"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pier Paolo Pasolini
Amarcord
Playboy
III
numero 2
febbraio 1974
pag.18
Recensendo il trattamento di Amarcord scritto a due mani da Federico Fellini e da Tonino Guerra, fra le altre, avevo fatto la seguente osservazione e la seguente previsione.
Osservazione. Più che «Mi ricordo», il libro avrebbe potuto con maggior pertinenza intitolarsi «Ci ricordiamo»: non certo perché a scriverlo erano in due (il testo primo, o palinsesto, era, comunque, un articolo scritto dal solo Fellini per un grossissimo volume illustrato, a lui dedicato dall'editore Cappelli, per le cure di Renzo Renzi: e lì sì andava bene il titolo «La mia Rimini» e non «La nostra Rimini»). Perché «Ci ricordiamo» e non «Mi ricordo»? Perché, nello stendere il libro, gli autori avevano creduto bene di rinunciare all'io narrante (del «Mi ricordo») né era sembrato loro il caso di sostituirlo con un eventuale «noi» simpatetico. E avevano così semplicemente chiamato in causa, o scritturato nell' équipe, il lettore stesso. Che, in tal modo coinvolto, si trovava a leggere un «vediamo Gradisca», o un «Bobo, come abbiamo già visto» eccetera, che lo rendeva testimone, autore, complice, conoscitore di questa chanson de geste riminese gaglioffa e un po' troppo poco antifascista. Ma, allora, che senso aveva l'assunzione anfitrionica del lettore nel testo? Probabilmente per dare a Rimini una aprioristica connotazione di «universalità». Come se cioè l'autore a quattro mani volesse dire: «La mia Rimini, o lettore, è come la tua Cesenatico. Siamo, quanto a questo, legati allo stesso carro, complici di una stessa colpa: la provincia, o il ricordo, o la mediocrità, o meglio ancora qualcos'altro, di indefinibile, che solo io e te sappiamo. Anche tu, come me, ne ridi in falsetto, arrossendo, stonando, tormentandoti con un dito i capelli, ostentando che ci sia molto da riderne nel momento stesso in cui pensi tra te che non c'è proprio niente da ridere».
Attraverso la complicità del lettore si otteneva nel testo scritto di Amarcord lo scopo di eliminare l'ostacolo che più di ogni altro gli autori - e soprattutto il futuro autore del film - paventavano: il sentimento. Pascoli e Mussolini non erano forse romagnoli? Non bisognava essere sentimentali: ma a che cosa, allora, attribuire il valore del ricordo? Evidentemente, a quanto di pazzesco c'è in esso. E, di questo, doveva essere appunto il lettore, con la sua partecipazione, a dare garanzia, oggettivando il gioco.
Nel film il «noi» narrante autore-lettore è sparito. Inutilmente un personaggio-speaker guarda dritto dentro la macchina da presa come se le sue spiegazioni fossero rivolte direttamente allo spettatore, fuori dallo schermo. Inutilmente. Ché lo spettatore lo prende per quel semplice messo dell'autor~ che è, restando acquattato nel buio della platea, senza affatto in nessun modo compromettersi. L'autore cerca, anzi mendica la complicità dello spettatore. Ma non l'ottiene. Un abisso è tra i due: l'abisso che divide chi produce e chi consuma. Chi fa e chi fruisce. Per dirla con parole più pertinenti: chi fa dello stile e chi lo analizza (se può, o, comunque, come può). Fellini è solo, laggiù, nell'universo dove si muta la vita in forma.
Ed è una solitudine agghiacciante: questo, almeno, dice l'enorme film, che, svolgendosi sullo schermo, pare trasparire sul cosmo, appunto perché non è «prodotto», ma «espressione», ed è quindi fatalmente privo di riconosciuta oggettualità, si fonda su se stesso e, autocostituendosi, è costretto a essere perfettamente autosufficiente.
Là dove l'espressività si fa sorda, è la fine (non si tratta semplicemente di tessuto connettivo). Il rischio cui si espone questo regista peraltro così abile e furbo è la gogna. Lo si sente continuamente durante tutta la proiezione del film: si resta col fiato sospeso perché ogni possibile caduta espressiva sarebbe evidentemente una catastrofe, nulla essendovi affidato all'oggettività o alle istituzioni.
