‘Pasolini e la cultura spagnola: Alberti, 20 anni dopo’
Román Reyes
Il 28 ottobre 2019 ricorre il ventesimo anniversario della morte di Rafael Alberti, tra i principali esponenti della Generazione del '27 e uno dei più importanti poeti del Novecento ispanico. Tornò dall'esilio nel 1963 e si stabilì a Roma, prima in via Monserrato, poi al numero 88 in via Garibaldi (Trastevere) fino al suo ritorno in Spagna, 15 anni dopo. E’ nota la sua amicizia con Pier Paolo Pasolini, tanto che il poeta di Casarsa era affascinato dalla scrittura di Alberti. Lo rivela anche un inedito di Pasolini a lui dedicato, trovato da Francesca Coppola, ventinovenne napoletana, dottoranda di ricerca in letteratura spagnola all’Università di Salerno, che ha recuperato il dattiloscritto autografo di Pasolini. L'influenza della cultura spagnola su Pasolini si manifesta durante gli anni Quaranta e Cinquanta, in particolare attraverso Antonio Machado, Juan Ramón Jiménez, Luis Cernuda, García Lorca e lo stesso Rafael Alberti, così come i poeti catalani che usavano la loro lingua madre.
Proprio per rendere omaggio ad Alberti e all’amore di Pasolini per la cultura spagnola, Emui EuroMed University in collaborazione con l’Accademia di Spagna e l’Istituto Cervantes ed il supporto del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarza della Delizia e la Cineteca di Bologna, ha deciso di dare vita ad un convegno internazionale di grande spessore. Si parte sabato 26 con una passeggiata letteraria nei luoghi di Alberti a Trastevere a cura dell’Istituto Cervantes di Roma. Si prosegue lunedì 28 ottobre dalle ore 16 con la conferenza di apertura ‘Rafael Alberti y Roma. Un siglo de creación’ con María Asunción Mateo, insegnante, scrittrice, giornalista, ex Direttrice della Fondazione Alberti. Tanti gli incontri e gli interventi nei tre giorni. Tra gli ospiti Silvio Parrello, poeta e pittore, testimone della vita di Pasolini, citato nel romanzo ‘Ragazzi di vita’ edito da Garzanti nel 1955.
PROGRAMMA
26.Ottobre
Ore 10:00 · Visita guidata della Roma di Alberti · Organizza: l'Istituto Cervantes di Roma e Italia
28.Ottobre
1. sessione |Ore 16:00
· Conferenza inaugurale · Rafael Alberti y Roma. Un siglo de creación María Asunción Mateo. Insegnante, scrittrice, giornalista. Ex Direttrice Fondazione R Alberti
Mostra antologia
"Gli Orienti de Pasolini" negli scatti di Roberto Villa (1973)
· Pasolini e l' iconografía di El Greco: Il Vangelo secondo Matteo · Pasolini e Buñuel: Salò e L'Age d'or Roberto Chiesi. Centro Studi-Archivio Pier Paolo Pasolini (Cineteca di Bologna)
Postumo, testo radiofonico trasmesso dalla Rai 1'8 aprile 1953
* Il testo di Il Friuli, è leggibile anche in Saggi sulla letteratura e sull’arte (Tomo I) - I Meridiani a cura di W. Siti e S. De Laude - Mondadori, Milano 1999, pp. 458-471.
(immagine dal sito PAGINE CORSARE - Pasolini.net )
NARRATORE
Pasolini - Academiuta
Chi parte da Venezia, dopo un viaggio di due ore (se prende l’accelerato, magari quello del sabato sera, pieno di studenti e di operai) giunge al limite del Veneto e, per dissolvenza, entra nel Friuli. Il paesaggio non sembra mutare, ma se il viaggiatore è sottile, qualcosa annusa nell’aria. E’ cessata sulla Livenza la campagna dipinta da Palma e il Vecchio e da Cima. Le montagne si sono scostate, a nord, con vene di ghiaioni e nero di boschi appena percettibile contro il gran velame; e il primo Friuli è tutto pianura e cielo. Poi si infittiscono le rogge, le file dei gelsi, i boschetti di sambichi, le saggine, lungo le prodaie. I casolari si fanno meno rosei, sui cortili spazzati come per una festa, coi fienili tra le cui colonne il fieno si gonfia duro e immoto. Ma è specialmente l’odore - che fiotta dentro lo scompartimento svuotato - a essere diverso. Odore di terra romanza, di area marginale. Sulla dolcezza dell’Italia moderna c’è come il rigido, fresco riflesso di un’Italia alpestre del sapore neoplatino ancora stupendamente recente.
Pasolin - Diarii
Il vecchio poetico accelerato tocca così SACILE, con la sua misteriosa Livenza; e subito dopo Pordenone, bruno tra i verdi tenerelli del Noncello, e poi la Medusa, e poi Casarsa, e il Tagliamento. Incrociandosi con questo torrente gigantesco la ferrovia, che corrisponde poi alla linea delle Risorgive, taglia il Friuli in quattro settori. Qui, dove ora l’accelerato si ferma tra malinconiche falegnamerie a CODROIPO, è la prima occasione (e laggiù contro il cristallo dei monti non si rileva la macchia verde dell’ottocentesca Osoppo?) per restaurare nell’immaginazione un paesaggio friulano antico, o antiquato, estraneo comunque alla violenta vivezza con cui ora si para davanti agli occhi. Son questi infatti i luoghi del conte ERMES DI COLLOREDO. E vediamolo subito, questo squarcio di paese, attraverso la sua prosa strapaesana e barocca. E’ un pezzo de la “SECCAGINE” scritto nel L675 o giù di lì.
VOCE CONTE ERMES
Pasolini - Poesie a Casarsa
(NON LETTO MA RECITATO)
“Lu vert dal ciamp, speranze dal recolt al sfadiàt vilàn puarte mestizie...
