"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Amerigo Bartoli, Ritratto di Roberto Longhi, 1924 |
Pier Paolo Pasolini
Illusioni storiche e realtà nell’opera di Longhi
pubblicato sulla rivista Tempo
del 18 gennaio 1974
*
Successivamente anche
In Descrizioni di descrizioni.
A cura di Graziella Chiarcossi.
Prefazione di Giampaolo Dossena,
Garzanti Editore, Milano 1996
con il titolo
Roberto Longhi, Da Cimabue a Morandi
Se penso alla piccola aula (con banchi molto alti e uno schermo dietro la cattedra) in cui nel 1938-39 (o nel 1939-1940?) ho seguito i corsi bolognesi di Roberto Longhi, mi sembra di pensare a un'isola deserta, nel cuore di una notte senza più una luce. E anche Longhi che veniva, e parlava su quella cattedra, e poi se ne andava, ha l'irrealtà di un'apparizione. Era, infatti, un'apparizione. Non potevo credere che, prima e dopo aver parlato in quell'aula, egli avesse una vita privata, che ne garantisse la normale continuità. Nella mia immensa timidezza di diciassettenne (che dimostrava almeno tre anni di meno) non osavo nemmeno affrontare un tale problema. Non sapevo nulla di incarichi, di carriere, di interessi, di trasferimenti, di insegnamenti. Ciò che Longhi diceva era carismatico. Non vuoi dire nulla che, per istinto, io fossi incuriosito in lui anche dall'uomo, che era un po' incuriosito di me, e che provassi della simpatia profonda (credo anche un po' ricambiata). Il rapporto era ontologico e negato assolutamente a ogni precisazione
pratica. Forse anche per questo tutto ciò appartiene a un altro mondo. Solo in seguito ho tentato qualche ricostruzione: ma non è detto che abbia mai perso la mia timidezza fino al punto da far questo con reale senso pratico e con la reale capacità di rompere il diaframma idealistico che mi separava dal maestro. Dopo, si può dire che siamo diventati amici, anche se la frequentazione è stata sempre così rara. E anzi, solo dopo, Longhi è diventato il mio vero maestro. Allora, in quell'inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.
Che cosa faceva Longhi in quell'auletta appartata e quasi introvabile dell'università di via Zamboni? Della «storia dell'arte»? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e di Masaccio. Non oso qui entrare nel merito. Vorrei solo analizzare il mio ricordo personale di quel corso: il quale ricordo è, in sintesi, il ricordo di una contrapposizione o netto confronto di «forme». Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una «inquadratura» rappresentante un campione del mondo masoliniano - in quella continuità che è appunto tipica del cinema - si «opponeva» drammaticamente a una «inquadratura» rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco. Il manto di una Vergine al manto di un'altra Vergine... Il Primo Piano di un Santo o di un astante al Primo Piano di un altro Santo o di un altro astante... Il frammento di un mondo formale si opponeva quindi fisicamente, materialmente al frammento di un altro mondo formale: una «forma» a un'altra «forma».
Gianfranco Contini - devo dire che è attraverso di lui, che Longhi mi si è rivelato il mio vero maestro? - ha raccolto ora in un volume di 1139 pagine stampate fitte, e che quindi normalmente sarebbero almeno il triplo, un'antologia degli scritti di Longhi, ivi inclusi i miei Fatti di Masolino e Masaccio, naturalmente; ne ha fatto la prefazione, arricchita da un compendio critico su Longhi (Cecchi, Contini stesso, De Robertis, Mengaldo), e da una magnifica Nota bibliografica generale. In una nazione civile questo dovrebbe essere l'avvenimento culturale dell'anno. Sì, ma l'Arte non è «controllo amministrativo della vita» (come suona la definizione canzonatoria affibbiata da Longhi ai «filistei» nel 1913!)
