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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

mercoledì 15 gennaio 2014

L'operaio dei sogni

"ERETICO & CORSARO"


L'operaio dei sogni
 
Questo film è un omaggio al poeta e cineasta Pier Paolo Pasolini. E' diretto principalmente ai giovani, o a quelle persone che finiscono la scuola senza averlo conosciuto. La sua nitida e originale visione del mondo non può essere trascurata se si vogliono comprendere più a fondo le ragioni del nostro tempo.



Roma, epoca attuale.
Il poeta e critico letterario Andrea Mariotti è nella sua casa/studio l'indomani di una conferenza da lui stesso tenuta su Pier Paolo Pasolini. Sta aspettando due studenti universitari e, nello stesso tempo, fa scorrere sul computer immagini che ritraggono Pasolini in diverse epoche e circostanze. Si sofferma su una foto che mostra il giovane Pier Paolo nel 1950, a Roma in Piazza Costaguti. Andrea fissa rapito quella vecchia immagine sul monitor e, a poco a poco, nella sua mente sempre più estraniata, il soggetto della fotografia si anima... Il giovane Pasolini riprende vita... nel sogno ad occhi aperti di Andrea.

 
Interpreti e personaggi: Paolo di Santo (Pier Paolo Pasolini); Andrea Mariotti (nel ruolo di sé stesso); Francesca Silvestri (Nerina); Manuel Santilli (Salvatore); Silvio Parrello (nel ruolo di sé stesso).
Realizzazione: VIDE@LIFE
Scritto e diretto da Pio Ciuffarella
Fotografia di Antonino Ceravolo
Musiche originali di Paolo Damiani
Altri brani musicali di Paolo Damiani, Danilo Rea, Martux_M crew (per gentile concessione) J.S. Bach
Montaggio di Antonino Ceravolo
Scenografia e costumi: Laboratorio Cinematografico Cinema all’Aperto
Trucco e acconciature: Francesca Romana Lanzino

Hanno inoltre partecipato, a vario titolo: Rita Angeletti; Giorgio Baffigi; Annalisa Duri; Ludovica Iachettini; Francesca Romana Lanzino; Nasrin Mohiti Asli; Stefania Romani; Francesca Saccone; Laura Silvestri
Attrezzatura: Domino Film di Mohamed Kenawi
Formato: HDV 16:9
Durata: 45 minuti
 
 
 
 
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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sabato 4 gennaio 2014

«L’inchiesta su Pasolini? Porterà in cella un coatto novantenne»

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




Vincenzo Cerami e le nuove indagini sull’omicidio ... Vincenzo Cerami. «Non vorrei parlare dell’inchiesta né di quello che riguarda la sua morte. È passato tanto tempo, è vero. Ma mi fa male, mi fa soffrire. Per me, lui, è stato come un padre». ...  

«Non ne parlo, mi fa male». 

Sono passati trentacinque anni dall’omicidio di Pier Paolo Pasolini, all’Idroscalo di Ostia: eppure è proprio così che dice Vincenzo Cerami. 

«Non vorrei parlare dell’inchiesta né di quello che riguarda la sua morte. È passato tanto tempo, è vero. Ma mi fa male, mi fa soffrire. Per me, lui, è stato come un padre».

Poi, invece, ne parla. Ma la reticenza iniziale è comunque comprensibile: «Fu mio insegnante di Lettere a Ciampino, dal 1950 al 1953, lavorai con lui a Uccellacci e Uccellini e in altre occasioni feci il suo aiuto regista, sposai sua cugina. E comunque, in tutto, lui fu per me fondamentale». Scrittore, sceneggiatore, giornalista, politico, autore di testi teatrali, di canzoni: la vita di Cerami è colma di successi. Impossibili da elencare. Il primo libro: Un borghese piccolo piccolo. La sceneggiatura de La vita è bella. Insomma: il talento, ma senza dubbio - come sempre - anche maestri eccellenti. Pasolini, certo.

Eppure, nonostante la riconoscenza e l’affetto, Cerami non si aggrappa alle novità. Snobba gli sviluppi dell’inchiesta. Soprattutto i nuovi esami scientifici che secondo i giornali potrebbero offrire una nuova chiave del delitto: 

«Non porteranno a niente, e cosa dovrebbero dire? Che non è stato ucciso da una sola persona? Quello lo sappiamo tutti (Pino Pelosi unico condannato, 9 anni, ndr). A queste novità credono solo i giornali, per me è tutto assurdo. L’unica verità è stata scritta con la prima sentenza, quella contro ignoti. La seconda, quella che ha condannato Pelosi, è roba politica: bisognava raccontare che Pasolini era un omosessuale morto in un incidente di percorso...». 