Il verde del campo, speranza del raccolto, all’affaticato villano porta tristezza, il grano per malato d’ittierizia tanto è giallo, malgrado il concime. Mal nutrito di tristo fieno, risparmiato dal freddo, secco e sfinito il bove torna dal gregge, e una torbida bevanda accresce anzichè ristorare la sua sete. Il Feltrino sbattendo gli zoccoli di legno conduce il gregge mezzo morto piangendo al prato ma subito stomacato dall’arso alimento non mangia, si distende e sta senza far nulla. Il pesce nella mia peschiera è appiattito sotto l’indurito suo liquido elemento: il ghiaccio forma una lastra al monumento e lì sotto tutto è morto e frantumato. Come l’uomo, se è ferito mortalmente, il suo sangue si ritira tutto nel cuore, così il rigagnolo che scaturiva fuori si è raccolto sotto la crosta della terra. L’orgoglioso e terribile Tagliamento che torbido porta via monte e piano, si fa oggi se soffia tramontana d’acqua no, ma di fumo un gran torrente”.
NARRATORE 1
Certo che il Colloredo vede queste distese di magre campagne sotto la specie del latifondo, e i villani appaiono nella sua poesia con le facce astute e bitorzolute dei devoti delle pale d’altare; però quelli ch’erano per lui i dati essenziali di questo paesaggio, lo restano anche per noi.
NARRATORE 2
Lasciata alle spalle l’enorme piattaforma di Campoformido, siamo giunti a Udine; trasferendoci dalla campagna alla città, dal popolo alla borghesia. E Pietro Zorutti (1792-1867) è appunto un poeta piccolo-borghese che vede il paesaggio con lo spirito della scampagnata domenicale: il Romanticismo giunto in provincia in seno agli Asburgo, si è fatto sano. E per tutta la vita il buon Zorutti empie i suoi calendari, che ancora deliziano con loro presupposto di salute morale e di allegria paesana i lettori che qui non mancano, e cercano soprattutto nella poesia una modesta sublimazione del buon senso. Ma quale sforzo d’immaginazione occorre per vedere tra i versi di SIOR PIERI una “veduta” della sua Udine romantica e risorgimentale: ne compare solo qualche indefinita inquadratura di quella periferia non industriale che noi non riusciamo più a concepire.
NARRATORE 1
Ma ci soddisferà la malinconia un po’ invernale di quel grosso paese-capoluogo che è Udine, la cui dignità municipale campeggia nei nobili bianchi e grigi di Piazza Vittorio: luogo dicare memorie per chi ha combattuto nella grande Guerra. E lo testimonia l’impeto originario con cui viene riprodotto il Friulibellico, quello del ‘17, nelle pagine di “Kobilek” di un Soffici già irrobustito dal suo ritorno agli ordini umani, ma ancora felicemente vociano; e le pagine sulla ritirata dei Betocchi, fino ai versi “grigioverdi” di Giorgio Caproni, dedicati però a un’Udine su cui già incombe l’orrenda ombra del Litorale adriatico:
Udine come ritorna
per te col grigioverde
e il sole Dove si perde
la mia memoria, torna
dell’erba la brace verde
al Castello - l’esangue
pietra che ora al tuo sangue
più leggero somiglia...
NARRATORE 2
Da Udine su verso Nord non dopo aver dimenticato di guardare l’orizzonte collinoso di Tricesimo e Tarcento, che i friulani hanno il non ingiustificato debole di considerare di bellezza toscana. Ma è da queste parti che si compone il raccolto e nobile paesaggio dei racconti della contemporanea dello ZORUTTI, ma di lui assai più alta, la contessa CATERINA PERCOTO.
NARRATORE 1
E’ un paesaggio che recupera il mistero romantico ma sempre impiantandosi su una salute popolana. Andiamo a Nord: la nobile tristezza rercotiana si fa sempre più intenta, desolata man mano che il treno di Vienna ci porta dentro le gelide Prealpi e le Alpi. Scompare la dolcezza italica e si para ai finestrini appannati l’Italia alpina. Il paesaggio è qui pura natura: non fa che violentare i sensi coi massicci muraglioni di monti contorti nel cielo e negri di boschi. Finchè nella calma valle di Tarvisio, presso il confine australe, qualcosa si rianima, ha accenti familiari, affettuosi: è questa una colonia di friulani venuti su dalla Bassa, dalla Carnia a lavorare nelle miniere di Cave del Prèsil, a fare quasi FAR WEST o ROCKY MONTAINS. Ma, alle loro voci, i monti ingobbiti e eccelsi si animano; hanno una vita non più geologica ma friulana e quindi umana.
NARRATORE 2
Ma se, partiti da Udine, verso Nord, anzichè proseguire, sino al confine, dove col Friuli cessa l’Italia, fossimo scesi alla Stazione per la Carnia, e avessimo aspettato il trenino che si interna verso quelle terre, fin da quaggiù visibilmente grige di povertà, nella loro solitudine odorante di ciclamini scottanti dal sole?
O che tra faggi e abeti erma si u campismeraldini la fredda ombra si stampi al sole del mattin puro e leggero, o che foscheggi immobile nel giorno morente su le sparse ville intorno a la chiesa che prega o al cimitero
che tace, o noci de la Carnia, addio! Erra tra i nostri rami il pensier mio sognando l’ombre d’un tempo che fu...
NARRATORE 2
Ah, non è per nulla che in questi versi carducciani si conclama la gloria comunale; qui il tempo si è fermato, come la lingua, a una sua frase arcaica: e che sapore purissimo di dignità. E ciò che a noi appare desolato, solenne, semplice, non poteva non essere amato dal Carducci, anche se a lui portato da un estro magnanimo, ma insieme libresco. Del resto, questo paesaggio carniello che a lui deve la sua celebrità, e la sua immagine ufficiale, acquistava anche in lui toni assai più domestici e realistici; e allora s’intende che ci riferiamo al Carducci delle lettere, al grande Carducci delle lettere, quello così moderno e gioioso e libero, che il De Robertis, squisitamente ama. Leggiamone una, di queste lettere, scritta il 7 agosto 1885 alla moglie; il Carducci ci racconta con abbandono quasi di ragazzo di una gita fatta nella valle di Incaroio: “un viaggio di 30 miglia, tutto a piedi, e per quali vie!”