Devo dire che, a prima vista - sfogliando il libro, osservando «com'era fatto» e leggendolo qua e là - trovavo da ridire sul lavoro di Contini proprio a proposito di ciò su cui egli aveva previsto che si sarebbe trovato da ridire. Cioè la mancanza delle riproduzioni dei quadri cui i saggi di Longhi si riferiscono; la successività non cronologica dei saggi (quello che ho citato, del '13, è uno degli ultimi) per cui il lettore è costretto a ricostruire molto faticosamente da sé ciò che più gli importa, cioè la storia dello stile di Longhi stesso; infine la struttura mentale che nasce da tale successività dei saggi, che è la struttura di una «storia dell'arte italiana» dal cui senso Longhi era profondamente (ma anche, bisogna dirlo, ambiguamente) alieno: così che il lettore è costretto a seguire ciò che in fondo meno gli importa, appunto quella «storia dell'arte italiana».
Contini non ha difeso nella sua prefazione con la solita eleganza ipnotica e la solita sorridente infallibilità, il proprio operato; sicché è il lettore stesso a dover sbrigarsela col grande testo, affrontandolo praticamente senza alcun conforto, alcuna preparazione e alcun metodo. E' un'avventura. La prima chiave di lettura è ovviamente quella di «Longhi prosatore», o meglio «Longhi prosatore grande almeno quanto Gadda». E infatti la prima continuità di questo testo è dovuta proprio ai pezzi dove la grandezza di Longhi prosatore si manifesta in tutta la sua riottosa ispirazione. Il canone primo di tale prosa è la reticenza. Non si dimentica mai, neanche per un istante, nel leggere Longhi prosatore, il Longhi critico, impegnato, sempre molto rischiosamente, in ipotesi, scoperte, riordinazioni, attribuzioni: il cui fondamento è sempre la lettura del quadro, mai la lettura di documenti che riguardano il quadro, e che quindi possono dare, del quadro, informazioni oggettive. Nell’attribuire un quadro a un autore, o addirittura nel ricostruire l'intera personalità di un autore (come in uno strabiliante romanzo giallo), Longhi non è mai ricorso a dati esterni, filologici. Egli si è attenuto strettamente alla logica interna delle forme. Il rischio era dunque enorme, sempre. Di qui la cautela, e quindi l'ironia. Prodotto diretto, formale, nella prosa di Longhi, della sua reticenza (la cautela, appunto, più l'ironia, maieutica) è lo «scorcio». Tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esaminati (e sono naturalmente i punti più alti della sua «prosa») sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, «tradotto» nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.
A introdurre lo «scorcio» è linguisticamente un'ipotesi, o un'esortazione o una clausola finale (il c.d.d. del teorema, ma mai trionfalistico). Gettate là per caso, in fretta, in mera funzione di un'ipotesi, o a mera conclusione di un ragionamento, le descrizioni dei quadri (o, meglio, della realtà rappresentata da quei quadri) finiscono con l'essere di una esattezza lancinante, visionaria.
È proprio seguendo la vitale, esaltante, accanita, ossessa ricerca di Longhi - che consiste sostanzialmente nel far coincidere la verità critica con i vari aspetti che la realtà doveva assumere nei pittori lungo i secoli - che, piano piano si rivela il senso riposto di questo libro. E a questo senso va predicata certo una continuità: che non è però, soltanto, la continuità della serie dei risultati spesso supremi dell'espressività (della «prosa»).
La continuità del senso di questo grande libro di saggi consiste, io credo, in una «storia delle forme». Storia, intendo, proprio come evoluzione, ma nel senso puramente critico, vitale, concreto della parola. Tale evoluzione si presenta lentissima: i suoi passaggi hanno un ritmo quasi al «rallentatore», per quanto il loro susseguirsi sia logico fino alla fatalità. Ma ammettiamo che tali forme in evoluzione - anziché essere intraviste attraverso gli acmi descrittivi del discorso di Longhi, che s'ingorga quasi proustianamente nella «ricerca» - ci si presentassero, materialmente, attraverso le diapositive che ho detto a proposito di quel mitico corso bolognese. E ammettiamo che il proiettore potesse imprimere al susseguirsi di tali diapositive il ritmo dell'accelerazione più buffa: ecco che il senso della «evoluzione» di quelle «forme» apparirebbe sinteticamente, quasi in una inarrestabile conseguenzialità meccanica.