Solo che adesso, Cerami, analizzeranno gli abiti indossati da Pasolini la notte dell’omicidio, e tutti i reperti archiviati 35 anni fa: 

«E al massimo scopriranno che non c’era solo Pelosi, quella notte. Bella scoperta...».

E però, Cerami, forse con l’esame del dna si potrebbe arrivare non solo a capire che quella notte a uccidere Pasolini non fu solo Pelosi, ma anche a stabilire chi era con lui.

«Solo che se il dna è di qualcuno che, dico per dire, era dei servizi segreti, ecco che allora non si risalirà al responsabile. Per come la vedo io, al massimo si risalirà a qualche coatto adesso novantenne. Sinceramente, vorrei che si scoprisse altro. Vorrei che venisse alla luce perché l’hanno ucciso. E non penso sia questa la strada. Per me la prima sentenza era inequivocabile, la seconda, come ho già detto, è tremenda. Invece, credo che siano altre le cose delle quali si dovrebbe parlare». 

Quali? 

«L’ultimo capitolo di Petrolio, prima apparso poi scomparso... perché non se ne parla più?».

Marcello Dell’Utri ha detto che lo avrebbe presentato a una mostra, se l’uomo che glielo aveva offerto non fosse scomparso.

«Sì, certo... ma comunque, anche lo stesso Pelosi ha ammesso che non era solo. Ma a quel punto sarebbe stato un omicidio premeditato, e allora non è stato preso sul serio. La seconda sentenza, per come la vedo io, ha chiuso gli armadi. E adesso, i nuovi esami: per me, una buffonata. Si può risalire agli esecutori materiali? Sì, un novantenne di periferia...».

Cerami, è chiaro: lei non crede ai nuovi sviluppi.

«Sinceramente, dopo tanti anni, preferisco ricordare Pasolini per altro. Lui è stato l’unico che ha saputo raccontare l’Italia. Non l’hanno fatto né gli storici, né i sociologi né, ancora meno, i politici. Ci voleva un poeta. Uno che, come lui, oggi con un articolo, domani con una tragedia, il terzo giorno con una poesia, sapesse mettere in scena ciò che c’era eppure non si vedeva. Non a caso fu il primo a parlare di globalizzazione, anche se lui la chiamava omologazione. Ma, insomma, fu l’unico in grado di raccontare un’epoca».

Se dovesse scegliere una cosa, tra quelle che le ha insegnato?

«Posso dire "tutto"? Vede, della sua morte e dell’inchiesta non ho mai parlato, finora, perché per me è un fatto personale. E poi, ripeto, non credo che si arriverà a scoprire niente che, personalmente, non so già: non fu solo Pelosi a ucciderlo. Ma comunque, mettiamola così: voglio vedere i fatti, sono stanco di certa morbosità».

Per lui, Pier Paolo Pasolini è stato «come un padre». Per questo, 35 anni dopo l’omicidio, «queste cose mi fanno stare male, ancora oggi».

Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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venerdì 3 gennaio 2014

