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mercoledì 25 gennaio 2017

Pasolini - ROMA, GRAMSCI E I NUOVI TEATRI (1950-1965) - Di FRANCESCA TOMASSINI

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


(L'opera è di Dimitris Lamprou. L'artista prossimamente esporrà le sue opere ad Atene) 


La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco 

 DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI 
DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA 
XXVI CICLO (2010-2013) 






                TUTOR:                                                ADDOTTORANDA:
      
PROF.SSA     SIMONA COSTA                             FRANCESCA TOMASSINI



INDICE


PREFAZIONE



CAPITOLO PRIMO


1.1 Primi esperimenti teatrali (1938-1950)
1.2 Roma, Gramsci e i nuovi teatri (1950 – 1965)
1.3 La rivoluzione non è più che un sentimento. La crisi delle ideologie e il superamento del modello gramsciano
1.4 Il Manifesto per un nuovo teatro 
1.5 La lingua di poesia come strumento di protesta 

CAPITOLO SECONDO


2.1 Orgia 
2.2 Pilade
2.3 Affabulazione
2.4. Calderón
2.5 Porcile
2.6 Bestia da stile

CAPITOLO TERZO


3.1 La tradizione e la Grecia 
3.2 Edipo, Cronos, Medea, Oreste, Pilade 
3.3 Il linguaggio cinematografico e teatrale nella trattazione del mito

CAPITOLO QUARTO


4.1 Nel teatro italiano novecentesco
4.1.1 Il modello rifiutato: il teatro in versi di Gabriele d’Annunzio
4.1.2 Per un altro teatro in versi: la drammaturgia di Mario Luzi
4.1.3 Non c’era un gesto, uno sguardo che fosse in più. Eduardo De Filippo, Giovanni Testori, Carmelo Bene
4.1.4 Tra polemica e drammaturgia: Pasolini, Sanguineti e il Gruppo’63
4.2 Il grande teatro europeo novecentesco
4.2.1 Il teatro in versi anglosassone: William Butler Yeats e Thomas Stern  Eliot
4.2.2 Il Teatro Tedesco: Il Maestro Bertolt Brecht e il teatro documentario   di Peter Weiss 
4.3 Un marxista in America: la controcultura statunitense, il Living Theatre e la  Beat generation 

BIBLIOGRAFIA

FILMOGRAFIA



CAPITOLO PRIMO 




1.2 ROMA, GRAMSCI E I NUOVI TEATRI (1950-1965) 


   
Pasolini arriva a Roma, insieme alla madre Susanna, nel 1950, dove, per cominciare una nuova vita, chiedono ospitalità allo zio Gino. I primi mesi sono i più difficili, Pier Paolo ha bisogno di un lavoro ma non lo trova facilmente, la madre lavora inizialmente come domestica presso una famiglia, Pier Paolo si mantiene dando qualche lezione privata e facendo il correttore di bozze, ma sarà il giornalismo a cambiare radicalmente la loro situazione economica e sociale. Nonostante le difficoltà economiche, a Roma, Pasolini può finalmente sentirsi libero di vivere i propri desideri sessuali, «l’omosessualità letterariamente trasfigurata di Amado mio pare farsi cruda e vera nella Roma promiscua dei cinema rionali, i grappoli umani attaccati ai mancorrenti degli autobus e dei tram, la chiacchiera ininterrotta dei venditori ambulanti, la vitalità eccessiva dei fratelli minori degli sciuscià».(1
   Sono gli anni dell’egemonia neorealista, in cui Pasolini non si ritrova fino in fondo, poiché non riconosce come legittima la soggezione della letteratura alla politica, ma sono anche gli anni immediatamente successivi alla prima edizione dei Quaderni dal carcere di Antonio Gramsci (1948), editi da Einaudi, a cura di Palmiro Togliatti. Dal momento della sua pubblicazione il testo gramsciano divenne il punto di riferimento per tutta la critica italiana, non solo per quella comunista. L’uscita dei Quaderni sollecitò nuovi interessi storici e letterari, gli editori tradussero nuove edizioni delle opere di Proust, di Freud e di Jung. La letteratura italiana conobbe un momento di rinnovato vigore insperato: 


   Ai rigidi principi del “realismo socialista”, la critica storicistica e materialistica di Gramsci agiva sotterraneamente da correttivo, persino da alternativa. […] I problemi non erano soltanto politici, o etico-politici: erano anche letterari. Questione carissima a Gramsci era stata quella di una “letteratura nazional-popolare”. […] erano naturalmente questi temi a rendere Pasolini sensibile alla lettura di Gramsci. […] Solo la marginalità, gergale, morale, per lui era una fisica marginalità: una marginalità che travalica i confini stessi della nozione marxista di proletario. Era marginale il friulano romanzo, ma erano altresì marginali, marginalissime le borgate romane, il Riccetto e i suoi prototipi: ed essi divennero esempio unico, nell’immaginazione pasoliniana, del concetto di nazional-popolare. (2

Roma è il terreno giusto per Pasolini per cominciare ad interpretare

gramscianamente la cultura, assumendosi in prima persona responsabilità sociali e politiche per poi trasferirle nella letteratura e nella poesia. 
   Il 1950 coincide con un momento di crisi del teatro italiano, soprattutto dal punto di vista economico, con la registrazione di una forte diminuzione nelle vendite dei biglietti, ma anche con un periodo segnato da una svolta e da una spiccata vivacità, in particolare nel panorama romano e milanese. Si affermano attori e registi come Vittorio Gasmann, Eduardo De Filippo, Luchino Visconti e Giorgio Strehler ma il palcoscenico continua a rimanere un mondo ben lontano dalla realtà antropologica e linguistica italiana. Il Pasolini che ha assorbito e fatto propria la lezione gramsciana, lo scrittore di Ragazzi di vita (1955) non può riconoscersi in questa tendenza. 
   Il rinnovato interesse di Pier Paolo per il teatro va ricercato nell’incontro con una donna che segnerà la sua vita intellettuale, personale e artistica per sempre: Laura Betti, detta “la giaguara”. Arrivata nella Capitale da Bologna, Laura ha poco più di vent’anni, è attrice e cantante e si fa notare per la sua eccentrica concezione della recitazione, affermandosi ben presto per la sua diversità. La Betti descrive, in queste righe piene di poesia e di sentimento, il primo incontro con Pasolini:


   Ricordo e so di un giorno molto lontano in cui, tra tanta gente di cui non ricordo e non so, entrò nella mia casa un uomo pallido, tirato, chiuso in un dolore misterioso, antico; le labbra sottili sbarrate ad allontanare le parole, il sorriso; le mani pazienti d’artigiano. […] Ricordo e so che quell’uomo che era un uomo, diventò il mio uomo. E il mio uomo nascondeva dietro gli occhiali neri l’ansia della scoperta di una possibile, tremante richiesta di amore non rifiutata, non brutalizzata, non rubata. Imparai perciò a camminare in punta di piedi per non spezzare il silenzio che accompagna il gesto dell’amore, per non farlo fuggire nel buio. Lentamente cominciò ad avere fiducia […] e fu così che diventammo «insieme», soli. Ricordo e so quindi di aver iniziato a vivere una vita finalmente difficile. Una vita con la poesia che penetrava ogni angolo segreto della mia casa, del mio crescere, del mio diventare.(3)

   

E’ un incontro di anime e di arte. Laura, con il suo carattere istrionico e irrequieto sprona inconsapevolmente Pier Paolo a risperimentarsi come drammaturgo. Insieme a lei Pasolini ritrova uno spiccato interesse per la scena teatrale contemporanea e comincia a frequentare i teatri capitolini. Il rapporto con Laura è talmente stimolante che Pasolini elabora un nuovo testo teatrale dal titolo Un pesciolino, datato 1957, quindi ben dieci anni dopo la stesura de La poesia o la gloria.
   Un pesciolino è un atto unico scritto per essere interpretato dalla compagnia dei Satiri che stava per cominciare una nuova stagione teatrale. Il testo, destinato anch’esso a rimanere inedito, si apre su una donna, in età compresa tra i trentacinque e i quarant’anni, sulla riva di un lago o di un fiume, che tenta di pescare e, mentre aspetta che un pesce abbocchi al suo amo, racconta ad un immaginario pesciolino la sua vita, i suoi passati amori falliti, vissuti durante il fascismo e segnati dalla guerra e, attraverso questi ricordi, descrive un universo maschile mai compreso, distante e prepotente. L’attesa che un pesce possa abboccare o che un uomo posso finalmente bussare alla sua porta, in modo da non essere più “zitella” (parola che non riesce neanche a pronunciare per tutto il monologo), è il sentimento predominante del testo. Un’attesa che sembra infinita, in grado di mandarla su tutte le furie, di generare in lei un sentimento di rabbia dovuto alla solitudine. Solo nelle ultime battute del testo, quando finalmente la donna riesce a pescare un pesce molto grosso e in uno stato di liberazione riesce a gridare le parole che non possono essere dette: «Nessuno mi vuole! Sono una zitella… Sono una zitella».(4)

   La decisione di optare per una donna come protagonista sembra non essere casuale; è molto probabile infatti che l’autore avesse tracciato questo personaggio ricalcandolo proprio su Laura Betti, tanto più se si considerano i lineamenti caratteriali della protagonista: esuberante, ironica, ossessiva, tormentata dalla mancanza di un amore, sola, vagamente sguaiata. Nonostante la messa in scena di questo testo fosse stata annunciata con una pubblicazione sul numero della rivista «Il Caffè», nel settembre del 1957,(5) lo spettacolo verrà rappresentato e pubblicato solo postumo. Probabilmente Pasolini pensò che nonostante Un pesciolino presentasse una certa completezza formale, un linguaggio originale, spezzato da gergalismi e da una frenetica punteggiatura, non fosse all’altezza dei suoi romani esordi narrativi e poetici, con i clamori e i dibattiti sollevati dalla pubblicazione di Ragazzi di vita e de Le ceneri di Gramsci (raccolta poetica uscita proprio nello stesso 1957 e che finalmente aveva ricevuto il consenso della critica e dei lettori). Un pesciolino testimonia il rinnovato interesse pasoliniano per il teatro e la voglia di confrontarsi con i palcoscenici capitolini. Ma dovrà passare diverso tempo anni perché Pasolini torni a stendere un testo teatrale: cinque anni dopo elabora un balletto cantato, dal titolo Vivo e Coscienza (6) (1963).

 
Già la data del nuovo componimento ci orienta nella novità delle scelte drammaturgiche pasoliniane: siamo all’inizio degli anni Sessanta e il teatro, anche con il successo e il proliferare delle avanguardie, comincia a delinearsi come uno dei pochi terreni in cui è possibile inscenare quella protesta sociale e politica che agita le piazze d’Italia e comincia ad offrire davvero a Pasolini «una possibilità di contatto diretto con un popolo spaccato dagli eventi politici, stirato fra normalizzazione postfascista e irrequietezza di una vasta area di sinistra desiderosa di portare, magari perfino con la forza, il comunismo al potere».(7)
   Sin dalla metà degli anni Cinquanta, il dibattito teatrale italiano si concentra sulla teoria e sui tentativi teatrali di un genio indiscusso: Berthold Brecht. Nel 1953 erano stati messi in scena i testi Un uomo è un uomo  con la regia di De Bosio e Madre Coraggio diretto invece da Lucignani, ma l’impatto determinante ci fu con la rappresentazione de L’Opera da tre soldi al Piccolo Teatro di Milano, con la regia di Giorgio Strehler. Da questo momento in poi nasce la passione artistica del regista nei confronti delle opere brechtiane che non smetterà mai di rappresentare. Il 1963 è l’anno dello spettacolare adattamento de La vita di Galileo. 

