacci e uccellini e Pasolini fa il suo primo viaggio in America. Sta lavorando al progetto del film su San Paolo e, osservando la metropoli e i suoi abitanti, pensa di trasferire l’azione del suo film/progetto su San Paolo da Roma a New York.
Di seguito alcuni brani presi da "Pasolini su Pasolini, Conversazioni con Jon Halliday":
"No, no. Welles è un intellettuale e anche una persona di grandissima intelligenza: è stato un attore molto obbediente. D’altronde, io sono lo stesso con Lizzani, non apro mai bocca. Credo che i registi si rendano conto di questa necessità meglio di chiunque altro. Fu un vero piacere lavorare con Orson Welles. Anzi, ho tentato in tutti i modi di assicurarmelo per Teorema, ma è stato impossibile. Tuttavia spero di averlo con me per il San Paolo."
"No, quello di Charles de Foucauld era un altro progetto, molto vago. Ho deciso di abbandonare questa e tutte le altre idee di santi che ho avuto per fare una biografia di Paolo. Incomincerò a girarla nella primavera del 1969. La trasporrò tutta nei nostri tempi: New York sarà l’antica Roma, Parigi sarà Gerusalemme, e Roma sarà Atene. Ho cercato di stabilire una serie di analogie fra le capitali del mondo di oggi e quelle del mondo antico, e la stessa cosa ho fatto per gli avvenimenti reali: cioè, ad esempio, l’episodio iniziale in cui Paolo, che è un fariseo, collaborazionista e reazionario, sta a guardare il martirio di santo Stefano insieme con i carnefici, sarà reso nel film con un episodio analogo successo durante l’occupazione nazista di Parigi, dove Paolo sarà un parigino reazionario e collaborazionista che uccide un combattente della Resistenza. Tutto il film sarà una trasposizione di questo tipo. Ma mi manterrò estremamente fedele al testo di san Paolo e le parole che dirà saranno esattamente quelle che usa nelle sue lettere."
"È un po’ difficile risponderle, in quanto mi sono ritrovato a interessarmi del teatro e a redigere quel Manifesto solo perché ho scritto alcuni testi teatrali, ma non so proprio perché li ho scritti. Tempo fa dovetti rimanere a letto per quasi un mese a causa di un’ulcera. Mi capitò di prendere una penna e le prime cose che mi venne in mente di scrivere furono dei drammi in versi. Il fatto è che non scrivevo poesia da parecchi anni, e improvvisamente mi rimisi a farlo, ma per il teatro, e devo dire che non ho mai scritto con tanta facilità come per il teatro, né mai mi sono altrettanto divertito. Ho solo i copioni, naturalmente, non ho ancora pensato alla messinscena. Forse la cosa è nata dal fatto che mentre ero malato mi sono letto i Dialoghi di Platone, rimanendo addirittura sconvolto dalla loro bellezza. Anzi, le dirò che uno dei film che potrei fare, e che sarebbe il mio ultimo, dopo San Paolo e dopo un altro che intitolerò Calderón – questo è ancora allo stadio di idea – sarebbe una vita di Socrate. So che è un vecchio progetto di Rossellini, ma siccome lui non si decide a realizzarlo lo farò io."
"L’ho già detto. È difficile sapere che cosa dire. Mi piacerebbe che il mio ultimo film fosse su Socrate, ma speriamo che salti fuori ancora qualcosa, fra San Paolo e Socrate. Per fare un film su Socrate dovrò aver raggiunto un livello in cui avrò esaurito tutte quelle motivazioni marginali che mi spingono a fare dei film, arrivando così a un cinema disinteressato, assolutamente puro; come ho fatto in parte con Uccellacci e uccellini, ma solo in minima parte. Mi piacerebbe arrivare a una maggiore purezza e a un maggior disinteresse, mi piacerebbe arrivare a un rapporto più puro col pubblico. Idealmente, perciò, una vita di Socrate potrebbe essere il mio ultimo film: mi piacerebbe che costituisse il culmine della mia esperienza cinematografica."
"Io volevo fare a tutti i costi un film sulla vita di san Paolo, da anni. La sceneggiatura era già pronta. La fantasia già in moto, disperatamente. Ora non posso più farlo. Non dico come e perché."