Ho conosciuto Pasolini, solo per qualche ora

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro



Ho conosciuto Pasolini, solo per qualche ora

di Theilard


Pier Paolo Pasolini...Mi rimane un ricordo di lui "Vivo",più di una foto: un suo foglio scritto con calligrafia decisa, che si inclina sulla destra,in alto, ben spaziata e righe orizzontali anch'esse, armoniose, con ampio spazio uniforme in verticale, un segno di equilibrio e dominio di sé; scarso lo sviluppo delle consonanti nella loro componente inferiore a denotare uno spirito non soffocato dalla sessualità e in espansione e riflessione attenta… Osservate la lettera che allego: tutti i punti sono sulle i, precisi ed estrosi, non ne manca uno ma ognuno è diverso, non ne ha dimenticato nessuno, neanche nella fretta di scrivere,nell'agitazione del momento.
Eravamo in un istituto religioso nelle vicinanze della Chiesa di S.Pietro e Paolo, all'EUR.
Era un periodo in cui la mia frequenza religiosa era al suo minimo e non ero riuscito a capire come potessi stare, da qualche tempo (fu comunque per poco tempo) con una ragazza che non perdeva una messa domenicale e le adunanze in parocchia. Io ero iscritto a fisica e lei a legge. Fisica e Legge sono separate da pochi metri, alla Sapienza, fatti di alberi, aiuole e sedili di marmo.
Quanta distanza fra noi, io proletario, abitavo ai confini di Primavalle, e lei in un appartamento, che a giudicare dell'atrio-giardino, dall'ingresso e la divisa del portiere che potevo osservare quando l'aspettavo, era leggermente diverso dagli scarsi 70 mq in cui noi stavamo in cinque mamma, papà e le due sorelle più piccole.
Mi chiamò per dirmi se volevo andare con lei ad un incontro con Pasolini, l'occasione era un dibattito, dopo che 'OCIC (Office catholique international du cinèma) lo aveva premiato, su Teorema.
Rimasi senza parole!
Pasolini l'eretico, Pasolini che con precisa diagnosi aveva decretato la morte del proletariato, inglobato e imborghesito da modelli consumistici che fagocitavano ogni ideale, ogni cambiamento.
Io non mi sentivo né di sinistra, con le sue sicurezze rivoluzionarie e incurante di Budapest, né, tantomeno, di una destra a cui la storia non aveva insegnato nulla e che perdurava nella difesa strenua di un'immagine controversa…Uno che la pensava come me (o io come lui?).
Da allora mi volli schierare in quella categoria, senza vessillo, di "libero pensatore".
Entrammo nella sala già affollata, avevamo dei posti nelle prime file, non mi sentii imbarazzato della situazione di privilegio.
Salutai un collega di corso, mi dichiarai sorpreso del suo interesse, lo conoscevo come ottimo atleta ma sapevo scarso l'impegno culturale (non so se mai completò i suoi studi; l'ho riconosciuto fra i candidati politici in qualche elezione…non ricordo quale).
Aspettammo, non molto. "…Eccolo! Eccolo!".
Ci girammo ad osservare la fonte del vociare concitato.
Pasolini, seguito da un ragazzo alto e biondo, qualcuno riconobbe in lui un non ben identificato "…Angelo. Sì l'Angelo nel …" e mi sfuggì il titolo… Confusione di sedie spostate, atmosfera infuocata da invettive come "..Con Pasolini ci si va solo a letto …non ci si parla" e altre ancora più dirette "…Frocio…".
Pasolini mi passò vicino, stava dicendo qualcosa a chi lo accompagnava al tavolo, di poco sollevato dal pavimento, su un'ampia pedana.
Il chiasso aumentò e invettive pure, circondammo Pasolini con un cordone a difesa
Non parlò e scrisse quello che allego.
Ero vicino a lui.
Pasolini mi chiese se potevo portare il foglio che aveva appena scritto a quel signore molto alto e con una corona di capelli su una testa tonda che sembrava capeggiare la contestazione…
Così feci, o meglio, tentai di fare. Mi avvicinai "…Pasolini vorrebbe che leggesse questo…" mi dette una manata e ricevetti qualche spintone dai giovani che lo circondavano.
Mi ritrovai con il foglio stracciato, solo un poco, mi ritirai con ilmessaggio rifiutato nelle mie mani.
Carabinieri, confusione, l'incontro sospeso
In pochi rimanemmo con lui, fuori della sala a parlare, parlare…parlare per più di un'ora (o forse di più).
Trascrivo il foglio,l'originale è nella foto (anche con "mezzora"):


"Naturalmente non scenderei mai a patti con lei. Ma con lei ci sono dei giovani che dimostrano di condividere le sue idee. E' per loro che le chiedo di venire a patti: lasci procedere tranquillamente il dibattito per mezzora. Se dopo mezz'ora lei crede di poter dire che il dibattito non si svolge a un livello culturale, riprenda la sua gazzarra antidemocratica, e le cose andranno come devono andare, cioè comunque antidemocraticamente



Pier Paolo Pasolini"

Fonte:

@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

Curatore, Bruno Esposito

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La meglio gioventù di Pasolini - Pier Paolo Pasolini all'Academiuta - Di Giuseppe Mariuz

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La meglio gioventù di Pasolini
Pier Paolo Pasolini all'Academiuta
di Giuseppe Mariuz