Supponiamo poi che tali diapositive rappresentino, in dettaglio, la «forma» delle pieghe del manto della Vergine su un ginocchio o sul grembo; oppure la «forma» di un piccolo paesaggio del fondo; oppure ancora la «forma» del viso di un Santo o di un Devoto; e carichiamo nel proiettore, per prima, la diapositiva di una «forma» di Cimabue (o di Giotto «spazioso», o di Stefano fiorentino), e, per ultima, diciamo, una «forma» del Caravaggio. Facciamo in modo che la proiezione sia accelerata. Ed ecco, ecco, davanti ai nostri occhi, passare l’Evoluzione delle forme, come un meraviglioso film critico, senza principio né fine, eppure perfettamente escatologico. Il Longhi ancora ingenuo della «Voce», scrivendo ad Alba (il 18 marzo 1913) aveva già intuito tutto: «Ogni volta che l'arte raggiunge una saturazione di staticità, di corporeità, s'aggiunge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del moto. Molto comprensivamente, questo rappresentano i Greci di fronte agli Egiziani, i Gotici ai Romani, l'architettura del Quattrocento all'antica, l'architettura Barocca a quella del Rinascimento... E bene: il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento... una tavola di pietra spessa e robusta s'incurva pressa da una forza gigante... Al cerchio, succede l'ellisse...».
Da allora in poi ad altro Longhi non ha accudito, in cuor suo, che a osservare tale «successione». Poiché si tratta di una successività disinteressata, assolutamente priva di utopie e di illusioni o terrorismi progressisti, e la finalità si autocostituisce e si autodefinisce, in sostanza, momento per momento, atto per atto, invenzione concreta per invenzione concreta, ecco che la critica di Longhi non può essere che di una estrema purezza, perfettamente contemplativa. Una sola, e irrelata, è l'illusione: quella della possibilità di esprimere indefinitamente la realtà, attraverso un seguito di drammatiche riscoperte (vedi il Caravaggio!): tutte le altre sono piccole illusioni storiche, più o meno servili, più o meno ipocrite. Le meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe, non son nulla in confronto del suo lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme.
Che cosa faceva Longhi in quell'auletta appartata e quasi introvabile dell'università di via Zamboni? Della «storia dell'arte»? Il corso era quello memorabile sui Fatti di Masolino e di Masaccio. Non oso qui entrare nel merito. Vorrei solo analizzare il mio ricordo personale di quel corso: il quale ricordo è, in sintesi, il ricordo di una contrapposizione o netto confronto di «forme». Sullo schermo venivano infatti proiettate delle diapositive. I totali e i dettagli dei lavori, coevi ed eseguiti nello stesso luogo, di Masolino e di Masaccio. Il cinema agiva, sia pur in quanto mera proiezione di fotografie. E agiva nel senso che una «inquadratura» rappresentante un campione del mondo masoliniano - in quella continuità che è appunto tipica del cinema - si «opponeva» drammaticamente a una «inquadratura» rappresentante a sua volta un campione del mondo masaccesco. Il manto di una Vergine al manto di un'altra Vergine... Il Primo Piano di un Santo o di un astante al Primo Piano di un altro Santo o di un altro astante... Il frammento di un mondo formale si opponeva quindi fisicamente, materialmente al frammento di un altro mondo formale: una «forma» a un'altra «forma».