   Brecht è al centro del dibattito culturale e intellettuale italiano, ma inizialmente non c’è traccia di uno studio accurato da parte di Pasolini delle teorie e dell’opera del drammaturgo tedesco che ha rivoluzionato il teatro europeo del Novecento. Il primo approccio con Brecht avviene proprio all’inizio degli anni Sessanta. Stefano Casi ha rintracciato il momento esatto del primo vero contatto con l’interpretazione di Laura Betti, nel maggio del 1961, de I sette vizi capitali, all’Eliseo di Roma, diretto da Luigi Squarzina, con le coreografie di Jacques Lecoq. Effettivamente la prima citazione brechtiana di Pasolini è reperibile nelle Ballate della violenza, scritte e pubblicate proprio tra il 1961-62. E’ determinante, ancora una volta, il ruolo della Betti nel lento ma inesorabile avvicinarsi di Pasolini alla drammaturgia. Dopo gli anni casarsesi, dopo il teatro della polis friulana, dopo l’esperienza pedagogica sperimentata con l’Academiuta, possiamo constatare come il nostro autore abbia effettivamente un rapporto contraste con il palcoscenico: non riesce a dimenticarlo, fa parte della sua formazione di umanista e di intellettuale impegnato, ma nello stesso tempo, non si sente ancora pronto a cimentarsi fino in fondo in una scrittura teatrale, nell’elaborazione di un dramma che possa essere riconosciuto all’altezza dei felici risultati ottenuti in ambito poetico, narrativo e anche cinematografico (non dimentichiamo infatti che Accattone, pellicola che sigla l’esordio dietro alla macchina da presa di Pasolini, era uscita nelle sale cinematografiche nel 1961, seguita l’anno successivo da Mamma Roma, interpretata da Anna Magnani: entrambi i film avevano quindi portato all’attenzione di pubblico e critica la vocazione cinematografica dell’intellettuale friulano).
   Più avanti analizzeremo il forte impatto e l’influenza che l’opera brechtiana ebbe su una più complessa e matura riflessione drammaturgica pasoliniana, per ora ci interessa evidenziare l’aderenza (seppur non apertamente dichiarata) dell’opera Vivo e Coscienza al modello proposto da Brecht e in modo particolare proprio a I sette vizi capitali interpretati da Laura Betti che gli indicano la via direttrice da seguire per operare un superamento del teatro eschileo e approdare ad un teatro effettivamente ideologico, inteso in senso brechtiano. Il teatro greco è indubbiamente il modello costante a cui Pasolini ha guardato per i suoi esordi drammaturgici e su cui fonderà anche il successivo e più articolato corpus della sei tragedie del 1966 che andremo ad analizzare tra poco,(8) ma soprattutto da questo momento, dalla scoperta di Brecht, c’è e ci sarà sempre il tentativo e il desiderio di attingere anche al teatro contemporaneo. 
   In Vivo e Coscienza, i protagonisti sono un uomo e una donna i cui nomi danno il titolo all’opera: lui, Vivo, viene descritto come un giovane rozzo, un contadino che falcia l’erba e pota le vigne; lei, Coscienza, è invece ricca e indipendente. La storia è ambienta nel 1660, nell’immediato periodo che segue il Concilio di Trento. La ragazza, incarnazione della Controriforma, è sessualmente attratta dal pastore che lavora la terra e lo osserva «nella sua antica danza di vita, sensualità, lavoro, sole, smemoratezza, fame»,(9) gli si avvicina, compra la sua merce, il prodotto del suo duro lavoro nei campi, ma l’oro con cui paga non riesce a comprare anche il corpo e il sesso di Vivo e «il mancato possesso sessuale in una puritana pretesa di possesso ideologico»(10) genera in lei un forte sentimento di rabbia per cui comincia a rimproverare il giovane additandolo come peccatore e ordinandogli di inginocchiarsi. A Vivo non resta che obbedire, preso da una religiosa soggezione e mentre si china ai suoi piedi, Coscienza, lentamente, si avvicina per baciarlo. A questo punto la scena viene interrotta da una meravigliosa musica che giunge alle orecchie dei due, «una vecchia melodia che riempie cielo e terra».(11) Con l’irrompere della musica fanno ingresso in scena anche gli amici di Vivo, ragazzotti, contadini allegri, vivi, che danzano lasciandosi trasportare dalla melodia e strappano il protagonista dalle labbra di Coscienza e lo portano con loro nella corrente della danza dionisiaca.
Coscienza rimane sola. Il secondo episodio si apre nella Francia del Settecento, negli anni della Rivoluzione, in cui echeggiano i canti rivoluzionari e anche qui ritroviamo Coscienza e Vivo: lei vestita da sancullotta, lui come un semplice artigiano contadino. Appena prima che le loro labbra si possano toccare, Vivo viene trascinato via da una sua giovane coetanea. L’episodio successivo è invece ambientato negli anni del capitalismo fascista, in cui Coscienza incarna la borghesia dominante e Vivo continua a rimanere un contadino ma questa volta trapiantato dalla campagna alla grande città, mentre di sottofondo, come colonna sonora, si ascolta una musica jazz degli anni Trenta. Il bacio non si concretizzerà neanche in questo episodio che si concluderà quando il richiamo della patria e la partenza per la guerra sottrarranno Vivo dalle braccia della ragazza. Nel quarto e ultimo episodio siamo negli anni della Resistenza, con i canti partigiani che si odono di sottofondo. Coscienza è la coscienza democratica della resistenza, Vivo è un partigiano che viene fucilato, ma Coscienza neanche dopo la morte del giovane desiderato, riuscirà a baciarlo: infatti il corpo senza vita del ragazzo verrà trascinato da altri morti «tra cui egli, che fu un anonimo vivo, si perde».(12) Rimasta ancora una volta e, per sempre, sola e sconsolata, Coscienza riesce però a pronunciare parole di speranza con la battuta che chiude il testo: «verrà un giorno in cui Vita sarà Coscienza e la Coscienza Vita».(13)
   Articolato in quattro episodi, solo il primo è interamente strutturato con tanto di dialoghi e descrizioni, mentre gli altri tre sono abbozzati e ricalcati sull'impostazione del primo. Il componimento, pubblicato postumo, è destinato dunque a rimanere un abbozzo, un’idea di una vera e propria opera teatrale coreografata (nei vari episodi erano infatti previsti diversi balletti come quello dei soldati, nel terzo, che trascinano Vivo in guerra). In un’intervista al «Corriere Lombardo» del 28 marzo 1963, l’autore risponde così quando gli viene chiesto se è vero che stesse lavorando ad un’opera lirica:  «E’ stato solo un progetto, una tentazione. Naturalmente non intendevo scrivere un melodramma sui vecchi schemi e forse per realizzare la mia idea non ho incontrato, come Brecht, il mio Kurt Weill».(14) Nonostante il titolo della presunta opera lirica non venga specificato né nelle domanda del giornalista né nella risposta dell’autore, la data dell’intervista e anche le parole di Pasolini, lasciano pensare che effettivamente si stesse riferendo proprio a Vivo e Coscienza.
   Il titolo dell’opera richiama la dicotomia tra vita e coscienza con la personificazione dei due principi nei protagonisti del testo che sembrano non poter convivere, non incontrarsi mai. La tematica dello scontro tra due forze che si contrappongono, la passione e l’ideologia, e la mancata sintesi in un periodo di crisi che sta sconvolgendo l’Italia con l’avanzata inarrestabile di un tragico futuro in cui regnerà l’egemonia capitalista, viene qui raccontato da Pasolini in una forma d’arte mai sperimentata prima dall’autore, in un tentativo artistico in cui il canto e il ballo avrebbero dovuto essere il centro della rappresentazione. In questo sembra chiara l’influenza che la tecnica attoriale di Laura Betti, individuata come interprete perfetto per il personaggio di Coscienza, abbia avuto nelle riflessioni e nella sporadica scrittura teatrale pasoliniana di questi anni, ma ancor di più è necessario fissare il 1963 (e quest’opera in particolare) come il momento della svolta brechtiana di Pasolini, in cui si sente pronto e maturo per stravolgere e a mettere in discussione gli orizzonti letterari finora raggiunti e affrontati. «In questo momento di profonda trasformazione, Pasolini individua in Brecht l’inventore di meccanismi scenico-drammaturgici che destrutturano lo spettacolo proprio attraverso elementi che mettono in gioco il non finito, suggerendo un teatro nel quale l’informe avvicendarsi di appunti scenici, magari scanditi da cartelli, citazioni, canzoni, codici drammaturgici lontanissimi tra loro, si concludano con una non-conclusione».(15)