Non v’e riferimento autobiografico o intervista negli anni della sua maggiore e contrastata fortuna artistica e letteraria, quand’era al centro di scatenanti dibattiti civili, in cui Pier Paolo Pasolini non si richiamasse agli anni friulani, a quella straordinaria, lunga e varia stagione in cui aveva scoperto il mondo contadino, s’era immerso nel suo utero linguistico, era vissuto tra una gioventù incontaminata, aveva infine condiviso l’ardore delle lotte dei braccianti e dei mezzadri.
Il ’43, anno dell’abbraccio al Friuli dopo tanti soggiorni episodici nel paese materno, rimane per Pier Paolo, nonostante le tragedie della guerra e lo sfollamento dalla città, “uno degli anni più belli” della sua vita.
Casarsa era già stata, con le prime poesie friulane, topos del vagheggiamento giovanile di una terra romanza mitica, pura, immersa in immutabili cicli stagionali e in un’antica innocente cristianità. La permanenza, prima nella casa materna dei Colùs e poi nel borgo rurale di Versuta, discosto dalle insidie dei bombardamenti, trasforma gradualmente quei momenti lirico-elegiaci e idillici, stempera il mito assumendo consistenza storica nell’humus contadino e nella vita materiale. Il gruppo di “fantassìns” che si avvicina a Pier Paolo per un’esigenza di istruzione, e che nel febbraio del ’45 forma il nucleo dell’Academiuta, diventa esperienza di vita, operazione di interscambio culturale tra maestro ed alunni, inserimento pieno nell’ambiente. Il friulano casarsese, “lingua pura per poesia”, supera l’ipoteca vernacolare e borghese ottocentesca, trova linfa e freschezza nei componimenti di ragazzini scalzi coll’odore di letame nei calzoni corti e rattoppati. [...]
Nel ’72, in una trasmissione televisiva condotta da Enzo Biagi, Pasolini indica in quella stessa sfera di persone, conosciuta in Friuli e poi dilatata alle borgate romane e poi ancora estesa al terzo mondo, i portatori dei suoi valori culturali:
“Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica in questa mia affermazione: non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese [...] è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice”.
Immagine articolo Fucine MuteCol nostro lavoro di raccolta di testimonianze abbiamo ripercorso a ritroso il cammino di Pier Paolo Pasolini, la sua nostalgia d’una società non ancora intaccata e corrosa dallo sviluppo capitalistico negatore di vero progresso, le sue coordinate di vita e di valori, le sue opzioni fuori dal Palazzo e dall’omologazione consumistica. Abbiamo deciso di dar voce alla “meglio gioventù” che popolava i campi del Friuli e ne gremiva le piazze, di riascoltare quelle aspirazioni, di capire quanto Pier Paolo stesso avesse inciso in quella realtà. [...]
Le testimonianze qui raccolte, pur di allievi marginali o di persone direttamente coinvolte, riconducono l’Academiuta in un alveo naturale di disponibilità e carica umana del promotore, di vivificazione d’una cultura “altra”, di azione per l’emancipazione di ragazzi rimasti esclusi dalla stessa istruzione pubblica. [...]
Si è cercato così di dar voce alla realtà di quegli anni friulani dal basso, senza mediazioni o interpretazioni, pur dovendo accorpare e ricomporre i segmenti del discorso e i salti temporali e tematici. [...]
Le testimonianze sono state poste in veste di racconto più che di intervista, eliminando o comunque riducendo le interruzioni dovute alle domande.