Gianfranco Contini - devo dire che è attraverso di lui, che Longhi mi si è rivelato il mio vero maestro? - ha raccolto ora in un volume di 1139 pagine stampate fitte, e che quindi normalmente sarebbero almeno il triplo, un'antologia degli scritti di Longhi, ivi inclusi i miei Fatti di Masolino e Masaccio, naturalmente; ne ha fatto la prefazione, arricchita da un compendio critico su Longhi (Cecchi, Contini stesso, De Robertis, Mengaldo), e da una magnifica Nota bibliografica generale. In una nazione civile questo dovrebbe essere l'avvenimento culturale dell'anno. Sì, ma l'Arte non è «controllo amministrativo della vita» (come suona la definizione canzonatoria affibbiata da Longhi ai «filistei» nel 1913!)
Devo dire che, a prima vista - sfogliando il libro, osservando «com'era fatto» e leggendolo qua e là - trovavo da ridire sul lavoro di Contini proprio a proposito di ciò su cui egli aveva previsto che si sarebbe trovato da ridire. Cioè la mancanza delle riproduzioni dei quadri cui i saggi di Longhi si riferiscono; la successività non cronologica dei saggi (quello che ho citato, del '13, è uno degli ultimi) per cui il lettore è costretto a ricostruire molto faticosamente da sé ciò che più gli importa, cioè la storia dello stile di Longhi stesso; infine la struttura mentale che nasce da tale successività dei saggi, che è la struttura di una «storia dell'arte italiana» dal cui senso Longhi era profondamente (ma anche, bisogna dirlo, ambiguamente) alieno: così che il lettore è costretto a seguire ciò che in fondo meno gli importa, appunto quella «storia dell'arte italiana».
Contini non ha difeso nella sua prefazione con la solita eleganza ipnotica e la solita sorridente infallibilità, il proprio operato; sicché è il lettore stesso a dover sbrigarsela col grande testo, affrontandolo praticamente senza alcun conforto, alcuna preparazione e alcun metodo. E' un'avventura. La prima chiave di lettura è ovviamente quella di «Longhi prosatore», o meglio «Longhi prosatore grande almeno quanto Gadda». E infatti la prima continuità di questo testo è dovuta proprio ai pezzi dove la grandezza di Longhi prosatore si manifesta in tutta la sua riottosa ispirazione. Il canone primo di tale prosa è la reticenza. Non si dimentica mai, neanche per un istante, nel leggere Longhi prosatore, il Longhi critico, impegnato, sempre molto rischiosamente, in ipotesi, scoperte, riordinazioni, attribuzioni: il cui fondamento è sempre la lettura del quadro, mai la lettura di documenti che riguardano il quadro, e che quindi possono dare, del quadro, informazioni oggettive. Nell’attribuire un quadro a un autore, o addirittura nel ricostruire l'intera personalità di un autore (come in uno strabiliante romanzo giallo), Longhi non è mai ricorso a dati esterni, filologici. Egli si è attenuto strettamente alla logica interna delle forme. Il rischio era dunque enorme, sempre. Di qui la cautela, e quindi l'ironia. Prodotto diretto, formale, nella prosa di Longhi, della sua reticenza (la cautela, appunto, più l'ironia, maieutica) è lo «scorcio». Tutte le descrizioni che Longhi fa dei quadri esaminati (e sono naturalmente i punti più alti della sua «prosa») sono fatte di scorcio. Anche il quadro più semplice, diretto, frontale, «tradotto» nella prosa di Longhi, è visto come obliquamente, da punti di vista inusitati e difficili.
A introdurre lo «scorcio» è linguisticamente un'ipotesi, o un'esortazione o una clausola finale (il c.d.d. del teorema, ma mai trionfalistico). Gettate là per caso, in fretta, in mera funzione di un'ipotesi, o a mera conclusione di un ragionamento, le descrizioni dei quadri (o, meglio, della realtà rappresentata da quei quadri) finiscono con l'essere di una esattezza lancinante, visionaria.