   Dopo il tentativo naufragato di Vivo e Coscienza, Pasolini, che ormai ha assorbito e reinterpretato le teorie brechtiane, decide di ritentare la scrittura di un testo teatrale e l’occasione gli si presenta nel momento in cui Laura Betti gli commissiona la stesura di un’opera per un recital (al quale, oltre a Pasolini, partecipano anche altri scrittori di spicco come Siciliano, Leonetti, Moravia e Parise), dal titolo Potentissima signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti,(16) che garantisca all’attrice la possibilità di dimostrare tutte le sue doti da attrice e cantante. Così Pier Paolo elabora l’atto unico Italie magique (1964), rappresentato per la prima volta al Teatro La Ribalta di Bologna il 5 dicembre 1964. Il testo si apre con un “Antefatto storico” in cui Laura canta in dialetto e uno Speaker annuncia l’imminente avvento del fascismo e lo scoppio della Seconda guerra mondiale. La Betti si identifica con l’Influenza Ideologica Borghese, in grado di trasformare l’innocenza del popolo in stupidità. Sul palco passano due servi di scena che mostrano un enorme cartello con una fotografia raffigurante i cadaveri nei forni crematori e nelle camere a gas. Segue infine una “Citazione brechtiana”, accompagnata da una musica carnevalesca, di felliniana memoria, di sottofondo: Mussolini e Hitler siedono su una mensola, mentre Laura, che ora incarna la Patria, ballando avvolta da una grande stola tricolore, si muove in atteggiamenti materni per poi esibire in rassegna il saluto militare, quello fascista e il passo dell’oca. Esce per un attimo di scena e rientrando porta con sé un povero soldato senza nome e, dopo averlo sbeffeggiato, lo strozza e lo calpesta. Nella scena successiva Laura è la Morte («dovrebbe essere il cadavere di un morto sotto i bombardamenti: è per esempio un’annegata nella cantina allagata in seguito al crollo della casa»),(17) ride sinistramente davanti ai cadaveri di Hitler e di Mussolini che raccoglie e getta dentro la carriola che trasporta. L’ultima scena è invece ambientata in uno scenario neocapitalistico, bello e luminoso, in cui Laura ha accanto a sé una bambola gigante che la raffigura e che pian piano monta e rismonta, fino a che non la ricostruisce interamente, creando quindi un’altra sé stessa. Ora Laura si presenta come l’Avvenire Alienazione. Il tutto è accompagnato da una musica tragica. A questo punto entrano in scena i due servi che, in un dialogo frammentato e veloce, (verrebbe da dire quasi ironico) si prendono gioco di Mao, il dittatore cinese. Al riaccendersi delle luci, Laura è in platea e, dopo un lungo e commovente monologo, torna sul palcoscenico, raccoglie pezzi di giornale e ne legge alcuni stralci. La scena si chiude confusamente con la musica del programma televisivo “Carosello” di sottofondo e i due servi che attraversano il palco con l’ennesimo cartello con su scritto “Conclusione provvisoria”.
   Le scelte adottate da Pasolini sono indiscutibilmente legate alla volontà di evidenziare le doti artistiche della Betti, spaziando dalla canzone al balletto, fino ad arrivare al monologo finale che mette in mostra l’intensità drammatica dell’interpretazione dell’attrice. L’idea sembra ricalcare in parte il principio dell’opera precedente, con le continue metamorfosi di Laura che ricordano quelle di Coscienza. Il testo appare comunque frammentato e le diverse fasi di composizione ci confermano come l’opera sia nata “a singhiozzo”; oggi si conservano due stesure dattiloscritte che presentano diverse correzioni a penna dell’autore. Nello spettacolo che esordì a Bologna, fu recitato una sorta di collage delle diverse stesure. Il titolo (che figura solo in una dei due dattiloscritti) è ripreso da un’antologia continiana, che raccoglieva racconti surreali moderni, pubblicata nel 1946.
   Italie magique rappresenta il momento in cui Pasolini comincia a sentire l’urgenza di sperimentare il genere teatrale sconvolgendo codici e canoni, qui infatti «le regole vengono stirate e infrante, il dramma comprime al suo interno un caleidoscopio di possibilità che travalicano sistematicamente la forma teatrale, portandola verso altri lidi».(18) Si tratta, insomma di un interessante segno di sfida alla rappresentabilità. Ci sono tracce di tutte quelle riflessioni teoriche e linguistiche che catturano l’attenzione e lo studio di Pasolini in questi anni: il problema del carattere politico e dell’impegno civile della letteratura, il rapporto tra lingua scritta e pronunciata, la preoccupazione per il drammatico futuro capitalistico che avanza inesorabilmente.
   Siamo nel 1965, l’idea di elaborare un articolato progetto teatrale è ormai già fissata nella mente dell’autore e la sua esigenza di mettersi veramente alla prova con il teatro, in età matura, dopo aver portato a termine con successo esperimenti in ambito poetico e cinematografico, sembra essere impellente. Prima di arrivare al concepimento del corpus delle sei tragedie, che coinciderà quasi con una seconda nascita, dopo la malattia e la convalescenza, Pasolini riprende in mano il dramma a cui abbiamo accennato prima: Il cappellano, nel tentativo di renderlo renderlo finalmente un testo strutturato in quattro atti, dal titolo Nel ’46!. Lo stesso autore spiega il tema del dramma nell’apparato dei personaggi che anticipa la pubblicazione del testo: «Tema: i primi barlumi di coscienza democratica in una persona repressa dal Cattolicesimo».(19)
   Il protagonista è Giovanni, giovane insegnante in una scuola media parificata di una piccola città di provincia che dà lezione ad un adolescente di nome Eligio, fratello di Lina, di cui Giovanni è segretamente innamorato. A rompere gli equilibri della vita del protagonista è (di nuovo) un sogno in cui troviamo il Parroco, che parla della tentazione erotica dei corpi, un seminarista, da cui Giovanni è fortemente attratto e che si rivelerà essere Lina. Giovanni sogna di essere svegliato da Eligio che gli confessa di essere venuto a conoscenza della sua passione per la sorella: a questo punto il protagonista uccide il ragazzo e nasconde il suo cadavere sotto al divano. Ma ecco che entra in scena un altro personaggio: il cardinale Fabrizio Ruffo, eroe della reazione giacobina
napoletana del 1799, che irrompe con una decina di Lanzichenecchi, in cerca di Eligio. Il cardinale scopre il cadavere, ma Giovanni riesce a farlo scomparire magicamente e sulle note della canzone Amado mio, i due iniziano a ballare, coinvolgendo man mano anche i Lanzichenecchi. Con questo episodio si chiude il secondo atto. Il successivo si apre invece in una triste radura, affollata di morti viventi, ognuno dei quali sospinge un lettino da sala operatoria su cui è disteso il proprio cadavere. Mentre Giovanni sta dialogando con un morto, viene interrotto dal Capo della polizia che interroga Giovanni. Il professore inizia una lezione di storia, durante la quale bacia Lina. Finalmente arriva Eligio a destare Giovanni dal suo sogno, ma non appena il ragazzo esce, il professore torna a dormire e continua a sognare. Questa volta troviamo il Dottore e la Madre che siedono al suo capezzale: il Dottore spiega a Giovanni che la malattia che affligge la sua anima è la «sostanza sessuale» e l’unico rimedio «contro questa Peste» è essere vigliacchi.
   Nel quarto atto ci troviamo invece nel Caucaso, nell’anno 1000, il Cardinale Ruffo veste i panni di un Giudice Bizantino, aspetta Dio e si prepara per il Giudizio Universale, con tanto di presenza sulla scena di angeli che mormorano un canto in latino e che suonano le trombe. La scena si trasforma in un mosaico bizantino. Ruffo, ricoperto da una grande stola d’oro, minaccia di confessare la natura di Giovanni, due monache consegnano al professore una grande croce per essere poi sepolto vivo. Entra in scena la Madre a cui Giovanni, da dentro la bara, dichiara il motivo della sua colpa: «la mia coscienza tappolica ha avuto un sussulto emocratico, e il mondo della ragione le sta cadendo intorno, in rovina…».(20) La Madre deve salutare il figlio che è pronto a morire e il suo ultimo appello è alla Costituzione.

   Le luci si spengono, il palco precipita nell’oscurità; quando si riaccendono le luci, la scena è tornata ad essere quella dei primi tre atti e Giovanni dorme sul sofà, si sveglia, rimane qualche istante stordito, poi si tira su, si fa rapidamente il segno della croce ed esce di scena.
   La stesura di questo testo, la costruzione di un intreccio così articolato, rimane per anni chiusa nella mente e nei cassetti di Pasolini. Ogni tanto nel corso del ventennio che intercorre tra il primo abbozzo di Il Cappellano fino ad arrivare alla scrittura di Nel 46!, Pier Paolo aveva ripreso in considerazione la sua idea: nel 1960, sul giornale «Il Giorno», aveva pubblicato una sorta di diario che raccontava il suo processo di riscrittura del Cappellano che diventava Storia interiore, dramma in cui l’autore inizia raccontando i turbamenti e il dolore vissuto nei giorni immediatamente successivi alla morte del fratello, per arrivare a poi a confessare, attraverso il personaggio di un prete che vive angosciosamente il desiderio sessuale, il suo dissidio interiore. Risalgono a questa fase, alcuni importanti modifiche rispetto al progetto iniziale: l’inserimento di una voce fuori campo annuncia l’antefatto del dramma, si insinua l’idea di sostituire al cappellano la figura di un professore come protagonista, variazione che però non si realizza subito.(21) Ma tutto il lavoro e le diverse fasi di riscrittura e revisione non portano a nulla e Storia interiore  è destinata a rimanere nel cassetto.(22)
   La versione definitiva intitolata Nel 46!, verrà messa in scena il 31 maggio 1965, al teatro dei Satiri, diretta da Sergio Graziani. Le differenze rispetto ai tentativi precedenti sono numerose: cambia la natura e il nome del protagonista, non è più don Paolo ma diventa il professor Giovanni, che però continua a vivere turbamenti e angosce dovuti al desiderio erotico che non riesce ad esternare; diverso è anche il finale che nel testo del 1965 richiama quasi all’opera lirica, in linea con i più recenti esperimenti teatrali pasoliniani di cui abbiamo già parlato.
   E’ possibile riconoscere in Nel 46! alcune tematiche care al Pasolini drammaturgo come quella della metamorfosi e del sogno. Per quanto riguarda la prima, tutti i numerosi personaggi che si susseguono nel dramma altro non sono che le metamorfosi della coscienza e del desiderio erotico (nella quale sfera rientra anche la figura materna, caricata di interpretazioni psicoanalitiche) di Giovanni, due forze che sembrano contrapporsi (anche qui ancora una volta torna il rapporto dicotomico tra due elementi senza possibilità di sintesi, come già notato in Vivo e Coscienza).

   Il sogno invece, elemento da sempre presente negli studi pasoliniani e che approfondirà ancor di più nelle tragedie del 1966, è sempre un sogno rivelatore, che svela la vera realtà dell’io ma in questo caso non sembra rompere veramente gli equilibri, poiché nell’ultima scena vediamo come Giovanni, destato dal sogno, si alzi di scatto e si faccia velocemente il segno della croce, gesto che lo riporta in qualche modo nei canoni repressivi del Cattolicesimo imperante. E’ la religione infatti ad esprimere la Norma, ma Dio non arriva neanche nel giorno del Giudizio Universale e sarà il Cardinale Ruffo, che incarna la coscienza repressiva, a prendere le sue veci. Nonostante il testo, costellato anche da lunghe battute in latino, non sia di semplice comprensione, si fa sempre più forte la volontà dell’autore di dare voce al suo grido di denuncia attraverso la parola teatrale: il palcoscenico si conferma una volta per tutte il luogo ideale per rappresentare «la denuncia dell’eresia e della diversità in chiave politica/soggettiva, secondo una necessità intrinseca che arriva al suo culmine nel martirio conclusivo del protagonista, perseguitato perché scandalosamente attratto da chi non dovrebbe amare».(23)
   E’ difficile collocare con precisione un’opera come Nel 46! perché effettivamente accompagna tutto il percorso che Pasolini compie partendo da Casarsa, dal teatro della polis e dell’io, fino ad arrivare a Roma, alla scoperta dei nuovi teatri, di Brecht, all’incontro con Laura Betti, alla presa di coscienza della sua omosessualità, passando per la morte del padre e dando il via a quel filone lucidamente disperato che porterà al concepimento delle pellicole degli anni Settanta, fino ad arrivare a Salò o le 120 giornate di Sodoma. Nonostante il tentativo di rinnovare il testo ad un linguaggio e ad una struttura più contemporanea, inserendo elementi onirici e visionari, Pasolini riconosce di sottoporre agli spettatori un’opera sì contemporanea ma non sufficientemente riattualizzata perché gli anni passati hanno effettivamente scavato un solco profondo tra quel testo abbozzato e concepito a Casarsa e il pensiero attuale di Pasolini.
Nel programma di sala, sotto una sua foto, Pier Paolo definiva il testo una «spacconata massiccia» e chiedeva «al lettore mal disposto di non approfittare di un fianco scoperto diciannove anni fa».(24)

Note:

1 E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 215. 
2 Ivi, p. 223. 
3 L. Betti, Introduzione in Id. (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, cit., p. V. 
4 P.P.Pasolini, Teatro, cit., p. 143. 
5 Cfr. Pasolini e il teatro, in «Il Caffè», settembre, 1957 citata in S. Casi, I teatri di Pasolini, cit, p. 65: «P.P. Pasolini ha terminato una commedia –monologo in un atto, Il pesciolino, che ha assegnato alla compagnia dei Satiri. Il giovane scrittore friulano sta inoltre scrivendo un’altra commedia in tre atti, che ha per protagonista un prete innamorato di una ragazza, il cui titolo sarà Storia interiore o Venti secoli di storia». 
6 Anche questo testo verrà pubblicato postumo in occasione della messa in scena di Pilade e Calderón, entrambi diretti da Luca Ronconi al Teatro Stabile di Torino (1993).  
7 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 91.
8 Per  completare il quadro di riferimenti classici e l’influenza che essi hanno avuto anche nei primi anni Sessanta nella parabola artistica Pasoliniani, ricordiamo le traduzione che Pasolini fece di due importanti opere della cultura greca e latina su esplicita richiesta di Vittorio Gassman che voleva metterle in scena con il Teatro Popolare Italiano: l’Orestiade (1959) di Eschilo, e il Miles Gloriosus (1961) di Plauto. La prima fu una traduzione non fedele, né tantomeno filologica, ma fu portata a termine e rappresentata, mentre la seconda, tradotta in Koinè romanesca, non fu poi rappresentata dalla compagnia di Gassman, probabilmente proprio per le difficoltà incontrate dagli attori nel recitare in dialetto. Per vedere lo spettacolo con il testo tradotto da Pasolini, bisognerà aspettare altri due anni, quando La Compagnia dei Quattro lo rappresenterà al teatro “La Pergola” di Firenze, interpretato da Glauco Mari e diretto da Franco Enriquez. 
9 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 148. 
10 Ibidem. 
11 Ivi, p. 149.
12 Ivi, p. 151. 
13 Ibidem 
14 Cfr. Ivi, p. 1133.
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 112. 
16 Potentissima Signora. Canzoni e dialoghi scritti per Laura Betti, Milano, Longanesi, 1995.
17 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 158.
18 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., P. 114.
19 P.P. Pasolini, Teatro, cit., p.167. 
20 Ivi., p. 231. 
21 Cfr. W. Siti e S. De Laude (a cura di), Note e notizie sui testi, in P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1139-1145. 
22 Calvino scrive in una lettera a Pasolini, il suo commento (negativo) dopo aver letto Storia interiore: «Caro Pier Paolo, mi è capitato tra le mani il manoscritto di Storia interiore e l’ho letto. Ma cosa ti succede? Ritira  immediatamente tutte le copie del manoscritto che sono in giro e fa’ in modo che chi lo ha letto non ne parli. Come mi impegno a fare io. Da amico». In P.P. Pasolini, Lettere 1955-1975, a cura di N. Naldini, vol. II, Torino, Einaudi, 1988, p. 489.
23 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 128. 
24 Cfr. P.P. Pasolini, Teatro, cit., p. 1144. 


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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mercoledì 18 gennaio 2017

Pasolini - Primi esperimenti teatrali (1938-1950) - Di FRANCESCA TOMASSINI

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La sperimentazione teatrale di Pier Paolo Pasolini nel panorama drammaturgico novecentesco 

 DIPARTIMENTO DI STUDI UMANISTICI 
DOTTORATO DI RICERCA IN ITALIANISTICA 
XXVI CICLO (2010-2013) 






                TUTOR:                                                ADDOTTORANDA:
      
PROF.SSA     SIMONA COSTA                             FRANCESCA TOMASSINI



INDICE


PREFAZIONE



CAPITOLO PRIMO


1.1 Primi esperimenti teatrali (1938-1950)
1.2 Roma, Gramsci e i nuovi teatri (1950 – 1965)
1.3 La rivoluzione non è più che un sentimento. La crisi delle ideologie e il superamento del modello gramsciano
1.4 Il Manifesto per un nuovo teatro 
1.5 La lingua di poesia come strumento di protesta 

CAPITOLO SECONDO


2.1 Orgia 
2.2 Pilade
2.3 Affabulazione
2.4. Calderón
2.5 Porcile
2.6 Bestia da stile

CAPITOLO TERZO


3.1 La tradizione e la Grecia 
3.2 Edipo, Cronos, Medea, Oreste, Pilade 
3.3 Il linguaggio cinematografico e teatrale nella trattazione del mito

CAPITOLO QUARTO


4.1 Nel teatro italiano novecentesco
4.1.1 Il modello rifiutato: il teatro in versi di Gabriele d’Annunzio
4.1.2 Per un altro teatro in versi: la drammaturgia di Mario Luzi
4.1.3 Non c’era un gesto, uno sguardo che fosse in più. Eduardo De Filippo, Giovanni Testori, Carmelo Bene
4.1.4 Tra polemica e drammaturgia: Pasolini, Sanguineti e il Gruppo’63
4.2 Il grande teatro europeo novecentesco
4.2.1 Il teatro in versi anglosassone: William Butler Yeats e Thomas Stern  Eliot
4.2.2 Il Teatro Tedesco: Il Maestro Bertolt Brecht e il teatro documentario   di Peter Weiss 
4.3 Un marxista in America: la controcultura statunitense, il Living Theatre e la  Beat generation 

BIBLIOGRAFIA

FILMOGRAFIA




CAPITOLO PRIMO 




1.1  PRIMI ESPERIMENTI TEATRALI (1938-1950) 







 Negli ultimi anni abbiamo assistito alla fioritura di studi critici relativi all'attività del Pasolini drammaturgo, grazie ai quali si è forse riusciti, una volta per tutte, a leggere l’esperienza teatrale pasoliniana non più come un capriccio mal riuscito di un intellettuale a tutto tondo o come una parentesi poco incisiva di un autore che è sempre stato valutato e apprezzato soprattutto come poeta, regista e critico corsaro. Eppure il teatro appartiene a Pasolini sin dai tempi dell’adolescenza bolognese, rimane vivo nelle riflessioni teoriche e linguistiche degli anni Quaranta a Casarsa e in tutti gli anni della maturazione artistica e personale vissuta a Roma, per poi culminare con la complessa elaborazione del corpus delle sei tragedie su cui ci soffermeremo più avanti in questo lavoro.
  
   L’intera avventura drammaturgica pasoliniana va considerata all’interno della sua opera omnia per poterla valutare in relazione alle realtà italiane e europee, per capire come essa sia stata un’esperienza tutt’altro che isolata e marginale ma come sia invece il risultato di una lunga ed elaborata riflessione che ha portato alla formazione di una notevole competenza teatrale.
  
   In questo primo capitolo intendo concentrarmi sulla ricchezza stilistica, tematica e linguistica degli esperimenti teatrali pasoliniani(1) antecedenti alle sei tragedie e alla stesura del Manifesto per il nuovo teatro (1968), che rimane comunque l’unico scritto teorico relativo all’esperienza drammaturgica: non trattare queste opere renderebbe impossibile collocare i successivi drammi in una corretta prospettiva.

   Il primo dramma concepito da un inesperto e sedicenne Pier Paolo è La sua gloria, abbozzato nel 1938 a Bologna, opera in cui «la cornice geografica, antropologica, linguistica, sentimentale di Casarsa e del Friuli degli anni Quaranta rappresenta l’humus fertile per una creatività che si impianta su una vocazione davvero precoce».(2

   Il motivo che lo spinge a scrivere il suo primo dramma è la partecipazione ad un concorso letterario dei Ludi Juveniles, promosso dal fascismo sul modello dei più noti Littoriali, riservati agli studenti universitari. Al concorso vengono accettati diverse tipologie di scritti: drammi, poesie, novelle, articoli sportivi o economico - politici, pitture e sculture, tutte forme artistiche finalizzate ad illustrare un episodio del Risorgimento. 
  
   Studente del primo liceo all’Istituto Classico “L. Galvani” di Bologna, Pasolini si3) Il dramma, ambientato nei primi dell’Ottocento, ha come protagonista Guido Solera, giovane poeta carbonaro, accusato dall’Impero austriaco di ribellione e per questo condannato a morte per essere poi graziato ma costretto trascorrere vent’anni al carcere Spielberg. Per il personaggio di Guido, Pasolini si rifà alla vicenda storica di Antonio Solera (1786-1848), avvocato arrestato nel 1820 e condannato in un primo momento alla pena di morte e poi a vent’anni di carcere duro dal tribunale di Venezia.(4) La trama si articola in tre atti: il primo aspetto che ci viene presentato di Guido, nell’atto che apre il dramma, è il suo sentito immedesimarsi con la figura del poeta: la sua passione è tutta per la poesia, ma ancora non arde in lui quello spirito patriottico che si infiammerà con l’arrivo dell’amico di famiglia Carlo Geni, che lo coinvolge nella causa carbonara. A questo punto entra in scena anche la madre del protagonista, che vive un amore profondo e soffocante nei confronti del figlio: il rapporto stretto, a tratti morboso che lega i due, rappresenta una dei temi predominanti dell’intero dramma (anche in questo è possibile rintracciare un accenno a Susanna Colussi, madre di Pier Paolo).
aggiudica la vittoria grazie al testo La sua gloria.(
   Nel secondo atto, composto da una sola scena, assistiamo all’arresto di Guido da parte degli Austriaci, sotto gli occhi dell’angosciata madre.  

   Il terzo atto è invece ambientato a Venezia, precisamente a Piazza San Marco, dove Guido viene trascinato dai gendarmi e condannato a morte, mentre la madre, in preda alla disperazione, chiede la grazia del figlio, Guido riesce a scorgerla tra la folla e le chiede di pregare per lui. Troviamo infine il protagonista rinchiuso in una cella dello Spielberg mentre ripensa alla sua infanzia, all’amore della madre e al dilagare dei moti risorgimentali per i quali ha speso il suo silente ma non inutile sacrificio:  

GUIDO 

E’ differente il mio sacrificio  
forse più squallido, forse più misero;  
ma non fecondo per la nostra Patria!  
Sì, sì certo se essi non sapessero che dei loro fratelli languono  
e si consumano in queste celle lontane,  
meno fervido sarebbe il loro entusiasmo!(5)

   Con queste battute il protagonista si appropria della sua intima e personale gloria che dà il titolo all’intero dramma. 
  
    L’esordio pubblico di Pasolini è quindi sotto il segno del teatro, fin dall’inizio concepito come teatro delle confessioni nascoste che poi svilupperà nelle tragedie: la sua vocazione teatrale «nasce dal bisogno di mettere a nudo le proprie intime confessioni sul palcoscenico della condivisione pubblica ma anche del ludibrio pubblico. Se la poesia, infatti, è monologo univoco dei propri pensieri e sentimenti, il teatro si presenta come messa in scena, quasi esorcismo, di quel monologo interiore ma riletto nel suo conflitto con l’esterno».(6)

   Come primo dramma colpisce per la compiutezza della trama (con spunti autobiografici), per la resa formale riuscita, ma soprattutto per la presenza di due elementi che si riveleranno peculiari in tutta la vita, sia privata che intellettuale, del Pasolini più maturo: la figura materna fortemente presente e l’impegno civile che lo porta ad aderire a un movimento rivoluzionario, anche se destinato a rimanere soffocato dentro una prigione. Sono queste le passioni che agitano l’animo del protagonista Guido, evidente alter ego di Pier Paolo, poeta che crede nella causa patriottica, agitato da sentimenti forti e dalla vocazione poetica e che finisce martire del suo stesso sogno rivoluzionario. La scena iniziale, di leopardiana memoria, vede Guido solo e tormentato, chiuso nella sua camera, mentre osserva la luna e avverte la difficoltà di riuscire a comunicare come vorrebbe e cioè liricamente. Attraverso Guido, Pierpaolo racconta i febbrili anni di studi giovanili che rappresentano il suo personale cantiere creativo adolescenziale da cui attingerà e su cui lavorerà per tutta la vita. Nella tragedia Bestia da stile (1966-1974), sua autobiografia dichiarata, che analizzeremo a fondo più avanti, il protagonista Jan/Pier Paolo altro non è che un’evoluzione del prototipo pasoliniano rappresentato da Guido: Jan (anche questo ripreso da un personaggio storico realmente esistito: Jan Palach, studente ceco, che si diede fuoco per opporsi all’invasione russa degli anni Sessanta e divenne il simbolo della protesta) è un poeta tormentato, impegnato nella guerra partigiana e in cerca di fama letteraria, costantemente scisso tra la ricerca della gloria civile e quella poetica. 