VOCE DI CARDUCCI
La gita aveva toccato prima Paluzza, poi aveva puntato sul Treppo; dopo Treppo, il Durone, con una salita tremenda, e la discesa peggio che la salita, giù per balzi che erano poi torrenti secchi; tra sassi, sotto il sole: arrivammo a Paularo verso mezzogiorno. Risolvei e affermai di non voler andare più avanti; di rimanere la notte lì. Cominciai a bere acqua con vino bianco...” “Il vino fu abbondante, del barolo squisito, e per di più un risotto con due pollastri regalati dal parroco. Sì che il viaggio baldanzosamente riprese. Con quel barolo in corpo fui il primo a dire di ripigliare il viaggio. Per un pezzo, strada bellissima, regione incantevole, fiumi, torrenti, boschi di abeti e di larici, rupi, cascate, villaggi sparsi quà e là, ma col buio, incominciò il brutto. Bisognava far via per un sentiero, che orlava, per dir così, un precipizio verde e orribilmente bello, ma pericolosissimo, a pendio sul Chiarsò, fiume che rumoreggiava in fondo. Ed era buio. E il sentiero andava a zig-zag, e c’erano gradinate selvagge di macigni che erano una bellezza. Io andavo avanti a tentoni reggendomi ad una pertica che due giovani, uno innanzi e uno dietro a me, tenevamo per mano. E durò un’ora. Un altro faceva lume bruciando dei giornali”.
NARRATORE 1
Dicevamo in principio che la ferrovia, incrociandosi col Tagliamento, divide il Friuli in quattro settori: ma l’ascoltatore avrà osservato che siamo restati costantemente ai finestrini che davano a settentrione, verso la montagna. E se invece ci fossimo trovati nel corridoio? Oh, certo, il paese lì vicino, sotto la verde scarpata, non sarebbe apparso molto diverso. Da quando intorno al Scile d’odore linguistico si fa quello ladino, e le cose si tramutano in poetici nomi dai plurali sigmatici - le foglie in fueis le rogge in rois, le sorgenti in resultivis - lo stesso umile e alto, silenzio contadino, con l’intimo odore asprodolce, pasquale, accompagna il viaggiatore. solo che in fondo, invece dell’ombra della montagna, l’orizzonte si sprofonda in un biancore che pare risucchiarlo nel vuoto. E’ il vecchio, smunto Adriatico. E’ il Sud, Venezia, l’altra storia, la vita non comunale ma nazionale....
NARRATORE 1
Ma allora, se avessimo voluto sentire meglio questi luoghi, non ci sarebbe convenuto prendere l’altro treno, ugualmente poetico, e appassionante, quello che da Venezia porta a Trieste? Saremmo così passati proprio nel cuore della Bassa Friulana, per Portogruaro, Latisana.... rasente Teglio, Coroovado, la fonte di Venchiaredo: per i luoghi di Nievo, insomma. Che sono, quanto a equivalenza poetica, i più alti del paesaggio friulano: dal castello di Fratta, inciso, fluente zeppo, ferito da un tratteggio meticoloso e violento di bulino alle larghe vedute lagunari, cariche di spumosa e spianata malinconia. Il Nievo non poteva esistere che qui, in questo Friuli non troppo Friuli, volto alla nazione attraverso le grandi campagne illegiadrite dalla chiara civiltà adriatica. Piuttosto che dalle assai note “Confessioni” preferiamo trascegliere da “Il conte pecoraio”: è una visione prealpina della notte dell’Epifania.
VOCE
Anche le colline di Torlano si erano vestite di bianco, come costumano le giovinette nel furor dell’estate, e su esse incombevano canute le montagne, e solcate di profonde rughe la fronte, come madri severe. Tuttavia la notte sopraggiungeva a burlare sia le une che le altre; nell’ombra della quale esse si smarrivano a poco a poco, prendendo una sola sembianza; un solo colore di buio. Già le stelle folleggiavano per il cielo nel silenzio della luna, e si scoloriva ad occidente l’ultimo barlume del crepuscolo, quando cominciò sopra un dosso a destarsi una fiamma, cui rispose da un poggio il rosseggiare di un’altra, e una terza s’avviò sulla costa, e una quarta e una quinta divamparono via via di greppo in greppo, finchè non fu vetta di colle o ripiano di montagna, sul quale non ardesse un bel fuoco: proprio come nei quadri del mistero della Pentecoste dove non c’è Apostolo cui non sorvoli sul capo la divina fiammella.
NARRATORE 2
Ma il paesaggio friulana del novecento, almeno fino all’inizio dell’ultima guerra, è soprattutto pescoliano: intendiamo dire di quel particolare pascolianesimo che è dei poeti dialettali.
NARRATORE 1
Ercole Carletti, sta a rappresentare con la sua canuta, inquieta figura quello che potrebbe essere il tipo della civiltà di lassù, un tipo che sulla passione italiana inoculi un moralismo, diremmo, centro europeo. Leggiamo, tradotto questo paesaggio veduto in sogno, da “L’insiùm”.
DICITORE
“Ai fat, Nusse, stegnòt un bièl insiùm... “Ho fatto, Nuccia, stanotte un bel sogno. Mi sembrava, dove?... Laggiù, lontano, lontano che si stava insieme: e sull’orlo di un fiume si camminava tenendoci come bambini per mano. Si andava via tenendoci per mano, perduti, soli: la primavera luccicava e odorava: l’acqua passava facendo specchio ai pioppi, ai cespugli fioriti, ai salici della riva. Sotto voce provavamo qualche canto: “montagnette”, oppure “tu stella” oppure ancora “non posso dimenticarti”; e intanto ci dava il tempo, col battere, il nostro cuore: col battere doppio! E da per tutto, che quiete, che sereno! E le scarpette rigate di rose, sul verde novello... Sopra una boschina delle allodole estrose gorgheggiavano..”
NARRATORE 2
In Ergeo, in Carletti e specialmente in Biagio Marisi, è un germe, ma puramente in germe, che bisogna presupporre tutta un’altra educazione e un altro mondo, la più recente interpretazione del paesaggio friulano, quella della scuola poetica casarsese. Che geograficamente è assai più vicina ai luoghi del Nievo. E’ lì, la patria dei felibri friulani, la terra delle prodezze infantili, dove le perpendicolari del Tagliamento e delle risorgive si incontrano, a metà strada tra i monti e il mare. E’ una pianura difficile a capirsi: di una bellezza così pura da farsi quasi astratta, intellettuale. I teneri boschi cedui lungo le rogge, filamentosi e rossi come il rubino, in inverno, caldi e sontuosi, d’estate, zeppi d’uccelli e quieti come piccoli santuari.... Le file purissime di gelsi che rimpiccioliscono verso i pianelli opposti, verso altre rogge, penetrando con lucida prospettiva dentro la pianura pedemontana, sempre spalancata contro un cielo nettissimo.