Alcune delle testimonianze raccolte da Giuseppe Mariuz

Walter Bearzatti di San Martino e Marianna Leonarduzzi di Domanins
Walter: Noi, allievi “pasoliniani” della Scuola media di Valvasone negli anni 1947-48 e ’48-49, ci ritroviamo ogni anno magari per una pizza. Lo facevamo anche quando il nostro professore era vivo, è lui che ci ha insegnato la solidarietà, il valore dello stare insieme. [...]
Lo abbiamo sempre giudicato per quello che ci ha dato, veramente tanto. Era per noi il fratello maggiore. Qui, presso l’osteria della mia famiglia, lui qualche domenica veniva anche a cena, e poi si fermava a ballare. Aveva simpatia per una ragazza di nome Lida, che ora vive a Milano. Se gli veniva l’ispirazione, mollava il ballo, prendeva la borsa che portava sempre con sé a cavallo della bicicletta e andava a battere sulla macchina da scrivere che il prete gli prestava. Poi tornava a ballare.
Aveva tanta umanità e disponibilità. È lui che al pomeriggio, dopo scuola, ci ha insegnato a giocare al pallone, in particolare il doppio passo alla Biavati. Aveva ampia visione di gioco ed era velocissimo all’ala. Siamo andati con la nostra squadra in bicicletta, in fila indiana, a giocare a Sacile e anche al don Bosco di Pordenone; al ritorno, ai Tortiglioni di Casarsa, ha pagato di tasca propria il gelato a tutti noi.
Era contrario ai giocattoli comperati, preferiva che prendessimo un cartone o una tavola e ci applicassimo due ruote di legno, per sfruttare la fantasia, se no, lo diceva lui, si diventa idioti.
Ci rendeva la scuola leggera. C’era un alunno di nome Giancarlo Mantovani, noi lo chiamavamo Monte Grappa per la sua testa grossa. Un giorno Pasolini spiegava i complementi di argomento e lo aveva chiamato alla lavagna; gli ha fatto tradurre “Cicero disputavit de dura cervice Mantovani”. Insegnava il latino anche attraverso battute e vignette.
Immagine articolo Fucine MuteAveva la poesia nel sangue. Durante un’ora di lezione. per esempio dalle undici a mezzogiorno, ci chiedeva di inventare dei versi.
Marianna: Ci rimangono quei due anni completi [1947-49], un’esperienza indimenticabile, ricordi bellissimi. Per noi, fondamentalmente, era il professor Pasolini, con tutto il suo bagaglio di cultura. Lo ricordo ancora quando arrivò, in biclicletta e con i pantaloni alla zuava: era giovane e asciutto.
Un giorno ho scritto due poesie, ne ricordo ancora una:
A sùnin li ciampanis
a sùnin plan planin
e il siò sun al si spiert
come ussièi in ta l’aria
a sùnin li ciampanis
a sùnin plan planin.
(Suonano le campane / suonano pian piano / e il loro suono si sperde / come uccelli nell’aria / suonano le campane / suonano pian piano)
Questa l’avevo passata all’Annì, e io mi ero tenuta l’altra, ma lui si è accorto e le ha detto: “Ma questa non è tua, è di Mariannina!”.
Walter: Io ne avevo scritta una su un cardellino, chiuso in una gabbia dai ferri argentei. Lui mi ha detto che lo aveva colpito quel “ferri argentei”.
Ci spiegava anche la metrica.
[...]
Quando eravamo stanchi, ci leggeva dei brani di Cechov come La steppa, e di Tolstoi…
[...]
Ci spiegava anche i film che uscivano, come Ladri di biciclette; andava a vederli a Udine, con una bicicletta che avrà pesato due quintali.
Marianna: A primavera ci portava fuori, in campo sportivo, a studiare. Noi stavamo seduti in circolo, e lui in mezzo ci faceva lezione. Non ci distraevamo, perché aveva un forte potere di attrazione e quasi ci incantava.
Non si creda che fossimo plagiati. Avevamo il piacere di studiare e il piacere di dargli soddisfazione, perché lui lo desiderava. Con qualche eccezione, s’intende. Un giorno ci aveva assegnato di comporre delle frasi, ma noi eravamo svogliati. Quando è passato per i banchi e si è accorto che nessuno aveva lavorato, si è trasformato: tremava la mascella, stava zitto a guardar fuori. Non si sentiva volare un mosca, e ci siamo vergognati per avergli dato un dispiacere. Era un metodo di insegnamento che ci coinvolgeva, perché non ci trattava solo da alunni, ma molto di più.
Walter: Aveva preparato un testo di teatro, che avremmo dovuto recitare. Eravamo pronti per la rappresentazione in estate, quando abbiamo saputo che non l’avremmo più avuto come insegnante.
Marianna: Il soggetto era un allievo discolo e poco diligente, che una notte aveva fatto un sogno. L’allievo era interpretato dal compagno di classe, Masut, poi c’era la sua coscienza, impersonata dalla Benvenuti, ora morta e la madre, l’Annì. Io, forse per la statura piccola, ero la virgola che bisognava mettere dopo la parola e Walter rappresentava gli errori blu. Riassumendo la trama, il protagonista veniva assalito dagli incubi per non aver studiato: c’erano un castello, un sole forte e battente a mezzogiorno, dei rimbombi tutt’intorno.
Walter: Noi alunni vorremmo recuperare quel lavoro teatrale, chissà se esiste ancora tra le carte pervenute agli eredi.