   Anche l’esordio letterario pasoliniano rappresenta quindi un esercizio di
scrittura e di sperimentazione linguistica: nell’episodio ambientato a Venezia l’autore non rinuncia a introdurre nel testo alcune battute in veneto, a conferma di come il suo interesse per i dialetti e la cura riservata alla scelte linguistiche nel teatro (come nella poesia o nella narrativa) facciano parte, da sempre, della struttura dell’opera pasoliniana. 

   Dal punto di vista tematico, constateremo come le sei tragedie ruotino tutte intorno al rapporto schiacciante tra Potere e singolo individuo, dicotomia su cui Pasolini comincia a riflettere già ne La sua gloria: Solera lotta contro un’occupazione, contro l’oppressione che potrebbe anche richiamare la dittatura fascista, a cui risponde la riluttanza, tutta pasoliniana, rispetto all’egemonia esercitata dal Potere. Ma forse questa potrebbe essere una lettura forzata dato che, come abbiamo visto, il dramma fu concepito per partecipare ad un concorso indetto dal regime. 

   Possiamo dunque affermare che La sua gloria assume un rilevanza notevole sia per la costruzione del protagonista Solera, indicato proprio come «prototipo di un personaggio»(7 )pasoliniano sia perché permette di siglare il primo vero esordio letterario di Pasolini sotto il segno del teatro e non sotto quello poetico con la ben più nota pubblicazione della raccolta Poesie a Casarsa del 1942.

   E’ proprio nello stesso anno dell’esordio poetico che Pasolini elabora il suo secondo tentativo teatrale, misurandosi per la prima volta con la materia tragica greca, cimentandosi in una personale riscrittura dell’Edipo all’alba. La tragedia pasoliniana conta cinque atti; oltre al coro, i personaggi sono Edipo, Ismene, Antigone e Menadi. Il documento, rimasto inedito nella sua versione integrale,(8) rappresenta un testo autonomo, che indubbiamente si rifà al mito edipico, stravolgendolo e rielaborandolo. La trama racconta l’alba del giorno dopo: Edipo ha appena scoperto la sua colpa, il suicidio di Giocasta si è avverato e a Tebe vige un immutabile clima di morte. Nel secondo atto Edipo riflette sulla tragicità della vita e profetizza di sopravvivere ai suoi figli. La tragedia però comincia a profilarsi nel quarto atto con l’arrivo di Ismene che svela come sia nato in lei il desiderio amoroso ed erotico nei confronti del fratello Eteocle: tutto è avvenuto in seguito ad un sogno rivelatore che ha lasciato dentro di lei una sensazione di orrore e di passione. Per questa sua colpa, Ismene chiede di essere uccisa; sarà lo stesso padre ad infliggerle la morte. Nel quinto e ultimo atto si accende una diatriba tra il Coro e le Menadi sul diritto di sepoltura di Ismene: peccatrice per i Tebani, innocente per le Menadi che decideranno di rapirla e portarla in cielo. La tragedia si chiude con la partenza di Antigone e del cieco Edipo da Tebe.

   Già dalla trama, anche se riassunta brevemente, è possibile riconoscere alcune delle tematiche che ritroveremo frequentemente nelle tragedie degli anni Sessanta. Primo fra tutto il tema del sogno che già qui è sogno rivelatore di desideri incestuosi e impossibili da concepire razionalmente. In Pasolini l’idea del sogno nasce da sempre come tramite tra la razionalità e l’inconscio, un inconscio in cui si annidano e si nascondono passioni orribili ma in grado di vincere la volontà umana: succede a Ismene che, dopo aver scoperto e svelato la sua passione segreta, chiede e ottiene la morte per questa colpa e più avanti vedremo come, anche in Affabulazione e in Calderón, i protagonisti, risvegliandosi dai propri sogni rivelatori, non saranno più in grado di riconoscere come propria la realtà che li circonda e alla fine saranno vinti e schiacciati dalla verità che il sogno ha portato con sé. 

   Come farà in Pilade, opera scritta come fosse una sorta di quarto capitolo dell’Orestea eschilea in cui Pasolini sceglie come protagonista il fedele amico di Oreste, Pilade, che nella trilogia greca rimaneva più che marginale, anche nell’Edipo all’alba l’autore decide di raccontare la passione amorosa ed erotica vissuta da Ismene, la meno nota tra le figlie di Edipo, passione che inoltre non ha altre attestazioni nel mito classico. C’è sicuramente in Pasolini la propensione ad attingere al mito greco senza però compiere un’azione di riscrittura ma piuttosto la volontà di servirsi della materia come punto di partenza più ad atto su cui costruire poi la sua tragedia. 

   Nel caso di Edipo all’alba, è stato già notato come l’opera pasoliniana possa forse essere ricollegata all’Oedipe (1931) di André Gide, opera letta probabilmente da Pier Paolo che cita lo scrittore francese tra gli autori letti.(9) E’ molto probabile che Pasolini sia stato influenzato dall’opera francese e ancor di più è ipotizzabile che abbia deciso di cimentarsi su un testo che trattasse proprio il mito edipico dopo aver assistito, nel giugno del 1941, quindi pochi mesi prima la scrittura dell’Edipo all’alba, alla messa in scena dell’Edipo re curata da Enrico Fulchignoni.(10)

    Nell’opera di Gide è Polinice a provare una passione incestuosa nei confronti 11)
di sua sorella Antigone mentre l’altro fratello Eteocle confessa, con brutale sincerità, di voler possedere sessualmente sua sorella Ismene. Il motivo tutto greco delle colpe dei padri che ricadono sui figli, tematica su cui Pasolini continuerà la sua riflessione anche negli scritti più maturi, emerge in questa tragedia in cui la colpa impossibile da espiare da Edipo, peccatore in quanto marito e amante di sua madre Giocasta, si moltiplica attraverso la passione incestuosa provata dalla figlia, che genera in lei un senso di colpa (di origine cristiana e non greca) tanto da indurla a chiedere la morte come punizione. In questa richiesta ritroviamo il tema del sacrificio cercato e ottenuto, che caratterizzerà alcuni dei personaggi pasoliniani: Ismene sarà l’ulteriore vittima del destino già stabilito, rappresentato da Edipo, originariamente omicida del padre, poi sposo della madre e infine di nuovo omicida della figlia. Ecco quindi il ribaltamento pasoliniano del mito edipico: sono i padri ad uccidere i figli (altro elemento che ritroveremo in Affabulazione). Con questa struttura circolare si compie e si conclude la prima tragedia di natura greca pasoliniana; «nel mito tragico, reinventato attraverso il pastiche, si sovrappongono una all’altra contaminazioni oppositorie tipicamente pasoliniane (paganesimo e cristianesimo, sacro e profano, puro e impuro); il sacrificio tragico diviene sacrificio rituale e religioso (eppure al contempo sacrilegio).[…]Il mito è per Pasolini una figura di pensiero in cui si addensa ed enfatizza la tragedia della condizione umana».(

   Il 1944 è l’anno del terzo e forse primo significativo tentativo teatrale pasoliniana con l’opera I Turcs tal Friul, scritta in dialetto friulano, in quella parentesi della storia mondiale e personale che Pier Paolo trascorre a Casarsa, durante la guerra, l’invasione nazista e l’esperienza partigiana del fratello Guido. 

   Pier Paolo chiude il manoscritto del dramma, pubblicato postumo nel 1976,(12) con una nota, anch’essa in friulano, che indica i tempi di composizione: 

I ai scrit i Turcs dal 14-15 al 22 di maj – il vinçedoi, dì trist, apena disnat. I mi soi sintut pierdutcoma mai, besoul, ta li Agussis.
I ai lavorat cuatris oris e miesa e dal «coru dai Turcs» scrit stamatina, i au finit il miracul. Sensa quistu dì, Maj al è stat un mies assai biel. Mars, Avril, Maj meis beas; grant equilibri, lus, perfetiòn ta la conosensa di me; (esistensia sempri ta la pica di me stes). Ringratiàn il Signour Amen. 
                        spetant Rosari(13) 
                                     22 di maj, sera,   

   Nel 1944 Pier Paolo ha 22 anni, si è trasferito da circa un anno a Casarsa, luogo materno, meta di spensierate vacanze estive, che a causa della guerra diventa invece fissa dimora. Qui ha modo di avvicinarsi e di innamorarsi del dialetto friulano, lingua scelta per il suo esordio poetico con Poesia a Casarsa.(14) Pier Paolo comincia ad apprende questo idioma piano piano, ascoltando i parlanti e il loro dialetto vivo per poi catturare la potenza orale della parlata, composta non solo di semplici suoni musicali ma anche di espressività, di parole vere e di tonalità, elementi che la rendono perfetta per stendere un’opera teatrale. La scelta di scrivere in friulano va inquadrata in un più ampio e ambizioso progetto pasoliniano che intende riscattare, o meglio, ergere questo dialetto a lingua riconosciuta, almeno fra le lingue neo latine minori come, ad esempio, il catalano o il provenzale: «una sfida aperta alle norme linguistiche acclarate accademicamente, nel nome di una filologia sentimentale dove le ragioni soggettive del campanilismo affettivo si irrorano di considerazioni e analisi ereticamente geniali, e in qualche modo inattaccabili anche sotto il profilo linguistico».(15) Il teatro diventa quindi un tassello fondamentale all’interno di questo coraggioso tentativo di far emergere il friulano come lingua e il Friuli come Piccola Patria. Per questo con I turcs Pasolini decide di scrivere un tradizionale dramma delle origini che richiami il ruolo assunto dalla tragedia greca nel mondo classico e il valore nazionalistico del progetto culturale, sociale e politico proprio del teatro irlandese dei primi del Novecento (torneremo più avanti sul rapporto tra l’esperienza drammaturgica pasoliniana e quella dell’irlandese W.B. Yeats). 

 16 )
 I Turcs tal friul è un atto unico, in prosa, ambientato nella Casarsa del 1499. La narrazione si apre in una sera qualunque, quando al villaggio, un messaggero giunge per annunciare l’imminente invasione dei turchi che hanno già attraversato l’Isonzo seminando morte e terrore. Protagonisti della scena sono i componenti della famiglia Colus: i fratelli Meni, Pauli, Nisuti e la madre Lussìa.(

   Inizialmente si dibatte sul da farsi per difendere i cittadini e il villaggio dagli invasori: Pauli, il fratello maggiore, è arreso al destino che li attende, Meni, il secondogenito, invece organizza una banda di resistenza, riuscendo a coinvolgere, alla fine, anche il fratello maggiore. La madre, Lussìa, prevede scoraggiata la tragedia che si avvererà: mandata di vedetta, la donna avvista il ritorno della squadra che porta con sé un cadavere ma non riconosce subito che si tratta di suo figlio Meni, morto sacrificandosi per il bene comune. Il dramma, infatti, si chiude con la ritirata dei turchi da Casarsa: il paese è miracolosamente in salvo e il sacrificio del giovane idealista si è consumato. 