NARRATORE 1
I Boschetti rugginosi, casolari, dai muri di sassi neri e inazzurrati dal solfato, riquadri di pareti gialle di fienili, strade di terra battuta bianca, in dolce curva, come in una tela del più puro Corot. E poi i paesi, i primi paesi della Bassa e i primi dell’Alta; allegri aperti e un po’ plebei, quelli, plumbei aristocratici, già corsi da un secco odore alpestre questi. La loro vita finisce con l’or di notte e ricomincia, prima che nasca il sole, col mattutino. E’ una mattina prestissimo, ancora quasi buio, mentre rintoccano le prime campane: “Sento campane d’oro”, di Domenico Naldini: “Cento campane d’oro sono nell’aria, a mescolarsi con l’alba. Nel vetro agghiacciante il cielo era un fiore d’incenso. San Giovanni, Orcenico, Calvasone, cento campane d’oro sono nell’aria”.
DICITORE
Sent ciampania di oru a son pa’ l’aria, a insembrassi cu l’alba. Tal veri inglassaà il sèil al era un flòur di insèns. San Zuàn, Dursinìns, Valvasòn, Sent ciampania di oru a son pa’ l’aria.
NARRATORE 1
O ecco una mattinata di domenica, a Navaròna, sui primi gioghi delle Prealpi, nei versi di Novella Cantarutti: “Gusto d’esser viva”: “Gusto d’esser viva nel giorno che sbatte le ali. La nebbiolina si dissolve sbiancata a filo dei prati. Gusto d’esser viva sulla strada che conduce a Messa, sotto gli alberi, fra le ombre bagnate dalla luce”.
DICITORE
Gust da essi viva
ta la dì
Ch’a discrosa
li’ ali’
La caliga ‘
a si distrùt
sblanciada
avuà dai praz.
Gust da essi viva
pa la strada
ch’ a mena a Messa,
sot i lens,
pa li ombreni’
bagnadì di lusòur.
NARRATORE 1
O, dell’estensore di questo scritto, una sera che cade intorno a Casarsa: “Il fanciullo morto”; “Sera luminosa, sul fosso cresce l’acqua, una donna incinta cammina per il campo. Io ti ricordo, Narciso, tu avevi il colore della sera, quando le campane suonano a morto”.
DICITORE
Sera Imbarlumida, tal fossàl
a cres l’aga, na femina plena
a ciamina pal ciamp.
Jo i ti recuardi, Narcis, ti vevis il colòur
de la sera, quand li ciampanis
e sunin di muàrt.
NARRATORE 2
Ma non è per ipocrisia, se concludiamo queste rapide proiezioni del paesaggio friulano attraverso le sue fasi letterarie, con delle vedute popolari. E, intanto, diciamo subito, che non si tratta di equivalenti in poesia di un’arte popolare da iconografia o da ex voto. La cosa è molto più poetica. Si tratta della più alta, perfetta traduzione in termini linguistici dei dati del paesaggio: ma in modo indiretto, per una assoluta convivenza e coesistenza del popolo che canta con il paese in cui canta. E diamo atto della “salute”, della “lavoriosità”, della “religiosità”, che sono gli attributi riferiti per convenzione lassù, nelle riunioni e nei simposi regionalistici, al popolo: tuttavia quelle che ci importano sono una salute e una religiosità ben più interiori e poetiche: sconfinanti, dentro, con doti popolari sconosciute al folclore o alla demopsicologia. Benchè, di geografico, o meglio, tipografico, non ci siano che dei nomi, dove meglio che in questa villotta si può sentire il sapore nudo e povero e solare della Carnia in un giorno di sagra? “Sulle roccie di Collina, sui monti di Rigolato, ho trovato la mia ragazza con rastrello attorcigliato.... Oh che buona l’acqua fresca di Ludaria e Rigolato: voglio prenderne un bottaccino e portarlo a Cividale”.
DICITORE
Su li cretia di Culino
su lis monz di Rigulat
ài ciatàt la me muroso
cul- ris-cel intortolàt.
Joi: che buino l’ago fres-cio
di Ludario e Rigulàt:
‘ i voi toli una butacio
e puartalo a Cividàt.
O la tenerezza della notte in un borgo raccolto sotto i monti con le ultime voci sgolate tra gli orti, in questa villotta antichissima, raccolta a Gemona? “Io ti amavo da piccolina, quando avevi un sette otto anni, e adesso che ne hai sedici, ti amo più che mai. Ma sei sola, o benedetta, se sola a far l’amor? Ah, no, no, che non sono sola, c’è la mamma, e con il lume”.
DICITORE
E jo i ti amavi di picinine
quan che tu aevis un siet vot àins.
E ma cumò che tu ‘no às sèdis
io ‘ o ti ami plui che mai.
Ma sestu sole, o benedete,
ma sestu sole a fa l’amòr?
E po no, no ch’i non soi sole,
a jè la mame e cullusòr.
NARRATORE 1
O la desolata luminaria dell’alba che si stampa, d’or, sui pendii e i villaggi raggelati in questa che è una delle villotte che più risuonano nelle osterie domenicali? “Sulla più alta cima si alza buonora il sole, ma questa non è l’ora di abbandonar l’amore”.
DICITORE
Su la plui alte cime
al jeve il soreli a buin’ ore:
ma cheste no jè l’ore
di bandonà l’amòr.
A centinaia si contano questi brevi canti: il momento in cui la fisionomia umana fa poeticamente parte del paesaggio. In cui le ragazze splendidamente bianche della Bassa, o le “puemis” dalle guancie di ciliegia della Carnia; i giovanotti mori - alpini ancora inerbi che scrivono sui muri dei casolari o della chiesa “Alpìn jò, mame” o “Viva il ‘33, la clase inemorata” o i giovani “montagnari” con gli allegri calzoni di velluto, rivivono in una vita completa, nel cui sentimento profondo, musicale, essi sono una cosa sola coi monti o i campi dove vivono. Natura geografica tradotta in natura umana, il FRIULI più perfetto è nei canti del popolo friulano.