Tempo n. 2, 11 gennaio 1969
"«Io non Enea, io non Paolo sono». Come se nel sogno volessi dire che io sono come questo e come quello, cioè due personaggi importanti e significativi, diversi da me: e lo dicevo a un tale «Spietato», che, questo lo so (anzi, lo sapevo nel sogno), era l’Uomo."
Tempo n. 15, 12 aprile 1969
Progetto per un film su San Paolo
P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977.
L ’idea poetica - che dovrebbe diventare insieme il filo conduttore del film - e anche la sua novità — consiste nel trasporre l’intera vicenda di San Paolo ai nostri giorni. Questo non significa che io voglia in qualche modo manomettere o alterare la lettera stessa della sua predicazione: anzi, come ho già fatto per il Vangelo, nessuna delle parole pronunciate da Paolo nel dialogo del film sarà inventata o ricostruita per analogia. E poiché sarà naturalmente necessario fare una scelta dei discorsi apostolici del santo, farò tale scelta in modo da riassumere l’intero arco dell’apostolato (sarò aiutato in questo da specialisti, che garantiscono l’assoluta fedeltà all’insieme del pensiero di Paolo). Qual’è la ragione per cui vorrei trasporre la sua vicenda terrena ai nostri giorni? È molto semplice: per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’impressione e la convinzione della sua attualità. Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che «San Paolo è qui, oggi, tra noi» e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia. Tale violenza temporale usata alla vita di San Paolo, cosi fatta riaccadere nel cuore degli Anni Sessanta, richiede naturalmente tutta una lunga serie di trasposizioni. La prima, e capitale, di queste trasposizioni, consiste nel sostituire il conformismo dei tempi di Paolo (o meglio i due conformismi: quello dei Giudei e quello dei Gentili), con un conformismo contemporaneo: che sarà dunque quello tipico dell’attuale civiltà borghese, sia nel suo aspetto ipocritamente e convenzionalmente religioso (analogo a quello dei Giudei), sia nel suo aspetto laico, liberale e materialista (analogo a quello dei Gentili). Tale grossa trasposizione, fondata sull’analogia, ne implica fatalmente molte altre. In questo gioco di trasposizioni che si implicano vicendevolmente e richiedono quindi una certa coerenza, io vorrei però mantenermi libero. Dato cioè che il mio primo obiettivo è quello di rappresentare fedelmente l’apostolato ecumenico di San Paolo, vorrei potermi disobbligare anche da una certa coerenza esteriore e letterale. Mi spiego. Il mondo in cui — nel nostro film - vive e opera San Paolo è dunque il mondo del 1966 o ’67: di conseguenza, è chiaro che tutta la toponomastica deve essere spostata. Il centro del mondo moderno — la capitale del colonialismo e dell’imperialismo moderno — la sede del potere moderno sul resto della terra - non è più, oggi, Roma. E se non è Roma, qual’è? Mi sembra chiaro: New York, con Washington. In secondo luogo: il centro culturale, ideologico, civile, a suo modo religioso - il sacrario cioè del conformismo illuminato e intelligente - non è più Gerusalemme, ma Parigi. La città equivalente all’Atene di allora, poi, è grosso modo la Roma di oggi (vista naturalmente come una città dalla grande tradizione storica, ma non religiosa). E Antiochia potrebbe essere probabilmente sostituita, per analogia, da Londra (in quanto capitale di un impero antecedente alla supremazia americana, come l’impero macedone-alessandrino aveva preceduto quello romano). Il teatro dei viaggi di San Paolo non è più, dunque, il bacino del Mediterraneo, ma l’Atlantico. Passando dalla geografia alla realtà storico-sociale: è chiaro che San Paolo ha demolito rivoluzionariamente con la semplice forza del suo messaggio religioso, un tipo di società fondata sulla violenza di classe, l’imperialismo e lo schiavismo; ed è dunque di conseguenza chiaro che alla aristocrazia romana e alle varie classi dirigenti collaborazioniste va sostituita per analogia l’odierna classe borghese che ha in mano il capitale, mentre agli umili e ai sottomessi vanno sostituiti, per analogia, i borghesi avanzati, gli operai, i sottoproletari del giorno d’oggi. Naturalmente, tutto questo non sarà esposto cosi esplicitamente e didascalicamente, nel film! Le cose, i personaggi, gli ambienti parleranno da sé. E da qui nascerà il fatto più nuovo e forse poetico del film: le «domande» che gli evangelizzati porranno a San Paolo saranno domande di uomini moderni, specifiche, circostanziate, problematiche, politiche, formulate con un linguaggio tipico dei nostri giorni; le «risposte» di San Paolo, invece, saranno quelle che sono: cioè esclusivamente religiose, e per di più formulate col linguaggio tipico di San Paolo, universale ed eterno, ma inattuale (in senso stretto). Cosi il film rivelerà attraverso questo processo la sua profonda tematica: che è contrapposizione di «attualità» e «santità» - il mondo della storia, che tende, nel suo eccesso di presenza e di urgenza, a sfuggire nel mistero, nell’astrattezza, nel puro interrogativo — e il mondo del divino, che, nella sua religiosa astrattezza, al contrario, discende tra gli uomini, si fa concreto e operante.