È proprio seguendo la vitale, esaltante, accanita, ossessa ricerca di Longhi - che consiste sostanzialmente nel far coincidere la verità critica con i vari aspetti che la realtà doveva assumere nei pittori lungo i secoli - che, piano piano si rivela il senso riposto di questo libro. E a questo senso va predicata certo una continuità: che non è però, soltanto, la continuità della serie dei risultati spesso supremi dell'espressività (della «prosa»).
La continuità del senso di questo grande libro di saggi consiste, io credo, in una «storia delle forme». Storia, intendo, proprio come evoluzione, ma nel senso puramente critico, vitale, concreto della parola. Tale evoluzione si presenta lentissima: i suoi passaggi hanno un ritmo quasi al «rallentatore», per quanto il loro susseguirsi sia logico fino alla fatalità. Ma ammettiamo che tali forme in evoluzione - anziché essere intraviste attraverso gli acmi descrittivi del discorso di Longhi, che s'ingorga quasi proustianamente nella «ricerca» - ci si presentassero, materialmente, attraverso le diapositive che ho detto a proposito di quel mitico corso bolognese. E ammettiamo che il proiettore potesse imprimere al susseguirsi di tali diapositive il ritmo dell'accelerazione più buffa: ecco che il senso della «evoluzione» di quelle «forme» apparirebbe sinteticamente, quasi in una inarrestabile conseguenzialità meccanica.
Supponiamo poi che tali diapositive rappresentino, in dettaglio, la «forma» delle pieghe del manto della Vergine su un ginocchio o sul grembo; oppure la «forma» di un piccolo paesaggio del fondo; oppure ancora la «forma» del viso di un Santo o di un Devoto; e carichiamo nel proiettore, per prima, la diapositiva di una «forma» di Cimabue (o di Giotto «spazioso», o di Stefano fiorentino), e, per ultima, diciamo, una «forma» del Caravaggio. Facciamo in modo che la proiezione sia accelerata. Ed ecco, ecco, davanti ai nostri occhi, passare l’Evoluzione delle forme, come un meraviglioso film critico, senza principio né fine, eppure perfettamente escatologico. Il Longhi ancora ingenuo della «Voce», scrivendo ad Alba (il 18 marzo 1913) aveva già intuito tutto: «Ogni volta che l'arte raggiunge una saturazione di staticità, di corporeità, s'aggiunge, o combinandosi o imponendosi, la ricerca del moto. Molto comprensivamente, questo rappresentano i Greci di fronte agli Egiziani, i Gotici ai Romani, l'architettura del Quattrocento all'antica, l'architettura Barocca a quella del Rinascimento... E bene: il problema del futurismo rispetto al cubismo è quello del Barocco di fronte al Rinascimento. Il Barocco non fa che porre in moto la massa del Rinascimento... una tavola di pietra spessa e robusta s'incurva pressa da una forza gigante... Al cerchio, succede l'ellisse...».
Da allora in poi ad altro Longhi non ha accudito, in cuor suo, che a osservare tale «successione». Poiché si tratta di una successività disinteressata, assolutamente priva di utopie e di illusioni o terrorismi progressisti, e la finalità si autocostituisce e si autodefinisce, in sostanza, momento per momento, atto per atto, invenzione concreta per invenzione concreta, ecco che la critica di Longhi non può essere che di una estrema purezza, perfettamente contemplativa. Una sola, e irrelata, è l'illusione: quella della possibilità di esprimere indefinitamente la realtà, attraverso un seguito di drammatiche riscoperte (vedi il Caravaggio!): tutte le altre sono piccole illusioni storiche, più o meno servili, più o meno ipocrite. Le meravigliose capacità istrioniche di Longhi, le sue gioiellerie severe, non son nulla in confronto del suo lucido, umile ascetismo di osservatore del moto delle forme.
Tempo, 18 gennaio 1974
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