   L’opera, considerata dallo stesso autore «la miglior cosa che io abbia mai scritto in friulano»(17), non verrà mai rappresentata né pubblicata in vita da Pasolini, nonostante la passione e l’amore che aveva investito nella stesura di questo dramma, contraddistinta da uno studio capillare di annali e cronache parrocchiali che potessero fornirgli informazioni preziose per poter raccontare una storia tutta  casarsese. Lo spunto è un fatto storico, l’invasione turca, rievocata anche da una lapide risalente al 1529, tutt’oggi presente nella chiesa di Casarsa, su cui si legge: Furono li turchi in Friuli, che gli suggerisce il titolo.
   La scelta di raccontare un fatto storico, o meglio un’invasione, è sicuramente legata alla volontà dell’autore di creare una sorta di parallelismo con l’invasione degli anni Quaranta, da parte dei tedeschi in Italia. Il dramma effettivamente si presenta come fosse «un’epica contadina, istintivamente cristiana: creaturalità naturale, elogio della solidarietà comunitaria. […] E’ dunque il voto, e la ricreazione di quella paura dello straniero, a diventar materia di teatro nella fantasia pasoliniana. A questo si unì la sintonia col presente. Come i turchi, i nazisti minacciavano, per razzie e deportazioni, le comunità friulane».(18)

   Oltre al riferimento storico e politico, è evidente, ancora una volta, lo spiccato autobiografismo insito nelle opere del giovane Pier Paolo: siamo nel maggio del 1944, la tragedia che colpirà la famiglia Pasolini non si è ancora compiuta(19) ma è facile individuare nel travagliato rapporto tra i fratelli Colus (ricordiamo anche che il cognome della madre Susanna era Colussi) il contrasto (e la tragedia) reale che si sviluppò tra i due fratelli Pasolini: la passione per la comunità, il disprezzo e la resistenza al nazismo e al fascismo, in Pier Paolo non si traducevano in un’azione armata(20) mentre in Guido la reazione all’ingiustizia e alla libertà negata fu decisa e violenta tanto da spendere la vita nella guerra di liberazione. Non si vuole leggere in queste pagine una sorta di tragica veggenza che troppo spesso viene associata a Pasolini, anche perché, aldilà dei forti elementi autobiografici (riscontrabili anche nella figura materna, personaggio ricalcato su Susanna, madre tanto, forse troppo, amata e già abbozzata ne La sua gloria) l’autore, con quest’opera voleva ardentemente vivificare una tradizione contadina, popolare, arcaica e incontaminata, propria del Friuli, oscurata da secoli di invasioni e soggezione. 

   Il Friuli, con i suoi contadini, le sue tradizioni e soprattutto la sua lingua diventa il centro dell’opera, che rientra nel più ampio piano pasoliniano di costruzione culturale, per la formazione di una scuola friulana di poesia. Particolare importanza assume quindi il dialetto, non ancora eletto a lingua(21): accostato dallo stesso autore al dialetto greco, il friulano viene descritto infatti come «una specie di dialetto greco o di volgare appena svincolato dal preromanzo con tutta l’innocenza dei primi testi in lingua».(22) L’accenno alla lingua greca individuata come la più adatta, soprattutto per la sua musicalità, per definire la fase aurorale del friulano, rappresenta il primo rintracciabile ed esplicito richiamo al mondo classico presente nei Turcs. L’universo greco, la sua cultura e il ruolo assunto dalla tragedia all’interno della polis è la forma di spettacolo a cui Pasolini decide di attingere per muovere i primi passi da drammaturgo, incarnandosi in un nuovo tragediografo greco che con la sua opera può dar voce ai diritti e alle rivendicazione della comunità a cui appartiene. 

   Stefano Casi ha riconosciuto la stretta parentela dei Turcs con il teatro greco in diversi elementi tecnici: 

in alcuni personaggi usati come messaggeri o come coro, nell’osservanza delle tre regole pseudoaristoteliche o nel meccanismo dell’agnizione. Ma centrale per comprendere la sostanziale ascendenza greca dell’opera è il fatto che venga scelto un momento storico della storia di Casarsa. […] In questo senso I Turcs tal Friul ha la possibilità di poter essere considerato un 2libro di rappresentazione epica contadina” quanta ne avrebbe un’opera come i Persiani  di Eschilo.(23)

   Nonostante già nel primo tentativo teatrale, con La sua gloria, Pasolini avesse toccato il tema dell’impegno civile per il poeta, I Turcs tal Friul diventa il primo vero dramma politico pasoliniano perché non si limita a parlare l’impegno patriottico del singolo protagonista, ma allarga l’orizzonte di analisi, trattando la questione dell’invasione turca che coinvolge tutta la comunità, assumendo così una risonanza profondamente sociale, tale da richiamare la portata politica propria delle tragedie greche nel mondo classico: la discussione sociale e politica viene raccontata e filtrata dalla questione familiare e privata attraverso lo scontro e il dibattitto tra i due fratelli Colus. 

   Con quest’atto unico si verifica una maturazione del Pasolini sperimentatore teatrale rispetto ai due drammi precedenti: l’autore, infatti, riesce a rappresentare sentimenti contemporanei trasportandoli in una struttura drammatica appartenente al mondo classico. Nonostante Pasolini sia ancora un drammaturgo acerbo, questa sarà la strada su cui proseguirà nel concepimento del corpus delle sei tragedie del 1966. Con questo dramma dialettale Pasolini gettò infatti le premesse per la futura fioritura drammaturgica, «ma esse sono ancora allo stato nascente e si fondano su circoscritti presupposti contestuali e linguistici, di cui dunque, pena azzardate forzature, è cauto non enfatizzare troppo il carattere di preludio già decisivo».(24)

   Per il suo quarto tentativo teatrale, Pasolini si mette alla prova con una favola drammatica, un testo per bambini, in otto scene, scritto tra la fine del 1944 e l’inizio del ‘45 e rimasto inedito,(25) dal titolo I fanciulli e gli elfi. Lo spettacolo debutta il 15 luglio 1945 nel teatro dell’Asilo di Casarsa, gli interpreti sono i giovani allievi dell’Academiuta, l’autore cura la regia e si ritaglia il ruolo dell’Orco. Le repliche vengono interrotte dall’arrivo della notizia della morte di Guido, per poi riprendere pochi giorni dopo. E’ lo stesso Pasolini a raccontare e a descrivere la genesi, le sensazioni e le emozioni prima del debutto: 

Fin dal Gennaio avevamo cominciato a fare le prove per recitare una favola drammatica I fanciulli e gli elfi che io avevo scritto appositamente, ripromettendomi di dare lo spettacolo a Castiglione non appena la guerra fosse finita. Quelle prove costituirono momenti di eccelsa gioia per i miei ragazzi, e credo che, da adulti, se le ricorderanno come una specie di emblema della loro infanzia. Nisiuti era uno degli Elfi, io stesso l’Orco. […]Dopo cinque o sei mesi, la favola era pronta (i ragazzi erano davvero straordinari); si era in Giugno, la guerra era cioè terminata, e il Teatrino dell’Asilo, a Castiglione, era incolume. Poiché oltre che l’attore, il regista e il produttore io dovetti fare anche il tecnico e l’operaio, non fu davvero un facile compito il mio, tanto più che lo spettacolo era completato da un coro di giovanotti di Castiglione, che, perfettamente istruiti da Dina, avrebbero dovuto cantare villotte friulane. Finalmente tutto fu pronto; lo spettacolo fu dato e i bambini furono felici per il successo; è del resto facile immaginare tutti i loro complessi di gioia. Ero stato io a truccarli, già truccato io stesso con un’enorme, incredibile pancia, una barba diabolica, e in testa un impagabile copricapo, scoperto chissà dove, che mi dava un’indovinata espressione tra feroce e idiota. Gli Elfi avevano il torace nudo e i fianchi avvolti da un’abbondante veste di rami di salice. Dina mi aiutava, ma per il suo carattere meticoloso mi era molte volte di impaccio: mi osservò, ad ogni modo, mentre dipingevo le labbra di Nisiutì...(26)

   Siamo negli stessi anni dei Turcs, gli anni della guerra, gli anni del nido casarsese, dello studio del dialetto friulano, del rapporto esclusivo con mamma Susanna, dell’assenza del padre impegnato sul fronte, della morte di Guido, della scoperta della sessualità da parte di Pier Paolo. Sono anni di formazione, di tentativi di vita e di scrittura, di esperimenti poetici, pedagogici e teatrali che molto spesso finiscono per combaciare. La voglia dell’autore di cambiare registro e di cimentarsi con tematiche e strutture poetiche diverse è dimostrato proprio da I fanciulli e gli elfi, testo con un chiaro e palese fine pedagogico. Ma vediamo brevemente l’intreccio della fiaba: tre piccoli elfi, cannibali, dispettosi e truffaldini, vivono nella loro capanna immersa nella selva, con il loro padre Orco. L’arrivo dei fanciulli, scappati da casa e inoltratisi nel bosco in cerca di avventure, sconvolgerà la vita dei tre elfi che, in un primo momento, decidono, insieme all’Orco, di catturare i giovani. Ma quando il padre si assenta, i prigionieri rivelano ai piccoli elfi l’esistenza e la possibilità di vivere in un mondo “buono”. 

   Inizia così la conversione dei cattivi attraverso il gioco. Gli Elfi gradualmente si lasciano sedurre, e infine decidono di liberare i fanciulli e di scappare via con loro. Ma intervengono due figure adulte a rendere drammatica la fiaba: lo zio dei ragazzi e l’Orco che iniziano un duello, che viene descritto dallo stesso autore e che inizialmente è 

tutto moine e proteste di buona volontà, indi diviene apertamente minaccioso, variando dal grottesco all’orrido. Ma quando l’Orco invoca l’aiuto di Tigri, Mostri, Sciacalli ecc. gli rispondono dalla selva canti di uccelli e di violini, quando egli reclama la Tenebra e la Tempesta, si fa intorno una limpidissima luce, e quando infine, ridotto alla disperazione e al ridicolo, si appella al suo coltellaccio, invece di questo trova nel suo sacco una pipa. I buoni e i convertiti se ne vanno cantando.(27)

   La struttura del dramma si presenta poco problematica e lineare, con l’ancestrale duello tra forze del bene e forze del male, in un clima fiabesco, magico, a tratti allegro e spensierato, elementi che rendono l’opera il primo vero tentativo pasoliniano di commedia dell’Academiuta. In questo testo si avverte tutta la carica romantica del giovane Pasolini degli anni friulani, umanista che crede fortemente nella forza educatrice della letteratura, della poesia, del teatro. I fanciulli e gli elfi testimoniano l’impegno e la dedizione con cui Pier Paolo si dedicava alla propria azione pedagogica a Casarsa, con l’istituzione di una scuola gratuita per giovanissimi allievi, attività che da lì a pochi anni, una volta lasciata la terra materna, si manifesterà anche nell’effettivo insegnamento nelle scuole romane.(28)

 29) Gli stralci del testo rinvenuto vedono protagonista il Ragazzo, che durante la notte riceve le visite prima del Diavolo e poi dell’Angelo (personaggio che avrebbe dovuto essere interpretato da una donna), con cui inizia a discorrere della morte e dell’anima. Compare anche il Morto e sulla questione della sua anima si accende il dibattitto tra l’Angelo e il Diavolo.(30) Lo scritto si chiude con il Ragazzo rimasto solo che decide di rimandare considerazioni e pensieri al mattino seguente.(31)