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
PASOLINI
Descrizioni di descrizioni
Edizione Garzanti, Milano, 2006 [1996]
Saggi
Curatore Graziella Chiarcossi
Prefazione Paolo Mauri
Indice
Introduzione di Paolo Mauri I Edward Morgan Forster, Maurice (26 novembre 1972) - pag. 21 [Osip Mandeil'stam] (3 dicembre 1972) - pag. 27 Leo Pestelli, Perdicca (10 dicembre 1972) - pag. 33 Alberto Arbasino, Il principe costante; Goffredo Parise, Sillabario n. 1 (17 dicembre 1972 e 14 gennaio 1973) - pag. 39 Witold Gombrowicz, Diario 1957-1961 (24 dicembre 1972) - pag. 46 J. Rodolfo Wilcock, La Sinagoga degli iconoclasti; Storia Augusta; Marcel Schwob, Vite immaginarie (14 gennaio 1973) - pag. 52 Italo Calvino, Le città invisibili (28 gennaio 1973) - pag. 58 Anonimo russo, La via di un pellegrino; Lazarillo de Tormes (11 febbraio 1973) - pag. 65 Andrej Platonov, Il villaggio della nuova vita (25 febbraio 1973) - pag. 72 Joris-Karl Huysmans, Controcorrente (11 marzo 1973) - pag. 78 Mary McCarthy, Uccelli d'America (25 marzo 1973) - pag. 86 Enzo Siciliano, Rosa (pazza e disperata) (1° aprile 1973) - pag. 93 Gaetano Carlo Chelli, L'eredità Ferramonti (8 aprile 1973) - pag. 99 Gottfried Benn, Poesie statiche (15 aprile 1973) - pag. 105 [Alcuni poeti] (22 aprile 1973) - pag. 111 Carlo Cassola, Monte Mario (29 aprile 1973) - pag. 117 Anna Banti, La camicia bruciata (6 maggio 1973) - pag. 122 Giacomo Debenedetti, Niccolò Tommaseo (13 maggio 1973) - pag. 129 «Almanacco dello Specchio n. 2»; Marianne Moore, Il basilisco piumato (20 maggio 1973) - pag. 135 August Strindberg, Inferno (27 maggio 1973) - pag. 141 [...] Palladio, La Storia Lausiaca; Pietro Citati, Alessandro (15 novembre 1974) - pag. 541 Mario Soldati, Lo smeraldo (29 novembre 1974) - pag. 546 Alfredo Todisco, Breviario di ecologia (6 dicembre 1974) - pag. 552 Luciano, I dialoghi; Tito Balestra, Quiproquo (13 dicembre 1974) - pag. 558 Osvaldo Licini, Errante, erotico, eretico; Alberto Savinio, Hermaphrodito; Gian Paolo Caprettini, San Francesco, il lupo, i segni (20 dicembre 1974) - pag. 564 Abelardo, Storia delle mie disgrazie. Lettere d'amore di Abelardo e Eloisa (27 dicembre 1974) - pag. 569 Gianfranco Contini, La letteratura italiana, tomo IV: Otto-Novecento; Alberto Arbasino, Specchio delle mie brame (3 gennaio 1975) - pag. 577 Stanislao Nievo, Il prato in fondo al mare (10 gennaio 1975) - pag. 582 Roberto Denti, Incendio a Cervara (17 gennaio 1975) - pag. 590 Leonardo Sciascia, Todo modo (24 gennaio 1975) - pag. 594 Nota ai testi - pag. 601 Riferimenti bibliografici - pag. 603 Indice dei nomi - pag. 611
Pagina 52
J. Rodolfo Wilcock, La Sinagoga degli iconoclasti
Storia Augusta
Marcel Schwob, Vite immaginarie
Riprendendo in mano La Sinagoga degli iconoclasti di J. Rodolfo Wilcock, per scriverne – dopo averlo letto una dozzina di giorni fa – provo come un leggero senso di terrore. Ma come! L'avevo letto con tanto divertimento, addirittura, qualche volta, ridendo a voce alta, da solo, come un pazzerello. Adesso il mio sguardo scorre su queste pagine, riconosce questi nomi e questi cognomi, questi titoli di libri, queste date di edizioni: e un disagio sottile mi dà come un senso di nausea, una voglia di dimenticare. Le città invisibili di Italo Calvino si concludono con questa frase: «L'inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Ebbene, questi due modi di mettersi in rapporto con l'inferno per non soffrirne, non prevedono il caso di Wilcock. Egli non appartiene certo alla maggioranza per così dire silenziosa (in realtà essa parla il linguaggio dei motori, delle radioline e delle televisioni), che accetta l'inferno, ne fa parte e non lo riconosce più; ma non appartiene però neanche all'élite fortunata che cerca nell'inferno qualcosa che non è inferno. Anzi, Wilcock sa, prima di ogni altra cosa, sa da sempre sa per sempre, che non c'è altro che l'inferno. Non si propone neanche nel modo più vago e generico (come Calvino) l'ipotesi che ci sia qualcosa al di fuori di esso. Non si sogna neanche lontanamente che ci possa essere un modo, anche illusorio, di non soffrirne o almeno di ignorarlo. E cos'è che distingue allora Wilcock dalla maggioranza silenziosa? È chiaro, benché terribile: egli accetta l'inferno, come la maggioranza silenziosa, ma al contrario della maggioranza silenziosa non ne fa parte, e perciò lo riconosce. Ecco delineata una condizione di «estraneamento». L'accettare un fatto per pura e semplice obiettività, e il non farne parte pur riconoscendolo, costringe Wilcock ad avere con questo fatto un rapporto tragico di estraneità: a cui non è consentita alcuna soluzione, nemmeno provvisoria o irrisoria. Quando la tragicità è ridotta ad essere così completamente priva di illusioni, non può che trasformarsi in comicità. Visitatore-dannato dell'inferno, Wilcock, bruciando nel fuoco o dibattendosi nella pece bollente, osserva gli altri dannati: ma pur soffrendo – com'è naturale – in modo selvaggio, in questo suo osservarli li trova ridicoli. Il suo ridente sguardo cadaverico si posa soprattutto sui dannati in qualche modo simili a lui, appartenenti alla sua cerchia, alla sua specializzazione. La loro irresistibile comicità di dannati non spinge però Wilcock né a deriderli troppo né ad averne qualche pietà. Descrivendoli, egli concretizza semplicemente la propria condizione di «estraneità»: la concretizza in una forma di distacco linguistico che è infatti quasi filologico: e decisamente filologico lo è nella sua veste di «finzione» narrativa. Ma è ora di spiegare in più povere parole di che si tratta. Wilcock ha finto di essere un enciclopedista, armato di una erudizione spaventevole, capace di tutto, e, nel tempo stesso, capace di semplificare tutto. Ecco, per dir meglio, Wilcock ha finto di essere un enciclopedista incaricato da un editore di scrivere un certo numero di «voci» per una enciclopedia divulgativa. Queste voci riguardano scienziati, inventori, utopisti, saggisti, filosofi. E Wilcock compila queste sue «voci» con tanto scrupolo, diligenza, abito professionale che, dico la