Lo spettatore, per quanto buono, pensa fra sé: «Eh, no, caro mio, la mia Cesenatico non è la tua Rimini. Tu ti sei messo in questo pasticcio di voler universalizzare un tuo angoletto, gaglioffo e un po' sinistro, con del "sentimento" nascosto? Arrangiati! Io son qui, che, sequenza per sequenza, inquadratura per inquadratura, pavento il tuo crollo. Sei il clown, se questo ti fa piacere, che cammina sulla corda, e i suoi lazzi fanno venire un brivido sulla schiena. E qui siamo in platea, cioè in piazza, mica a casa tua. Potevi giocare con mille cose: ma quello dello stile è il gioco più pericoloso che ci sia. È qui che valgono il "sì" o il "no" che danno felicità suprema o infamante dolore.
È qui che si parla, crudelmente, della presenza o dell'assenza della grazia. Ed è perfettamente inutile che tu abbia cercato di cautelarti con l'abilità, la professionalità, lo spettacolo, e anche una certa demagogia o impenitente ricerca della mia complicità. No. Caro mio, lo stile è una cosa di una delicatezza estrema, basta appena appena venir meno un po' all'assoluto rigore, ed eccolo che va in pezzi. Ed è la vergogna».
Previsione. Nella recensione citata sullo script di Amarcord, prevedevo che la trasformazione della struttura scritta (appunto dello script) in struttura audiovisiva (quella del film) sarebbe avvenuta secondo le regole espressive che avevo desunte dalla precedente opera di Fellini. Cioè secondo la seguente formula:
1) considerare la realtà nel suo insieme come inesprimibile e irrappresentabile;
2) sceglierne dunque una parte, un elemento, una forma, una riduzione (Rimini);
3) fare in modo che questo «campione» di realtà (che non può non conservarne la sostanza enigmatica) sia il più vicino possibile all'idea comune, pubblica, addirittura convenzionale;
4) su questa fetta di realtà ridotta e convenzionale operare una spropositata dilatazione semantica e formale;
5) presentare questo pezzettino o frangia di realtà, dilatata in una gigantografia che ne trasforma il senso, a uno spettatore che:
a) resta sconvolto di fronte alla sua espressionistica enormità;
b) ne riconosce il valore corrente e familiare.
Fellini ha invece in gran parte contraddetto questa mia previsione. La «dilatazione semantica» c'è stata una volta per tutte nell'idea inaugurale della «Rimini anni Trenta». Non c'è stato bisogno di convenzionalizzarla particolarmente, perché una rievocazione del tipo prevedeva già di per se stessa una certa convenzionalità, stipulata per tradizione tra autore e lettore. L'enorme pallone è dunque tutto il film. L'inserimento dei dettagli «gonfiati» nell'insieme «gonfiato» determina un' armonia che ne attenua il gigantismo. Là dove tutto è gigantesco nulla è gigantesco. Anche se si tratta, come sempre, di un gigantismo che maschera con un'aria bonaria (quasi di procedenza manzoniana) e un piglio umoristico vagamente goliardico (a mascherare l'eventuale sentimentalismo pascoliano) la sua vera natura demoniaca.
Inoltre si veda la «povertà» della costosissima scenografia (una intera Rimini ricostruita in teatro), e la «povertà» del cast (la dolcissima Magali ritrovata, Ciccio lngrassia - strabiliante-, Pupella Maggio eccetera: più tutti i divini non-professionisti con Titta in testa). Cartapesta; inquadrature «dal vero» miopi (per nascondere che si tratta di Ostia e Fiumicino e non della spiaggia adriatica), «modellini» (il Rex) resi vignettistici appunto per far passare attraverso uno «stilema», un oggetto rea le irrecuperabile anche attraverso il budget tradizionale dei film felliniani, stilizzazioni semplificatrici per rimediare le scene di massa (appunto le adunate «di massa» fasciste) eccetera. Amarcord non nasconde la sua povertà, anzi (al solito) la dilata. Per e~empio, della casa in cui abita Titta con la famiglia, si vede solo la facciata e un angolo. Ma questa povertà visiva rende questa casa assoluta, la desolata, rosea, casa di Titta.