Quanto alla composizione del film, io penserei di farne una «tragedia episodica» (secondo la vecchia definizione di Aristotele): poiché appare evidentemente assurdo raccontare la vita di San Paolo per intero. Si tratterà di un insieme di episodi significativi e determinanti, raccontati in modo da includere il più possibile anche gli altri. In testa a ognuno di questi episodi, che si svolgono ai nostri giorni, sarà scritta la data reale (63 o 64 dopo Cristo, ecc. ecc.); come del resto prima dei titoli di testa del film, per chiarezza, verrà sostituita la cartina con gli itinerari veri di San Paolo, a quella con gli itinerari «trasposti».
Elenco schematicamente e irregolarmente alcuni degli episodi che costituiranno con tutta probabilità l’ossatura del film.
1 ) Il martirio di Santo Stefano.
2 ) La folgorazione.
3 ) Idea di predicare ai Gentili.
È quello che nelle «sceneggiature» si chiama «risvolto». Paolo torna verso i suoi nuovi amici, già santo, trascinato da un impeto di amore e di ispirata volontà, quando una sua stessa idea rovescia la situazione e crea nuove terribili difficoltà e prospettive del tutto nuove: è una vera rivoluzione nella rivoluzione. Vorrei ricostruire il momento concreto (magari inventandolo, se non esiste una testimonianza diretta) in cui è scesa in San Paolo la nuova luce ispiratrice. Comincia cosi - e ne vediamo i primi atti - quell’apostolato che è «scandalo per i Giudei, stoltezza per i Gentili».
4-5-6) Avventure della predicazione.
Una serie di tre o quattro episodi «tipici» della prima parte della predicazione: «tipici» e quindi rappresentativi anche di intere serie di altri episodi che non possono essere narrati. Per la serie degli episodi dell’evangelizzazione delle persone appartenenti alle classi agiate e colte, si potrebbe trascegliere la predicazione ad Atene (che abbiamo detto di sostituire, per analogia, con la moderna Roma, scettica, ironica, liberale); mentre per la serie degli episodi dell’evangelizzazione della gente semplice, si potrebbero trascegliere due storie, una che riguarda gli operai o artigiani, l’altra il sottoproletariato più sordido e abbandonato: ossia la storia dei fabbricanti di «souvenirs» d’argento del tempio (credo) di Venere, che vedono diminuire i loro guadagni in seguito al discredito di quel tempio meta di pellegrinaggi; e la storia di quel gruppo di poveri diavoli che, per sbarcare il lunario, fingono di saper scacciare il demonio dagli indemoniati, come Paolo e in nome di Paolo, mentre non ci riescono, e finiscono male ecc. ecc.
7) Il sogno del Macedone.