Gli anni friulani vedono il fiorire della vena drammaturgica pasoliniana, a dimostrazione e riprova di come il teatro costituisca un pezzo fondamentale del poliedrico puzzle che è la magmatica scrittura pasoliniana. Sempre in quello stesso 1945 infatti Pier Paolo scrive un altro atto unico La Morteana, titolo che richiama il ballo della morte. Il testo è scritto in friulano, fortunatamente rinvenuto di recente, dopo aver seriamente rischiato di finire nell’oblio. Il manoscritto inedito e conservato dal Centro Servizi e Spettacolo di Udine che ne  ha curato una drammatizzazione, riporta esclusivamente le battute del personaggio del Ragazzo, il che lascia pensare che si tratti di un copione per le prove. Sappiamo però che il testo non fu mai rappresentato. Con I Turcs tal Friul, I Fanciulli e gli Elfi e la Morteana, Pasolini aveva cercato, sia pure con tematiche e scelte drammaturgiche diverse, «di individuare un percorso teatrale popolare che ben si avvicinasse al contesto sociale in cui viveva negli anni della guerra. Non è un caso se ciascuno di questi testi fosse pensato espressamente per l’immediata rappresentazione col coinvolgimento del paese».(

   Con la mancata messa in scena de La Morteana si interrompe questo flusso teatrale che racchiude gli archetipi della formazione del Pasolini drammaturgo, un teatro caratterizzato di autobiografismo anche sul versante geografico. E’ probabile pensare che lo stravolgimento che la guerra aveva portato non solo in Italia e a Casarsa ma proprio nella vita personale di Pier Paolo, con l’atroce morte di Guido, trauma che Pasolini non riesce a metabolizzare e a tramutare in parole, in poesia o in un testo teatrale,(32) non gli consenta di rappresentare più drammi e testi che potessero raccontare la vita del paese materno, inteso come polis greca. Con La Morteana si arresta quel progetto culturale e sociale che aveva coinvolto Pasolini negli anni friulani tanto quasi da distrarlo dall’orrore della guerra (basta pensare che Pier Paolo parla del 1943 come di «uno degli anni più belli della sua vita»(33)): il dramma mai rappresentato sigla il definitivo abbandono dell’idealizzato tentativo drammaturgico friulano.

   Passano due anni, è il 1947, la guerra è finita, il mondo di Pier Paolo non è più lo stesso. Nelle sue scelte drammaturgiche assistiamo ad un vero e proprio cambio di rotta sia nello stile che nella materia drammatica che diventa sempre più introspettiva e personale. La biografia di questi anni è segnata dalla prima vera passione amorosa di Pasolini: si innamora del quindicenne Tonuti Spagnol, verso il quale matura un sentimento intenso e profondo per lui ma non riesce a vivere liberamente il desiderio erotico-sessuale, provando un forte senso di colpa. Comincia a lavorare sul dramma in tre atti dal titolo Il cappellano, che vede come protagonista un sacerdote logorato dal desiderio erotico, ecco come il teatro si configura come «spazio privilegiato di riflessione sui meccanismi che dalla coscienza dello scontro fra libertà dell’individuo e regole sociali portano all’uso della parola e, in questo caso, della comunicazione sociale. Il teatro diventa così il luogo estremo di denuncia dell’eresia, intesa come scollamento fra sé e i suoi condizionamenti sociali».(34) Tornerò dopo su quest’opera che è considerata l’avantesto del futuro e più maturo componimento che prenderà il titolo Nel 46! 

   Sempre nel 1947, agitato quindi da questi sentimenti erotico-amorosi, Pasolini scrive un atto unico in tredici scene, dal titolo La poesia o la gloria anch’esso inedito. Il protagonista è Paolo, un giovane poeta (proprio come Guido de La sua gloria) e tutto si svolge in era post-bellica: Antonio, il fratello del protagonista tornato dal fronte, non è più riuscito a reintegrarsi nella sua vita familiare e matrimoniale e passa le sue giornate ubriaco, lasciandosi andare brutalmente a un sentimento di nostalgia fascista, in uno stato continuo di ira e disapprovazione. Apprendiamo la sua storia attraverso il racconto che il protagonista fa al suo amico Mariano, in cui ripercorre i lutti e la devastazione che il conflitto ha comportato. Ma non appena rimane da solo, Paolo riceve la visita del Diavolo (scena ottava) che comincia a provocare il poeta, come se volesse far emergere il lato più oscuro della sua persona, i suoi peccati, mettendolo davanti alla «noiosa presenza dell’altro».(35) Nel frattempo Antonio scappa, lasciando la Madre in uno stato di angoscia e turbamento, mentre Paolo, corso a cercarlo, lo ritrova in un’osteria. L’atto unico si conclude con un finale mancato, in cui ascoltiamo il dialogo tra il protagonista e l’amico Mariano riguardo la reazione evasiva di Paolo davanti alla sua tragedia familiare. Tra gli altri personaggi figura anche Nives, la moglie di Antonio, rassegnata ai comportamenti violenti e al disprezzo che il marito ubriaco le palesa tutti i giorni. 

   La poesia o la gloria mette in scena il dramma di una famiglia sopravvissuta 36) I punti di contatto riscontrabili tra il testo e la biografia dell’autore rendono La poesia o la gloria un documento importante che testimonia il ruolo che la scrittura teatrale ebbe per Pasolini. Il teatro si conferma una sorta di confessionale, attraverso cui l’autore si confronta con l’intricata rete dei rapporti familiari e sociali, tanto più se si pensa che spesso i drammi giovanili non furono mai portati a termine e mai rappresentati, destinati a rimanere incompleti e con il rischio di non vedere mai la luce.
ma devastata dalla guerra. E’ la storia dei Pasolini e il personaggio di Antonio è ricalcato sulla figura del padre Carlo Alberto: è un militare, ha ricevuto anche una lui una medaglia d’argento al valore e in lui si avverte, seppur vagamente, una certa ingenua vicinanza al fascismo.(

   Nei primissimi anni del dopoguerra l’impegno civile comincia ad assumere un ruolo sempre più determinante nell’animo del poeta. Sempre nel 1947, finisce anche l’esperienza dell’Academiuta: era ormai sopita, terminata, spenta quella stagione di formazione, di studio, di condivisione in cui Pasolini aveva trovato rifugio mentre la guerra devastava l’Italia e l’Europa. Anche il mondo contadino, arcaico e incontaminato del Friuli, alla fine, aveva subito l’irruzione di nuovi eventi culturali, sociali e politici, e anche il giovane poeta che studiava la lingua friulana ora si ritrova a dover affrontare una drammatica situazione familiare e gli intimi turbamenti omoerotici che sconvolgono la sua coscienza di cattolico convinto. (37) L’umanista comincia a vestire i panni dell’intellettuale impegnato politicamente e matura la decisione di lasciare il Movimento popolare friulano(38) in cui militava, per iscriversi al Partito Comunista Italiano (1948), esattamente alla sezione di San Giovanni di Casarsa, che si contraddistingueva dalle altre per il suo carattere anticlericale e antidemocristiano. L’impegno politico assunto da Pier Paolo nel biennio 1948-49 lo rende un personaggio pubblico in Friuli: i suoi scritti, gli articoli, i comizi e dibattiti sono tutti dedicati alla politica, quella stessa politica che da lì a poco lo costringerà a lasciare il Friuli per fuggire durante la notte alla volta di Roma. 
 
 Il 15 ottobre 1949, viene segnalato ai carabinieri di Cordovado che Pier Paolo Pasolini da Casarsa, qualche giorno prima, aveva adescato minorenni a Ramuscello, frazione di San Vito al Tagliamento, durante la festa di Santa Sabina. I ragazzi presumibilmente adescati erano tre, tutti minorenni, non ci fu querela da parte dei genitori, ma la notizia si era diffusa e l’opinione pubblica aveva emesso la sentenza. Pasolini venne imputato dal pretore di San Vito al Tagliamento per corruzione di minori e atti osceni in luogo pubblico. Si arrivò al proscioglimento della corruzione dei minori (1950) ma fu confermata la condanna per atti osceni in luogo pubblico. Il Tribunale di Pordenone assolverà infine Pasolini in Appello, nel 1952, per insufficienza di prove. 

   Ma nel 1949, a Casarsa, la condanna nei confronti di Pier Paolo fu severa: il 26 ottobre il comitato direttivo della Federazione comunista di Pordenone emanò l’ordine di espellere ufficialmente Pasolini dal Partito Comunista italiano per indegnità morale e politica. L’esclusione fu per Pier Paolo un trauma che lo gettò in uno stato confusionale, portandolo a maturare una certa rabbia per quell’universo a cui si era avvicinato e in cui credeva nonostante l’omicidio di Guido per mano degli stessi partigiani. In una lettera indirizzata a Ferdinando Mautino della Federazione di Udine, scritta subito dopo aver appreso la notizia della sua espulsione (la lettera porta il timbro postale del 31 ottobre ma è presumibile che sia stata scritta il 29, giorno in cui «L’Unità» pubblicava la notizia dell’espulsione ufficiale di Pier Paolo dal Partito) confessa tutto il suo rammarico e il suo sdegno: «Malgrado voi, resto e resterò comunista, nel senso più autentico della parola […] Fino a stamattina mi sosteneva il pensiero di aver sacrificato la mia persona e la mia carriera alla fedeltà a un ideale; ora non ho più niente a cui appoggiarmi. Un altro al mio posto si ammazzerebbe; disgraziatamente devo vivere per mia madre».(39)
 

   Da questo episodio comincia l’esperienza della diversità e della persecuzione che segnerà tutta la sua vita. Il materno Friuli d’un tratto lo respinge, lo allontana dalla vita pubblica e sociale, quella terra che lo aveva protetto e assecondato nei suoi primi esperimenti poetici e teatrali, in cui aveva piantato radici destinate a crescere, era ormai lontana, sconosciuta, arida. L’unica soluzione era la fuga verso Roma, la grande città, la caotica capitale materna e meretrice, in cui tutto si confonde e nessuno si ferma a guardarti: accompagnato dalla madre e lontano dal padre, Roma è la soluzione. Soltanto nell’ultimo anno di vita, un Pasolini ormai maturo dal punto di vista letterario, sessuale e poetico, tornerà a guardare al Friuli degli anni Quaranta, con i versi di La nuova gioventù (1974). 