Luigi (Gigion) Colussi “Socolari” di Casarsa

Io ero di famiglia contadina, possedevamo della terra e questa casa. Mio padre aveva anche ottenuto una licenza di osteria, grazie al fatto che era invalido di guerra.
I Pasolini venivano a Casarsa in estate, nella casa qui di fronte dei Colussi “Batistons” — della madre, delle zie e della nonna di Pier Paolo — e in pratica ci siamo sempre conosciuti. È da loro che ho ascoltato la prima radio, non ce n’erano altre. Io mi sedevo nel giardino esterno, non potevo entrare, perché ero vestito male e avevo un certo ritegno. Loro erano di famiglia più elevata, ma Pier Paolo stava bene con tutti, era sempre a torzeòn (in giro). Giocava anche al pallone, nella squadra del Casarsa; era allora molto giovane, non aveva compiuto vent’anni. C’era severità anche nello sport, entrava in campo solo una cerchia ristretta, e poi, chi aveva i soldi per comperare le scarpe da pallone? I giocatori, compreso Pier Paolo, si spostavano in trasferta in bicicletta, a Spilimbergo, San Daniele, Codroipo, San Vito. Suo fratello Guido, più giovane, era bonaccione, sempre sorridente, ma si vedeva più di rado. Il padre di Pier Paolo e di Guido, quando veniva a Casarsa, era piuttosto solitario, non integrato nell’ambiente. Nella stessa casa abitava anche il cugino Nico Naldini, che era spesso con noi, specie con mio fratello. Il padre di Nico era grande invalido della prima guerra mondiale e la madre, zia di Pier Paolo, gestiva un botteghino dove vendevano un po’ di tutto, dai quaderni ai reggipetti.
In tempo di guerra abbiamo formato il Coro. Eravamo una dozzina e facevamo le prove nell’asilo delle suore, in una sala presso la cappella, dove c’era un pianoforte. Pier Paolo Pasolini era il direttore e scriveva i testi, la Kalz componeva la musica e suonava il pianoforte. Era tutto inventato in casa, in friulano. Io ero allora il più giovane del gruppo, poi c’erano fra gli altri Jacumin Fantin, Bepi Castellarin, Angelin Bertùs, Onorio Vis’cia, Leo Vis’cia, quelli del Gialùt. Pier Paolo aveva scritto dei versi, segnando le nostre caratteristiche:
Il miej “prin” a l’è Gigiòn
cu na vous di gardilin;
il miej bas a l’è Angelìn
cu ‘na gola da canon.
(Il miglior “primo” è Gigion / con una voce da cardellino / il miglior basso è Angelin / con una gola da cannone.)
E poi:
La maestra a è pissuluta
ma a è duta di oro fin.
Ultin, un ch’a ti combina
li vilotis cun murbin.
(La maestra è piccolina / ma è tutta d’oro fino. / Ultimo, uno che ti compone / le villotte con morbino.)
Andavamo in giro, in particolare ricordo una volta a Zoppola, dove abbiamo tenuto uno Spetaculut durante un intero pomeriggio, presso il palazzo del conte in una gran sala piena di gente seduta a terra. Era una giornata piovosa, in tempo di guerra, ed eravamo partiti su un carro trainato da cavalli e coperto da frasche e da un telo, come i coscritti. Durante il percorso, di tanto in tanto guardavamo fuori, per controllare che non arrivassero aeroplani a bombardare. Il conte, felicissimo, ci ha portato da bere su boccali e scodelle. Non c’era altro, a quei tempi. L’asilo, poi, è crollato sotto i bombardamenti. Anche un pezzo di casa nostra è andato bruciato il 20 febbraio del ’45, e un’altra parte è stata buttata giù. Qui siamo sfollati tutti, noi prima dai Colussi “Socolaris” in Via Pordenone, poi il 4 marzo nel borgo Majaroff tra i campi. Pier Paolo e famiglia erano a Versuta, e non ci siamo visti per un pezzo.
Dopo la guerra la loro casa qui di fronte, con annessa distilleria, è stata rimessa a posto, comunque non aveva subito gravi danni e aveva mantenuto la stessa impronta. L’Academiuta aveva sede in una stanza un po’ tetra, con qualche tavolino e alcune seggiole. Eravamo in parecchi, quindici sedici: facevamo traduzioni, leggevamo e imparavamo a scrivere e a comporre in friulano, con accenti, virgole, punteggiature.
Un fine carnevale, subito dopo la guerra, abbiamo organizzato una mascherata su un carro. Pier Paolo ha scritto il testo di una piccola rappresentazione: io, lungo e magro, impersonavo la quaresima, con una gonna lunga di mia nonna; Bepi Castellarin, grosso e imbottito, faceva il carnevale, caccando frìssis (cicciole) e bevendo, poi c’era Vis’cia con aringhe appese. Giravamo per piazze e paesi intorno, interpretando ognuno la parte che ci era stata preparata. La gente scoppiava dalle risate. Le strade e le piazze erano piene di giovani, non c’erano macchine né altri divertimenti. E abbiamo continuato a girar anche fuori stagione, in quaresima. [...]
Dopo la partenza dal Friuli, Pier Paolo Pasolini ha mantenuto contatti amichevoli, come sempre. Quando tornava a Casarsa veniva sempre qui a trovarci, un giorno è arrivato con la Callas. Io di politica non mi sono mai interessato, parlavamo del più e del meno, ricordavamo quegli anni.