verità, ad apertura di libro, ho creduto che si trattasse di nomi veri, di fatti realmente accaduti. La pagina dove si era posato il mio occhio, era la seguente: «Secondo Charles Carroll di Saint Louis, autore de Il negro è una bestia (The Negro a Beast, 1900) e Chi tentò Eva? (The Tempter of Eve, 1902), il negro fu creato da Dio insieme agli animali al solo scopo che Adamo e i suoi discendenti non mancassero di camerieri, lavapiatti, lustrascarpe, addetti alle latrine e fornitori di servizi simili nel Giardino dell'Eden. Come gli altri mammiferi, il negro manifesta una specie di mente, qualcosa tra il cane e la scimmia, ma è completamente privo di anima. Il serpente che tentò Eva era in realtà la cameriera africana della prima coppia umana. Caino, costretto dal padre e dalle circostanze a sposare sua sorella, rifuggì dall'incesto e preferì sposare una di queste scimmie o serve di pelle scura. Da questo ibrido matrimonio sono scaturite le varie razze della terra...» Non è forse attendibile come teoria razzista del primo Novecento? Wilcock descrive poi teorici e utopisti ancora più spaventosi, forniti di nomi mitteleuropei, anglosassoni, latino-americani, assolutamente assurdi, quasi da avanspettacolo, e inventori di congegni, macchinari, sistemi filosofici ancora più assurdi: eppure nessuna di quelle figure e nessuna di quelle invenzioni è più ridicola e stronza di come sarebbe stata se fosse stata reale. A libro chiuso, abbiamo letto una vera antologia di biografie di uomini di pensiero. Cos'è che dà a questo libro un così forte sentimento di realtà? È, soprattutto, il surrealismo: è infatti sul surrealismo che Wilcock investe la vena comica con cui rende accettabile la patetica malvagità che gli fa identificare tutto il mondo con l'inferno. Egli approfitta insomma delle teorie dei suoi eroi per farne dei pezzi di magistrale letteratura onirica: cosicché tali teorie non sono più delle cose semplicemente pazzesche, da genialoidi destinati al manicomio, ma, diventando «visioni», attraverso lo stile del loro descrittore, recuperano una realtà poetica che si proietta su loro, restituendole all'universalità che avevano perduto nella miseria della pazzia. Diventano – se vogliamo – delle metafore perfette di analoghe scoperte, invenzioni, ideologie reali. Naturalmente – come un quadro surrealista è dipinto con la pennellatina pre-impressionistica, che, con cura accademica, ambisce alla fedele riproduzione del modello – così anche la scrittura di Wilcock è una scrittura perfettamente normale, piana, convincente. E non solo per scherzo (ché in tal caso non ci occuperemmo del libro), ma con il rigore di una scelta stilistica intrasgredibile. «... uno stile piano e impersonale è concesso a pochi, e non certo a uno scrittore di successo», scrive Wilcock nell'unica riflessione diretta sul proprio scrivere nella Sinagoga. Su questo piano di riflessione metalinguistica, ciò che colpisce di più il lettore leggendo il libro di Wilcock, fatto tutto di una serie ci brevi pezzi, intitolati ognuno (come appunto in un'enciclopedia) col nome proprio del pensatore, è la curiosità con cui lo si divora, quasi si trattasse di un libro giallo. La «suspense» che mantiene così morbosamente attenti, è appunto di genere metalinguistico, e consiste nella domanda: «Che cosa inventerà nella prossima "voce" l'autore?» E l'autore, nel nostro caso non tradisce mai, neanche nelle attese più ingenue (ognuna di queste sue biografie potrebbe essere un magnifico film comico). È una coincidenza certo casuale: ma insieme a quello di Wilcock sono usciti almeno altri tre libri che si divorano per l'interesse causato dalla stessa domanda: «Cosa inventerà l'autore nel prossimo pezzo?» Si tratta prima di tutto della... Storia Augusta, le biografie – scritte nel secolo IV d.C. – degli imperatori romani che si sono successi dal 117 al 284-85. Sono brevi romanzi, in cui la storia è completamente sognata. L'accumulazione dei fatti e dei dettagli – dovuta al taglio breve del racconto – accresce questo sentimento di sogno. Ho letto prima di tutto, in omaggio a Arbasino, la vita di Eliogabalo: possibile che al tempo di Costantino il «Basso Impero» apparisse già in tutto il suo gusto decadente, come appare a noi? Quei secoli che se ne vanno via a manciate, trascinando interi popoli e intere vite in men che non si dica amen... Quelle epoche storiche che hanno minor consistenza di un banchetto... Quegli assestamenti di popoli in cui una vita umana sembra sottratta alla legge del tempo, oppure regolata dalla legge del tempo che vale per le farfalle che vivono un solo giorno... Sono propenso ad abbracciare la teoria del Dessau (sembra un personaggio di Wilcock) che in Ueber die Zeit und Persönlichkeit der S.H.A. dimostra che la Storia Augusta è stata scritta da un'unica persona, così che i sei autori tradizionali (Elio Lampridio, Elio Sparziano ecc.) sarebbero stati inventati di sana pianta da quell'autore unico, rimasto anonimo (forse per estrema raffinatezza). Il secondo libro è un classico, cioè Vite immaginarie di Marcel Schwob. Anche qui la domanda che tiene desta l'attenzione di «Vita» in «Vita» è la stessa. Ma una certa ordinata distribuzione cronologica, dall'antichità classica all'Ottocento rovina un po' il piacere di trovarsi di fronte a possibilità imprevedibili. Meglio leggere questo libro non di seguito. Oppure andare diretti ai racconti più belli, gli ultimi, dalle storie dell'adorabile puttana Katherine la Merlettaia e dell'adorabile assassino Alain le Gentil in poi. Anche qui la caratteristica è l'accumulazione dei casi – delle volte apparentemente minimi – dovuta alla concentrazione del racconto (una vita in due-tre pagine): il montaggio distrugge le regole del tempo, sostituendole con regole morali: una vita è tale non in quanto è una continuità ma in quanto è una serie di avvenimenti significativi, anche quando a evidenziarli sia una luce di sogno. Il tempo, annullato, si vendica però covando la sua assenza come una terribile nostalgia, un insostenibile senso di possibilità irrealizzate.