Tutto ciò riguarda il momento «profilmico» del film (secondo una recente terminologia tecnica): cioè riguarda ciò che sta davanti alla macchina da presa. Ma anche dietro alla macchina da presa è da notarsi in Amarcord una certa povertà. Dove sono andati a finire quei grandi movimenti di macchina, che entravano fra i mucchi dei personaggi, ne seguivano uno, l'abbandonavano, compivano un giro, ne afferravano un altro, lo accompagnavano fino al primo piano di un terzo, si sollevavano da lì sul totale eccetera eccetera? In Amarcord quasi tutte le inquadrature sono immobili. Fanno cioè parlare le cose (il materiale profilmico di cui ho detto): c'è al massimo qualche classica panoramica, come quella - stupenda - del finale sul nulla, ossia su un po' di gente «che sta lì», in un luogo privo di ogni qualificazione che non sia il minimo indispensabile a esserci.
Si può allora parlare di crepuscolarismo a proposito di questo film? Forse sì, almeno secondo una certa interpretazione «dantesca» della poesia gozzaniana: se si vedono i personaggi degli «aneddoti» come personaggi infernali che, scanditi alternatamente nel registro lento della rievocazione, auto-rappresentano secondo un registro molto più veloce le proprie storie. L'episodio dello zio matto, non c'è dubbio, ha questo inusitato carattere gozzaniano-dantesco. Ma il crepuscolarismo andrà predicato a proposito di questo film di Fellini (così diverso dal delirante Roma) soprattutto a causa della sostanziale immobilità dei personaggi che rende surrettizia la lorostoria. Non è vero, in alcun modo, che essi si evolvano.
Sono apparsi così, nel tempo, e così sono rimasti. Di qualcuno si accenna a una parabola (il ragazzo Titta che diventa uomo dopo la morte della madre, Gradisca che si sposa eccetera). Ma non è vero. Non è vero perché ciò sarebbe contraddittorio col film: non solo perché esso non sapendo forse l'autore fare di meglio - ha bloccato il passato in un «presente» irrevocabile e infernale; ma soprattutto perché esso è il film della «presenza fisica».
La sua poesia è sempre e unicamente nei «corpi» dei personaggi. «Corpi» straordinari, sacchi goffi e gonfi di innocenza e di colpa, di sventatezza e di ossessione, di mediocrità e di ansia, di mistero e di volgarità. Tali sono e tali rimangono. La loro storia non andrà ricercata nella loro «successività» ma nel loro «spessore». Ciò trasforma ogni possibile tradizionale atteggiamento critico verso Amarcord, a meno che tale atteggiamento non si convenzionalizzi a reperirvi la matrice neorealistica (di cui indubbiamente c'è un recupero), e lì si fermi. No. Il girare su se stesse delle storie dei personaggi, fino a farsi sostanzialmente immobili, e a incastrarsi alle storie degli altri nel pulviscolo crepuscolare della povera gente, non ha il qualunquismo del neorealismo rievocato: ne ha forse
in parte la poetica, ma del tutto deformata attraverso il solito gigantismo (in cui il vuoto è il mistero). Infatti le storie dei personaggi, e il loro mosaico, non hanno mai, in nessun momento, in nessun luogo, la casualità della realtà. Tutto è sempre costruito, o, per la precisione, ricostruito: e il ritmo è impresso a esso artificialmente (in modo mirabile, soprattutto nelle prime sequenze). Insomma, si tratta di un mondo diciamo pure neorealistico ma girato in teatro: dove tutto è stato predisposto per rendere voluta, manipolata, t"ifatta, ingigantita la sua casualità.
I corpi non sono miracolose apparizioni rubate al vero, ma calcolate «ierofanie». In esse discende e s'incarna lo spirito di una Grande Madre, una Dea Mater, anfibologica, schifosa e insieme sublime, ma che non riesce mai a essere, in nessuno dei personaggi, o una cosa o l'altra. Ciò rende quei personaggi prede della sua volontà cieca, e quindi commoventi.
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