Note:
                                               
 1 Nel volume P. P. Pasolini, Teatro, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, i curatori vi inseriscono ben sedici titoli (La sua gloria, Edipo all’alba, I turcs tal Friul, I fanciulli e gli elfi, La poesia o la gioia, Un pesciolino, Vivo e coscienza, Italie magique, Nel 46!, Progetto di uno spettacolo nello spettacolo e infine le sei tragedie) e, nella nota all’edizione, accennano anche ad alcuni canovacci abbozzati da Pasolini per le recite scolastiche dei suoi alunni, ma andati quasi del tutto perduti. Vi è inoltre un riferimento al testo dal titolo Contrasto tra il Carnevale e la Quaresima anch’esso smarrito. C’è anche il riferimento ad un altro testo friulano, La Morteana, di cui resta solo un copione di quelli distribuiti agli attori per imparare la loro singola parte, precisamente possediamo le battute del fantàt, che era probabilmente il protagonista ma non possediamo il resto del testo. 
2 S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Le ragioni di due convegni e di un libro, in Id., Pasolini e il teatro, Venezia, Marsilio, 2012, p. 6. 
3 Del dramma esistono due manoscritti: una prima stesura abbozzata, scritta a penna e matita su un block notes (che conserva anche altri tentativi di teatro tra cui un inizio di commedia senza titolo e l’abbozzo di una tragedia mai terminata, ambientata a Creta dal titolo Gli alati) è conservata al Fondo Pasolini dell’Archivio “A. Bonsai” – Gabinetto Viesseux a Firenze; mentre il testo definitivo con cui Pierpaolo partecipò al concorso è conservato tutt’oggi nel Fondo archivistico del Provveditorato agli studi – Serie n. 52 – ludi Juniles 1938, presso l’Archivio di Stato di Bologna. Il testo fu pubblicato postumo nel marzo 1996, a cura di Stefano Casi su numero 40 della rivista «Rendiconti». Cfr. P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 1115-1116. Il volume curato da Siti e De Laude non comprende però il testo per esteso ma si limita a riportare solo alcuni episodi dei tre atti. 
4 Pasolini stesso indica la fonte dal quale attinge per la storia di Solera: ne parla Silvio Pellico, che lo conobbe durante la reclusione allo Spielberg. Pellico però non rivela il nome di battesimo dell’avvocato, la scelta del nome di Guido da parte di Pasolini non è però casuale, infatti, si presuppone che il giovane Pier Paolo volle battezzare il suo primo protagonista con il nome del suo fratellino tredicenne; Pier Paolo attinge al suo quotidiano anche nella scelta del nome di un altro personaggio del dramma: Carlo Geni, che riprende quello del padre Carlo Alberto Pasolini. L’autore rimane abbastanza fedele nella ricostruzione del quadro storico (a Venezia viene pronunciata la sentenza, il carcere duro dello Spielberg, l’elenco di condannati) cucito intorno alla vicenda di Solera su cui costruisce liberamente un personaggio per molti aspetti lontano dalla realtà storica.  Cfr. S. Pellico, Le mie prigioni, Milano, Rizzoli, 1984. 
5 P. P. Pasolini, La mia gloria, «Rendiconti», 40, marzo 1996, ora in Id., Teatro, cit., pp. 3-18. 
6 S. Casi, Prima della tragedia, in Contributi per Pasolini, a cura di G. Savoca, Firenze, Olschki, 2002, p. 20. 
7 Cfr. D. Micheluz, Guido Solera, il prototipo di un personaggio, in Pasolini e il teatro, cit., pp. 11-18. 
8 In P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 19-38, sono riportate solo alcune scene. Il dramma è conservato in diversi frammenti manoscritti e dattiloscritti presso l’Archivio “A. Bonsanti” – Gabinetto Vieusseux a Firenze, nella cassette sotto la titolazione “Materiali a Casarsa”.  E’ stata pubblicata una versione più cospicua in lingua francese ma senza testo originale a fronte e senza soffermarsi sulle varianti. Cfr. P. P. Pasolini, Théatre 1938-1965, traduit de l’italien par C. Michel, H. Jouberten-Laurencin et L. Scandella, Les Solitarires In
9 Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, Milano, Ubulibri, 2005, p.37; G. Trevisan, Il teatro dell’io. Mito, sacro, tragico, su “Edipo all’alba”, in Pasolini e il teatro, cit., pp. 37-44. tempestifs, Besançon, 2005, pp. 54-99. 
10 Cfr. P.P. Pasolini, Lettere 1940-1954, Torino, Einaudi, 1988. 
11 G. Trevisan, Il teatro dell’io. Mito, sacro, tragico, su “Edipo all’alba”, cit., p. 42. 
12 P. P. Pasolini, I Turcs tal friul, a cura di L. Ciceri, in «Forum Julii», Udine, 1976. Questa edizione è stata poi ripresa con un’introduzione e una traduzione di Giancarlo Boccotti in «Quaderni», n. 7, Urbania, 1980 e poi ristampata con un nuovo saggio introduttivo di Andreina Nicoloso, per conto della Società Filologica Friulana, Ciceri, Udine, 1995 e infine oggi alcune scene del dramma sono riportate in P. P. Pasolini, Teatro, cit., pp. 40-95. 
13 P.P.Pasolini, Teatro, cit. pp. 1120-1120. «Ho scritto i Turchi dal 14-15 al 22 di maggio – il ventidue, giorno triste, appena pranzato. Mi sono sentito perduto come mai prima, solo, alle Aguzze. Ho lavorato quattro ore e mezza e dal “coro dei Turchi” scritto stamattina sono arrivato a finire il miracolo. A parte questo giorno, Maggio è stato un mese assai bello. Marzo, Aprile, Maggio mesi beati; grande equilibrio, luce, perfezione nella conoscenza di me; (esistenza sempre al vertice di me stesso). Ringraziando il Signore Amen. 22 maggio, sera, aspettando Rosario».  
14 Il dialetto friulano usato da Pasolini nella sua prima raccolta poetica è però una lingua costruita a tavolino, è friulano generico, tradotto dall’italiano attraverso l’uso dei vocabolari. 
15 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 49.  
16 Sull’assenza totale della figura paterna nel dramma friulano, si veda A. Felice, Alla ricerca del padre perduto. Dinamiche di famiglia spezzata ne “I Turcs tal Friul”, in S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, cit., pp. 45-57.  
17 P.P.Pasolini, Lettere (1940 – 1954), a cura di Nico Naldini, Torino, Einaudi, 1986, p. 213. 
18 E. Siciliano, Vita di Pasolini, Firenze, Giunti, 1995, p. 102. 
19 Guido Pasolini, fratello minore di Pier Paolo, partì da Casarsa, a soli diciannove anni, per unirsi ai partigiani azionisti della brigata Osoppo – Friuli. Il suo nome di battaglia fu Ermes. La madre Susanna accolse la decisione del suo secondo genito con coraggio. L’esperienza nella guerra di liberazione del giovane Guido finì probabilmente il 10 febbraio 1945, quando perse la vita nella cosiddetta “strage di Porzus”, ucciso dagli stessi partigiani comunisti che accusavano di tradimento la frangia partigiana di cui faceva parte Guido. Nello stesso eccidio furono trucidati in tutto diciassette partigiani. 
20 Il 1° settembre 1943, mentre era a Casarsa, Pier Paolo fu richiamato militare e dovette presentarsi a Pisa. Durante l’armistizio dell’8 settembre era ancora lì. I tedeschi bloccarono il reparto di cui Pasolini faceva parte che venne avviato a un treno per la deportazione in Germania. Pier Paolo riuscì a salvarsi gettandosi in un fosso, tornò a Casarsa terrorizzato e stravolto. Quest’episodio condensa tutta la sua esperienza di guerra. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 100; P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, in Poesie, Milano, Garzanti, 1970.
21 La questione del dialetto friulano sta talmente a cuore a Pasolini che il 18 febbraio 1945, fonderà, insieme al cugino Nico Naldini, a Versutta, paese vicino a Casarsa, la cosiddetta Academiuta di lenga furlana. All’interno di questa particolare accademia formata da giovani casarsesi amanti della poesia, trovano spazio anche traduzioni drammaturgiche e un’amatoriale compagnia teatrale che vede l’esordio assoluto di Pasolini alla regia teatrale. Qui siamo di fronte al convergere di due anime del poeta: la vocazione teatrale e quella pedagogica. 
22 P.P. Pasolini, Saggi sulla letteratura e sull’arte, vol. 1, a cura di W. Siti e S. De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 160. 
23 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., p. 53.
24 A. Felice, Alla ricerca del padre perduto. Dinamiche di famiglia spezzata ne “I Turcs tal Friul”, in S. Casi, A. Felice, G. Guccini, Pasolini e il teatro, cit., p. 48.
25 Oggi è possibile leggere una pubblicazione molto parziale del testo in P.P. Pasolini, Teatro, cit. pp. 98-106. In occasione dell’annuale convegno di studi pasoliniani, tenutosi a Casarsa della Delizia, 22-23 novembre 2013, è stato messo in scena per la prima volta lo spettacolo I fanciulli e gli elfi, regia di Ilaria Passeri, prodotto dal Gruppo Roccaltìa di Chia (Viterbo) e in collaborazione con Graziella Chiarcossi. 
26 P.P.Pasolini, Atti impuri, in Id., Amado mio, Milano, Garzanti, 1982, pp. 30-32. 
27 Ivi., p. 31. 
28 Casi ha inoltre individuato in quest’opera tracce delle grandi invenzioni teatrali dei testi per l’infanzia come L’uccellino azzurro di Maeterlinck, mentre il vero motore tematico è individuato nella poesia di Goethe Il Re degli Elfi. Cfr. S. Casi, I teatri di Pasolini, cit., pp. 61- 64. 
29 S. Casi, Prima della tragedia, cit., p. 25. 
30 Sappiamo che nel 1945 Pasolini era solito riflettere sul tema della morte: come testimonianza di queste sue riflessioni ci restano oggi un centinaio di fogli manoscritti con l’intestazione Saggi, suddivisi in Saggio sul pensiero della morte, Religione e Italia e Alcuni suggerimenti della campagna casarsese. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 109.  
31 Cfr. S. Casi, Prima della tragedia, cit., p. 27.  
32 Tra le carte postume sono stati rintracciati due scritti di Pier Paolo sulla morte del fratello, sicuramente redatti per essere letti, in cui si percepisce come abbia inciso fortemente sul poeta il dolore di questa perdita. Il primo fu concepito subito dopo la Liberazione, probabilmente per la prima cerimonia di commemorazione della strage di Porzus, mentre il secondo fu redatto circa due anni dopo, sempre per un evento commemorativo. Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit. pp. 1819. 
33 P.P. Pasolini, Al lettore nuovo, cit., p. 8. 
34 S. Casi, I teatri di Pasolini, cit. p. 66. 
35 P.P.Pasolini, Teatro, cit. p. 121. 
36 Sul ritorno dal fronte del padre, Pier Paolo scriverà «Egli finì così a Casarsa, in una specie di nuova prigione: e cominciò la sua agonia lunga una dozzina di anni. Vide a uno a uno uscire i miei primi libretti in friulano, seguì i miei primi piccoli successi critici, mi vide laureato in lettere: e intanto mi capiva sempre meno. Il contrasto era feroce: se uno si ammalasse di cancro e poi guarisse, avrebbe probabilmente della sua malattia lo stesso ricordo che io ho di quegli anni». Cfr. E. F. Accrocca Ritratti su misura, Sodalizio del Libro, Venezia, 1960, pp. 320-321. 
37 Nella primavera del 1948 Pasolini scrive un “romanzo incompiuto” dal titolo Amado mio in cui racconta la passione e l’amore che il protagonista Desiderio prova per il giovanissimo Benito, che in un primo momento si sottrae al suo amore per poi cedere e di nuovo negarsi. La passione tra i due sembra però rinascere durante la stagione estiva, sulle rive del Tagliamento tra feste, ubriacature, bagni nel fiume, corpi bagnati e passioni segrete. L’amore omosessuale sembra essere però caratterizzato da un’ineluttabile infelicità: un amore aspro e felice tra un uomo adulto e un fanciullo, una passione che rapisce un’innocenza, un sentimento macchiato. Questo scritto è da leggersi come una sorta di confessione, di dichiarazione sincera della carica emotiva ed erotica vissuta da Pasolini in quell’estate friulana. Cfr. P.P.Pasolini, Amado mio, cit. 
38 Cfr. E. Siciliano, Vita di Pasolini, cit., p. 144. «Questo Movimento si era lestamente tramutato, votata dal Parlamento l’autonomia regionale del Friuli il 27 giugno 1947, in una associazione di appoggio alla Democrazia cristiana, in una mano secolare, fra Udine e Pordenone, del partito che si avviava a vincere le elezione del 18 aprile». 
39 Cfr. L. Betti (a cura di), Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte, Milano, Garzanti, 1978, p. 45. 


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Curatore, Bruno Esposito

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