Il terzo libro è Le città invisibili di Italo Calvino. Ma di esso parlerò nel prossimo numero.
14 gennaio 1973
Pagina 58
Italo Calvino, Le città invisibili
Sono cresciuto insieme con Italo Calvino, l'ho visto giovanissimo, quasi un ragazzo (credo che abbia uno o due anni meno di me, ma quando sono entrato nel mondo uscendo dal monastero friulano nel 1950, lui era un po' più adulto, e più dentro le cose della società e della letteratura, che ancora per un pezzo mi sarebbero state precluse, quasi che io non le meritassi, per qualche indegnità – o per troppa ingenuità). Abbiamo lavorato insieme, lui a Torino, io a Roma, fin verso ai quaranta anni, cioè fino a che abbiamo raggiunto il centro della vita (quarant'anni è l'età in cui l'uomo è più «illuso», crede di più nei cosiddetti valori del mondo, prende più sul serio il fatto di dovervi partecipare, di dover impossessarsene. Il ventenne, nei confronti del quarantenne, è un mostro di realismo). Il nostro lavoro, in qualche modo si integrava, benché fosse così diverso: e ci legava soprattutto l'ottimismo — come un buon sentimento — consistente nella convinzione che il nostro lavoro fosse al «centro» di qualcosa, e che qualcosa ne dovesse risultare. In modo molto ombroso, ci ammiravamo e ci amavamo, senza molti complimenti, troppo presi dall'importanza di ciò che facevamo per consentirci pause disinteressate. Poi Calvino ha cessato di sentirsi vicino a me. L'ho capito subito. All'inizio degli anni Sessanta, qualcosa si spaccava, e io e lui eravamo sulle parti opposte della spaccatura. Il suo viso militare, fiero e furbetto, sotto le grosse sopracciglia nere, che benché così settentrionale, lo rendono molto mediterraneo, la bocca carnosa che si agita sempre come sul punto di dire qualcosa che passa ilarmente da lontano nel suo cervello attento – questa sua immagine ha cominciato un po' a ingiallire e a scolorirsi: a sorridere «de lonh», come quella di una cara persona la cui perdita viene conosciuta dopo qualche anno, quando è ormai tardi per soffrirne. Naturalmente ho da ridire sul modo con cui Calvino ha scelto l'«attualità»: la sua apertura verso la neo-avanguardia e la sua adesione aprioristica al Movimento Studentesco (per tenermi molto sulle generali). Non so cosa è passato realmente dentro la sua testa in questi ultimi anni, perché Calvino, forse diplomaticamente, ha taciuto o ha un po' mentito. Cosa che del resto, nel mondo, bisogna saper anche fare. Non è detto che si debba sempre dire la verità. Qualche volta è forse meglio tacere che dire la verità. È più sano, forse, qualche volta, tenersela dentro, la verità. Fatto sta che Calvino ha mantenuto intatto il suo credito, mentre io screditato due volte, da due mode da cui Calvino invece non si è dissociato — stabilendo con esse una specie di sia pur distratta alleanza — col ristabilirsi della verità, che io, inopportunamente, ho gridato a tutti i venti come una gallina spennacchiata — continuo a godermi non solo il discredito (che si rivela dunque piuttosto immeritato), ma anche la antipatia di chi non mi sa perdonare di aver detto a suo tempo ciò che era giusto dire. Di Calvino, dicevo, per qualche anno non ho saputo realmente niente, quasi che anche fisicamente egli avesse avuto una specie di sospensione. Le Cosmicomiche – lo confesso – mi erano giunte come una cosa irreale e interlocutoria. Adesso egli mi riappare, non solo vero, ma più vero che mai, col suo ultimo libro, che non solo è il suo più bello, ma bello in assoluto. La prima osservazione che mi viene da fare è che questo suo libro, Le città invisibili, è il libro di un ragazzo. Solo un ragazzo può avere da una parte un umore così radioso, così cristallino, così disposto a far cose belle, resistenti, rallegranti; e solo un ragazzo, d'altra parte, può avere tanta pazienza – da artigiano che vuol a tutti i costi finire e rifinire il suo lavoro. Non i vecchi, i ragazzi, sono pazienti. D'altra parte nella città di Isidora, «c'è il muretto dei vecchi che guardano passare la gioventù; lui è seduto in fila con loro». E indubbiamente, cioè secondo logica, Le città invisibili sono l'opera di un vecchio, o almeno di un uomo anziano, che ha visto passare la vita. Questa esperienza – che è la più importante che un uomo possa fare – fa sì che egli non riesca a vedere più il futuro come il futuro della propria vita, e nemmeno, ormai, come il futuro dei figli o dei nipoti (che è l'orizzonte umano entro cui, per esempio, opera la Ragione, e l'etica, soprattutto normativa, trova i suoi fondamenti): no, l'esperienza dell'aver visto passare la vita equivale all'esperienza dell'aver visto passare tutta la possibile vita, la vita del cosmo. Il futuro si allarga quindi smisuratamente, e tutte le proporzioni del reale, con la sua razionalità e la sua morale, saltano. Resta soltanto il dato di tale esperienza – che dunque senza razionalità e senza morale, deve giustificarsi da sola, non potendo confrontarsi con niente altro che con le illusioni, e, d'altra parte, non avendo altro possibile sbocco che quello di esprimersi. Il libro di Calvino è così il libro di un vecchio, per cui «i desideri sono ricordi». Non solo, però, i desideri sono ricordi: lo sono anche le nozioni, le informazioni, le notizie, le esperienze, le ideologie, le logiche: tutto è ricordo. Ogni strumento intellettuale per vivere, è un ricordo. Di conseguenza anche la assoluta novità del conoscere la vita «come passata», non ha altri strumenti per esprimersi che questi vecchi ricordi. È vero dunque che ogni illusione culturale in Calvino è decaduta, ma la sua cultura è però rimasta: almeno come fornitrice di quei ricordi culturali, attraverso cui Calvino può esprimere il nuovo mondo, come esso si presenta ai suoi occhi abbacinati di vecchio-ragazzo, seduto sul muretto. In questa cultura, che possiamo chiamare «sopravvissuta», di Calvino c'è tutto: anche naturalmente il marxismo con le sue esigenze praticistiche di intervento, la sua retorica ecc., perché è questo soprattutto che il libro, pur inglobando, nega (ma non abiura). L'idea di una Città Migliore, raggiunta attraverso la vittoria, mettiamo, della lotta di classe, viene semplicemente immersa in una diversa idea del tempo: non dico della storia, ma proprio del tempo. Infatti molte delle città sognate da Calvino in un certo momento raggiungono la perfezione. Che poi la riperdano è un discorso che riguarda generazioni incredibilmente future. Questo lo dico per cercare di tranquillizzare le coscienze dei miei colleghi critici marxisti osservanti. Dunque, malgrado la caduta di ogni illusione culturale, la cultura di Calvino, ripeto, è rimasta intatta, sia pure come Illusione: e, in quanto tale, ha raggiunto la perfezione formale di un oggetto, di un meraviglioso fossile. La cultura specifica di Calvino, poi, che è quella letteraria, liberatasi dalla sua funzione, dai suoi doveri, è divenuta come una miniera abbandonata, in cui Calvino va a prelevare i tesori che vuole.