Dino Peresson di Ligugnana

[...]
Immagine articolo Fucine MuteCe l’ho ancora davanti agli occhi al Tagliamento: piccolo, atletico e muscoloso, peloso come una ruga. In estate ci trovavamo spesso a nuotare, tra Rosa e Carbona, in dieci, quindici, venti. Per noi era un periodo transitorio: non studiavamo più e lavoro non ce n’era. Lui era il più anziano, gli altri della sua età erano all’estero, avevano il peso d’una famiglia. La sera, al ritorno, rubavamo qualche pesca, un po’ d’uva aspra, quel che si poteva trovare nei campi, e via. Pier Paolo cercava di farci capire quello che non sapevamo, di letteratura, di pittura. Con noi parlava sempre in friulano. Solo in caso di necessità, con altra gente che non capiva, usava il dialetto [veneto di terraferma] o l’italiano. Era un comunista per cercare l’uguaglianza, perché questa gente potesse vivere meglio. La chiesa allora difendeva i padroni, non di certo noi. Pier Paolo non ce l’aveva su con la religione, ma con quelli che la predicavano male. Gli piaceva stare con noi semplici, ci sentiva di sentimenti sinceri, sani da cima a fondo, onesti anche se rubavamo una zucca, era per non morir di fame. Se c’era una scodella di vino, si divideva fra tutti.
Faceva le battaglie per i contadini perché li ha visti soffrire, nella loro miseria e anche nella sottomissione ai padroni. Non voleva eliminare i padroni o la proprietà, ma che tutti potessero vivere con dignità. Non l’ho visto partecipare direttamente alle lotte contadine, ma si informava e forse guidava il movimento assieme ai responsabili sindacali e politici, in particolare a Galante, grande trascinatore.
Io ho partecipato alle lotte, all’occupazione di palazzo Rota, di palazzo Alborghetti e di palazzo Tullio. A palazzo Rota si è verificato qualche saccheggio ed è stato causato qualche danno: hanno rotto un sacco di zucchero, portandone via un po’ ciascuno, han dato fuoco alle palme. Galante, Guardabasso e gli altri responsabili hanno subito bloccato queste azioni, per non passare dalla parte del torto. Volevamo solo lavorare, essere occupati anche solo stagionalmente come braccianti nelle opere di miglioria dei fondi. Tullio è stato il primo a firmare il patto. Abbiamo anche invaso il palazzo del Comune. Ero presente a Cordovado alle cariche della polizia, ho soccorso uno dei nostri, Giacomo Zannier, colpito col calcio del fucile. Io, mio fratello e Dario Scodeller l’abbiamo preso nella strada e portato nella villa dei Sigalotti che non volevano riceverlo. Quel giorno eravamo di ritorno da Palazzolo dello Stella, dove avevamo scioperato a sostegno di quei braccianti rovinati dai crumiri arrivati proprio da San Vito. E anche là c’erano stati scontri con la polizia.
Il giorno seguente a San Vito c’è stata una manifestazione imponente. È arrivato anche l’esercito a presidiare i palazzi, ma non si sono verificati altri scontri.


Guglielmo Susanna di San Giovanni

Quando hai conosciuto Pier Paolo Pasolini?
Credo a Versuta, dove è arrivato come sfollato, ma fors’anche prima a Casarsa, dove andavo a lavorare con mio padre pittore. Ma l’amicizia vera è venuta dopo, quando avevo diciott’anni.
Tuo padre, a suo tempo, riferì d’aver mandato i suoi figli a lezione da Pier Paolo…
Sì, durante la guerra, prendevamo lezioni a Versuta, in una casa che credo fosse dei Cicuto. Lui aveva una stanza, ci faceva scrivere poesie, in italiano e anche in friulano; e poi ci insegnava a scrivere in prosa, a comporre dei temi, a leggere, un po’ di tutto…
In quanti eravate?
Mediamente, credo, dieci-dodici, di San Giovanni e soprattutto di Versuta, perché i ragazzi di lì avevano più comodità di frequentarla.
Era un scuola gratuita?
Mah, gli davamo qualcosa, generalmente in natura. Mio padre, credo sia andato a imbiancargli le stanze. Della mia famiglia, ha frequentato quelle lezioni anche mia sorella. Con noi veniva Pompeo Ricci.
Come funzionava?
Eravamo seduti intorno a una grande tavola, lui si alternava dai più giovani ai più vecchi, non era una lezione unica. Ai più preparati e ai più grandi, tra i quali c’ero anch’io, insegnava cose più impegnative.
Era molto chiaro nelle spiegazioni, ci faceva entrare i concetti…
Immagine articolo Fucine MuteCi ha insegnato a capire la poesia, la sua atmosfera. E l’arte. Ci lasciava parlare, esprimere il nostro punto di vista, poi interveniva, con molto rispetto. “Tu esageri sempre”, mi diceva, quando tentavo di estremizzare.
Poi, siete diventati amici…
Bisogna saltare due tre anni, quando anch’io ho incominciato ad andar a ballare, e abbiamo formato un’unica compagnia. [...] Erano begli anni, ma presto tutto s’è disciolto. Qui non c’erano prospettive per i giovani senza mestiere, né per i contadini. E chi aveva un mestiere, dopo anni e anni di garzonato, si trovava con paghe misere. Non restava che andare all’estero. Molti sono partiti subito, poi è stata la nostra volta: Archimede in Svizzera, io in Sudamerica, altri in Canada.