Gli episodi che ho descritto nel paragrafo precedente potrebbero tutti accadere in Italia: ora Paolo prosegue verso il Nord. Il sogno del Macedone può essere quindi sostituito per analogia da un « sogno del Tedesco». Paolo dorme uno di quei suoi dolorosi sonni di malato, che lo riducono a lamentarsi come in un delirio. Ed ecco che, nella pace profonda del sogno, gli appare una figura bellissima: è un giovane tedesco biondo, forte, giovane. Egli parla a Paolo, lo invoca a venire in Germania: il suo appello, che elenca i reali problemi della Germania, e per cui la Germania ha bisogno di aiuto, suona irreale «dentro» quel sogno sacro. Egli parla del neocapitalismo che soddisfa il puro benessere materiale, che inaridisce, del revival nazista, della sostituzione degli interessi ciecamente tecnici agli interessi ideali della Germania classica ecc. ecc. Ma, mentre parla cosi, quel giovane biondo e forte, mano mano — quasicché qualcosa di esterno a lui ne rappresentasse fisicamente l’interiorità e la verità — diventa sempre più pallido, divorato da un misterioso male: piano piano rimane mezzo nudo, orribilmente magro, cade a terra, si raggomitola: è diventato una delle atroci carogne viventi dei lager... Quasi che continuasse questo sogno, vediamo San Paolo che, obbedendo a quell’appello disperato, è in Germania: cammina col passo veloce e sicuro del Santo, lungo una immensa autostrada che porta verso il cuore della Germania... (Mi sono dilungato su questo punto, perché è qui che si fonda, in modo visivo fantastico, il tema del film — che verrà soprattutto sviluppato nella parte finale del martirio nella Roma - New York: ossia il contrasto tra la domanda «attuale» rivolta a Paolo e la sua «risposta» santa).
8 ) La passione religiosa e politica da Gerusalemme a Cesarea.
Paolo è di nuovo a Gerusalemme (Parigi). Comincia qui quella concatenazione di episodi violenti e drammatici, che sono troppo noti perché debba anche sommariamente riassumerli: si tratta della serie di sequenze più drammatiche del film — che si concludono a Cesarea ( Vichy) con la richiesta di Paolo di essere giudicato a Roma.
9 ) San Paolo a Roma.
È questo l’episodio più lungo e ricco del film. A New York siamo nell’ombelico del mondo moderno: K l’«attualità» dei problemi è di una violenza e di una evidenza assolute. La corruzione dell’antico mondo pagano, mista all’inquietudine dovuta al confuso sentimento della fine di tale mondo — è sostituita da una nuova disperata corruzione, per cosi dire la disperazione atomica (la nevrosi, la droga, la contestazione radicale alla società). Lo stato d’ingiustizia dominante in una società schiavista come quella della Roma imperiale può essere qui adombrato dal razzismo e dalla condizione dei negri. È il mondo della potenza, della ricchezza immensa dei monopoli, da una parte, e dall’altra dell’angoscia, della volontà di morire, della lotta disperata dei negri, che San Paolo si trova a evangelizzare. E quanto più «santa» è la sua risposta, tanto più essa sconvolge, contraddice e modifica la realtà attuale. San Paolo finisce cosi in un carcere americano, e viene condannato a morte. La sua esecuzione non sarà descritta naturalisticamente (sostituendo, come al solito, per analogia, la decapitazione con la sedia elettrica): ma avrà i caratteri mitici e simbolici di una rievocazione, come già la caduta nel deserto. San Paolo subirà il martirio in mezzo al traffico della periferia di una grande città, moderna fino allo spasimo, coi suoi ponti sospesi, i suoi grattacieli, la folla immensa e schiacciante, che passa senza fermarsi davanti allo spettacolo della morte, e continua a vorticare intorno, per le sue enormi strade, indifferente, nemica, senza senso. Ma in quel mondo di acciaio e di cemento è risuonata (o è tornata a risuonare) la parola «Dio».
Il film mancato di P. P. Pasolini
Tratto da: San Paolo nella letteratura moderna
di padre Ferdinando Castelli, S.I., apparso su “La Civiltà Cattolica”.
Nel «progetto per un film su san Paolo» (1) Pasolini intendeva mostrare l’attualità dell’Apostolo. Più chiaramente, intendeva trasportare l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, in modo che lo spettatore percepisse che «san Paolo è qui, oggi, tra noi e che lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia». Conseguentemente l’itinerario paolino si sarebbe spostato dal bacino del Mediterraneo all’Atlantico; così al posto di Gerusalemme, Antiochia, Tarso, Atene, avremmo avuto Parigi, Roma, Londra, Monaco, New York, Barcellona, Napoli. La sostituzione delle località avrebbe comportato la sostituzione del conformismo del tempo di Paolo col conformismo contemporaneo, più precisamente con quello degli Anni Sessanta del Novecento. Vicende personali e difficoltà produttive impedirono la realizzazione del film; di esso abbiamo un abbozzo di sceneggiatura — San Paolo — che consente una conoscenza della concezione pasoliniana sull’apostolo Paolo.