Che cosa vi preleva? Prima di tutto una scrittura metallica, quasi cristallina, ma leggera, incredibilmente leggera: la scrittura del gioco. A questa leggerezza Calvino non trasgredisce mai: non c'è mai un solo istante in cui egli scrivendo non cavalchi a briglie sciolte, come se andasse senza avere meta: eppure, in questo andare per andare, l'eleganza, la cura disinteressata dell'eleganza, non è tradita mai un momento. La seconda cosa che Calvino preleva nella sua cava in disuso, sono le tecniche dell'ambiguità. In ogni pagina delle Città invisibili ogni canone è sospeso: anzi, è motteggiato. Il senso è come un'eco in una valle piena di grotte che suona ora qua ora là, pur essendo sempre lo stesso. Ma l'ambiguità, nel suo aspetto più tipico e classico di sfumatura infinita, si trova specialmente nelle pagine connettive del libro, quelle in corsivo, che affabulano dei referti di uno pseudo Marco o di uno pseudo Polo all'imperatore. Ambedue gli interlocutori sono eternamente cangianti, e si presentano, ogni volta, come i simboli di tutti i libri possibili che questo libro potrebbe essere; o come i simboli dei punti di vista attraverso cui questo libro, sia ideologicamente che linguisticamente, potrebbe essere angolato. Non si può quindi affatto parlare di «relativismo» a proposito di Calvino, perché il suo relativismo è completamente visionario, confrontato con infinite possibilità diverse. La terza cosa che Calvino ricava dalla sua miniera letteraria è il surrealismo: un surrealismo che è la delizia delle delizie, perché la galleria dei quadri surrealistici che ne risultano, non si spiegano affatto attraverso se stessi, cioè attraverso il surrealismo, ma sono funzionali a quella folle ideologia multipla, che contesta ogni possibile logica della ragione, e soprattutto quella dialettica. Il fondo di tale ideologia, infinitamente possibilistica o multipla, è però sempre lo stesso, ossessivamente lo stesso: ed è costituito dallo scontro inconciliabile di due opposti: la realtà e il mondo delle idee. Sì, nella letteratura archeologica di Calvino, è saltato fuori il platonismo, sotto il cui segno quella letteratura è nata. Tutte le città che Calvino sogna, in infinite forme, nascono invariabilmente dallo scontro tra una città ideale e una città reale: questo scontro ha il solo effetto di rendere surrealistica la città reale, ma non si risolve storicamente in nulla. I due opposti non si superano in un rapporto dialettico! La lotta tra essi è ostinata e disperata quanto inutile: il tempo fa da paciere trascinando tutto con sé in una dimensione completamente illogica, che risolve i problemi diluendoli all'infinito, distruggendoli fino a farne dei rottami a loro volta surreali. Per me, che sto lavorando a Le mille e una notte, leggere questo libro è stato quasi inebriante: e non è un caso o un fatto personale. Proprio Le mille e una notte sono il modello figurativo che il surrealismo di Calvino parsimoniosamente saccheggia: e come ogni racconto de Le mille e una notte è il racconto di una anomalia del destino, così ogni descrizione di Calvino è la descrizione di una anomalia del rapporto tra mondo delle Idee e Realtà (che è poi il Destino nella civiltà occidentale). L'invenzione poetica consiste nell'individuazione di tale momento anomalo. Nelle descrizioni delle città di Maurilia, di Zobeide, di Ipazia, di Eutropia, di Ottavia, di Ersilia, di Bauci, di Pirra, di Moriana, di Bersabea, di Raissa, di Marozia, tale individuazione dell'anomalia è talmente perfetta che pare essere avvenuta da sé: abbiamo davanti a noi dei fenomeni di una realtà «surreale» di cui Calvino pare essere veramente il semplice descrittore. Come può essere accaduto questo, quando è ben chiaro che, secondo la logica, e anche la pratica (per chi ce n'abbia un poco) tale operazione appare, a tavolino, estremamente difficile, se non impossibile? Come si fa a ripetere il miracolo del narratore de Le mille e una notte, la sua esaltante attendibilità nel raccontare le anomalie del codice del destino? In fondo – invece – la cosa si spiega abbastanza semplicemente: anzi, è la prima cosa che avrei dovuto dire parlando di questo libro: Calvino non inventa nulla, tanto per inventare: semplicemente si concentra su un'impressione reale – uno dei tanti choc intollerabili, che meriggi o crepuscoli, mezze stagioni o canicole, ci causano negli angoli più impensati o più famigliari delle città note o ignote in cui viviamo – e, pur sentendolo in tutta la sua qualità struggente di sogno, lo analizza: i pezzi separati, smontati, di tale analisi, vengono riproiettati nel vuoto e nel silenzio cosmico in cui la fantasia ricostruisce, appunto, i sogni. È sempre dunque una «base» di sensibilità reale che fornisce materia per i «vertici» poetici e ideologici di Calvino.