L’idea portante del film fu espressa dallo stesso Pasolini in una lettera a don Emilio Cordero, che reca la data 9 giugno 1966: «Sono certo che sia lei che Don Lamera sarete, come si dice, choccati, da questo abbozzo. Infatti qui si narra la storia di due Paoli: il santo e il prete. E c’è una contraddizione, evidentemente, in questo; io sono tutto per il santo, mentre non sono certo molto tenero con il prete». Tale distinzione permette a Pasolini di identificare la Chiesa col potere, con una istituzione umana, con una necessità («L’istituzione della Chiesa è stata solamente una necessità», p. 56). Tale istituzione è opera diabolica, suggerita e raccontata da Luca, autore degli Atti degli Apostoli, «invaso dal Demonio» (p. 66); «in lui si è incarnato il mandante di Satana» (p. 49).
Paolo vive il dramma di un’anima scissa tra santità — che è libertà, interiorità, gioia — e sacerdozio, che è potere, schiavitù, moralismo. Pasolini insiste nella presentazione di un Paolo spiritualmente dilacerato perché privo di unità interiore. Nel salone di rappresentanza dell’ambasciata italiana «appare in veste di organizzatore, di ex-fariseo, duro, invasato, diplomatico, insomma non santo, ma prete» (p. 130). E il prete, in lui, è autoritario, «il suo volto spira forza, sicurezza, salute e, in qualche modo, una forma di violenza» (p. 140). Il «prete» arriva anche a pronunciare queste parole: «Il nostro è un movimento organizzato... Partito, Chiesa... chiamalo come vuoi [...]. Dobbiamo difendere questo futuro bene di tutti, accettando, sì, anche di essere diplomatici, abili, ufficiali. Accettando di tacere su cose che si dovrebbero dire, di non fare cose che si dovrebbero fare, di fare cose che non si dovrebbero fare» (p. 114).
L’anima del «santo» è soprattutto libertà. Dopo il battesimo, un misterioso sorriso illumina la sua «faccia distorta di fanatico, e dice a bassa voce, ma come si dicono le prime parole di un inno, guardandosi umilmente intorno: “Per la libertà Cristo ci ha liberati”» (p. 33). Libertà da quanto è istituzione, legalismo, convenienza, non importa se ciò comporta scandalo ed emarginazione. Infatti sarà emarginato e respinto sia dai fautori dell’organizzazione sia dagli intellettuali; trascorrerà i suoi giorni in balia di malanni, di rimorsi e di ossessioni che lo ridurranno a uno straccio. L’ultima inquadratura lo presenta «con la faccia del malato, del reietto, ben diverso dal grande organizzatore e teologo, potente e sicuro di sé, in una povera stanza di albergo, ispirato e doloroso», intento a scrivere la lettera di commiato a Timoteo: «Quanto a me, io sono già versato in libagione ed è giunto il momento che io debba sciogliere le vele. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato la corsa, ho mantenuto la fede» (p. 164).
In San Paolo Pasolini riferisce — trasfigurandoli poeticamente — vari episodi della vita dell’Apostolo e riporta correttamente molti suoi testi; tutto però avviene in un contesto «pasoliniano», abitato da complessi psicologici, da rimorsi mai sopiti, da arbitrarie riduzioni teologiche. Nell’Apostolo egli ha trasferito le proprie ossessioni e prospettive.
1) Cfr P. P. PASOLINI, San Paolo, Torino, Einaudi, 1977. Per una puntuale esegesi del testo pasoliniano cfr I. QUIRINO, Pasolini sulla strada di Paolo, Lungro (Cs), Marco, 1999.
Fonte:
http://www.zenit.org/it/articles/san-paolo-nella-letteratura-moderna
Rimpianto per il “Paolo” di Pasolini
(ZENIT.org).
Pubblichiamo di seguito ampi estratti dell'articolo scritto da don Attilio Monge, già responsabile del settimanale Orizzonti, del Giornalino e poi della Sampaolofilm, e apparso sul primo numero della rivista “Paulus” .
Se, come credo, anche i santi alla fine della vita nutrono rimpianti, so per certo che don Giacomo Alberione, ora beato, fondatore della Società San Paolo, Congregazione religiosa che si dedica ai mezzi moderni di comunicazione e quindi anche al cinema, alla sera della vita ha avuto il rammarico di non aver realizzato un film su Paolo, l’apostolo che ha ispirato la sua grande opera. Negli scaffali della Sampaolofilm, con le numerose sceneggiature dei film e documentari biblici o religiosi portati a compimento negli anni ’39-’80, vi sono almeno quattro copioni di autori diversi, mai realizzati, che riguardano la vita di san Paolo. Risalta una sceneggiatura, brossurata con copertina marrone, dal titolo San Paolo di Pier Paolo Pasolini e con il sottotitolo “Appunti per un direttore di produzione”.
Siamo nel 1967 e don Alberione, avviato purtroppo sul viale del tramonto, seppe dell’esistenza del progetto, e sperò di vederne la realizzazione. Chi ne scrive fu l’incaricato principale del programma e certamente – lui sì – si porterà per sempre il rammarico, non la colpa, di non aver realizzato il film di Pasolini. Ma la storia, come vedremo, non è semplice. Nel settembre del 1967 approdo alla Sampaolofilm per affiancarne il direttore, don Emilio Cordero, e sostituirlo due anni dopo. Il mio compito è di seguire la produzione cinematografica. Nasce in quei mesi il progetto Pasolini: a commissionarne la sceneggiatura fu don Cordero, regista di documentari religiosi e del primo film italiano a colori Mater Dei del 1954, film che Pasolini, in seguito, confesserà di aver visionato più volte per Il Vangelo secondo Matteo. Fu il successo di questo film di Pasolini, nonostante alcune resistenze cattoliche, a far pensare a lui per una vita di san Paolo.
[...] Pasolini dedicò i primi mesi del 1968 a scrivere gli appunti su san Paolo e venne due o tre volte a parlarne alla Sampaolofilm: da subito ebbe l’idea della trasposizione di Paolo nei tempi moderni. «L’idea poetica – spiega egli stesso nell’introduzione – che dovrebbe diventare il filo conduttore del film, e anche la sua novità, consiste nel trasporre l’intera vicenda di san Paolo ai nostri giorni, di rimpiazzare cioè i luoghi antichi del potere e della cultura civile e religiosa con Parigi, Londra, Roma, New York». Abbiamo sorriso, leggendo con lui gli appunti, dove Efeso (la caotica città dell’Asia Minore con tante contraddizioni di attività e di razze, ma fra le più amate da Paolo) era diventata la Napoli moderna. Quando il 4 aprile 1968 giunse la notizia dell’uccisione di Martin Luther King, Pasolini fu così colpito che decise di addebitargli la parte del martirio di Paolo, facendo morire l’Apostolo – non già nel traffico di una metropoli, com’era nella prima stesura – ma come Martin Luther King, ucciso da due colpi di fucile sul ballatoio di un alberghetto di New Jork dove si era affacciato dopo aver scritto la lettera-testamento: «Quanto a me è ormai giunta l’ora di offrire la mia vita come sacrificio a Dio. Ho combattuto il buon combattimento, ho terminato lacorsa, ho mantenuto la fede. Ora mi aspetto il premio...» (2Tm 4,6-8).
A fine giugno 1968, alla Sampaolofilm di via Portuense, Pasolini, alla presenza di cinquesei persone, presentò il suo abbozzo di sceneggiatura; devo dire, senza molto calore, aggiungendo con mia sorpresa: «Questo film non sarà un successo commerciale, perché non vi sono donne...». Il direttore don Cordero si affrettò a far notare che, invece, accanto a san Paolo scorrono molti volti femminili, e citò la lettera ai Romani dove troviamo un elenco di donne da salutare, come Lidia, Giulia, la carissima Pérside, Febe nostra sorella, ecc.
[...] Non so quante volte, dopo quell’incontro, ho riletto la sceneggiatura e le note che l’anticipano, sempre attuali, anche ora in occasione dell’Anno Paolino. Dopo aver assicurato che «nessuna delle parole pronunciate da Paolo nel dialogo del film sarà inventata o ricostruita per analogia», egli spiega le ragioni per cui voleva trasporre la sua vicenda ai nostri giorni e cioè «per dare cinematograficamente nel modo più diretto e violento l’impressione e la convinzione della sua
attualità. Per dire insomma esplicitamente, e senza neanche costringerlo a pensare, allo spettatore, che “san Paolo è qui, oggi, fra noi” e lo è quasi fisicamente e materialmente. Che è alla nostra società che egli si rivolge; è la nostra società che egli piange e ama, minaccia e perdona, aggredisce e teneramente abbraccia».
Il rammarico della Sampaolofilm Rileggendo gli appunti a distanza di quarant’anni, cresce il rammarico per la Sampaolofilm di non averli tradotti in film. Ma i motivi sono tanti... Nonostante la carta d’identità de Il Vangelo secondo Matteo, in campo cattolico la figura di Pasolini, per altri film successivi, e per alcuni episodi di cronaca, non era bene accetta. [...] proprio in quei mesi intervenne un fatto che scatenò – e qui posso in parte essere d’accordo – la critica cattolica. Era uscito Teorema e il film, come molte delle altre opere di Pasolini, fece scandalo e il soggetto venne attaccato come osceno da una parte dei cattolici, mentre l’ala più progressista lo esaltò al punto da attribuirgli il premio dell’OCIC (Office catholique international du cinéma).
Era il secondo Oscar cattolico che Pasolini riceveva, ma certamente non condiviso da molti come per Il Vangelo secondo Matteo. Aumentarono le opposizioni al progetto San Paolo. Il direttore della Sampaolofilm e il sottoscritto, che faceva parte della commissione nazionale valutazione film della Conferenza Episcopale Italiana a cui partecipavano, spesso, anche membri di dicasteri vaticani, fummo più volte invitati a riflettere bene prima di affidare il film a un regista così discusso.
Pasolini, quando allo scadere del semestre gli comunicammo la notizia che la Sampaolofilm rinunciava alla realizzazione, non fu sorpreso più di tanto, quasi lo aspettasse. Sapeva delle critiche che ci avevano assediato. [...] Trascorsero più anni, sette per la precisione, con qualche furtivo contatto con il regista. A fine settembre del 1975 Pasolini mi chiamò al telefono per raccomandarmi la distribuzione, nel circuito Sampaolofilm, di un documentario religioso Passione di una sua amica regista, Elsa De’ Giorgi. Ne approfittai per riaprire il discorso sul film San Paolo e parlammo a lungo di un’ipotesi televisiva. Quando lo assicurai che i tempi erano cambiati in meglio, ci fu un lungo silenzio dall’altra parte, poi Pasolini concluse: «Anche se la minestra riscaldata non mi è mai piaciuta, non escludo nulla: parliamone. Chiamerò fra qualche settimana...».
Non ci saremmo più incontrati. Qualche settimana dopo, il 2 novembre, apprendendo della sua tragica morte, lessi che, andando a Ostia incontro alla morte, Pasolini con il giovane che l’avrebbe ucciso si fermò per una pizza in una trattoria a meno di cento metri dalla Basilica di San Paolo fuori le Mura. Ho pensato: quella notte il suo sguardo si sarà posato sulla basilica e, passando poi accanto, gli sarà venuto in mente il film su san Paolo che l’aveva impegnato per mesi? Avrei voluto, due giorni dopo, partecipare ai suoi funerali e recitare una preghiera; ma arrivando a Campo de’ Fiori, dove lo scrittore Alberto Moravia teneva la commemorazione, mi sono imbattuto in troppi pugni alzati e troppo chiasso.
Mi ha poi consolato apprendere dall’amico padre David Maria Turoldo, suo conterraneo, che era andato a Casarsa in Friuli. E nel piccolo cimitero aveva benedetto la bara di Pasolini mentre la calavano nell’abbraccio della sua terra nativa. E assieme, Turoldo ed io, ci siamo scambiati la speranza che, sulla soglia dell’aldilà, lo attendesse l’abbraccio misericordioso dei due protagonisti dei suoi migliori film: Il Vangelo secondo Matteo e l’incompiuto Paolo.
AttilioMonge
Fonte:
http://www.zenit.org/it/articles/rimpianto-per-il-paolo-di-pasolini
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