Il lavoro di Giuseppe Mariuz di raccolta di testimonianze dal basso ripercorre a ritroso nel tempo e specularmente la lunga e varia stagione “friulana” di Pier Paolo Pasolini (1943-1949) e consente di rileggere le ragioni del suo attaccamento ad un mondo non ancora corroso da uno sviluppo capitalistico e consumistico negatore di vero progresso civile, i suoi riferimenti di vita e di valori, le sue successive opzioni fuori dal Palazzo e dall’omologazione.
I ragazzi che si avvicinano a Pier Paolo per un’esigenza di istruzione, e che nel febbraio del ’45 formano il nucleo dell’Academiuta di Lenga Furlana, scoprono quasi con incredulità il proprio potenziale linguistico e letterario e nel contempo avvertono col loro educatore una comune esperienza di vita e un’operazione di interscambio culturale.
Il corpo centrale delle testimonianze ruota intorno a quella gioventù diseredata che popolava la campagna friulana e che assumeva in sé impeto, entusiasmo, spontaneità, candore.
Si è data voce alla “meglio gioventù” che popolava i campi del Friuli e ne gremiva le piazze, si sono ascoltate storie di vita e aspirazioni di persone entrate nella biografia e nelle opere letterarie di Pier Paolo Pasolini, cercando di capire quanto egli stesso avesse inciso in quella realtà. Se da un lato andavano precluse le tentazioni alla leggenda, all’oleografia e all’aneddotica, dall’altro si è tenuto conto di ricomporre un quadro di memorie storiche che fosse il più possibile fedele a quei valori e non alterato dall’influsso delle trasformazioni economiche, sociali e antropologiche avvenute nel corso di oltre quarant’anni.
Ne esce una figura di Pier Paolo pienamente inserita nel contesto ambientale e sociale, con qualità che sommano, in un tutto indistinto e sinergico, ammaestramento letterario e civile, vita di relazione e divertimento: invenzione di poesie e balere, manifestazioni di piazza e nuotate nel favoloso Tagliamento.

Fonte:
http://www.fucinemute.it/1999/07/la-meglio-gioventu-di-pasolini/


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mercoledì 1 gennaio 2014

La Regina Esigente e la Madre Consolatrice - di Sandra Bardotti

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro




La Regina Esigente e la Madre Consolatrice
di Sandra Bardotti

La crisi ideologica che, negli anni Sessanta e Settanta, ha portato Pasolini fino alla sfiducia testimoniata dagli Scritti corsari e dalla Lettere luterane, oltre che dalla produzione poetica, narrativa, teatrale e cinematografica, fu una profonda crisi personale, che portò alla rottura con una grande personalità che si era legata a lui con un vincolo di affetto profondo e intimo, Elsa Morante. Non ha senso cercare di stabilire quale delle due sia maggiormente rilevante. Credo sia solo possibile affermare che furono concomitanti, che l’una coinvolse l’altra. Sicuramente il distacco dalla Morante fu un momento molto difficile per Pasolini, perché coinvolse e mise in crisi anche la visione di intellettuale e di uomo che egli aveva di se stesso.
Pasolini e la Morante si conobbero verso la metà degli anni Cinquanta, e la loro conoscenza fu mediata dalla figura di Alberto Moravia. L’ammirazione di Pasolini per la scrittrice si manifesta già nel 1953, quando egli ha la possibilità di leggere Lo scialle andaluso, apparso su ‹‹Botteghe oscure››. È tra il 1953 e l’anno successivo, dunque, che si deve collocare l’incontro personale, testimoniato dall’epistolario pasoliniano. Subito tra i due scatta una reciproca stima, ma anche un dialogo produttivo che non risparmia critiche e biasimi; insomma, un rapporto di sincera amicizia. La frequentazione si fa assidua soprattutto durante gli anni Sessanta, e nel 1961 l’amicizia si era consolidata a tal punto che i tre organizzarono insieme un viaggio in India. Di questa esperienza rimangono le testimonianze di Pasolini (L’odore dell’India) e di Moravia (Un’idea dell’India), così diverse tra loro, che documentano due approcci assai distanti al paese visitato. Indicativo è che Pasolini si presenti più solidale con le idee di carità che Elsa mostra di avere, rispetto al maggiore realismo scettico dell’amico Moravia. “La fraternità si cementa in una comune appartenenza alla razza di coloro che hanno ‹‹come ideale della vita, quello di svuotare con un ditale il mare››[i][ii]. Anche se il realismo dei primi romanzi romani pasoliniani sembra così diverso dall’indagine psicologica con cui sono indagati i personaggi delle borgate romane nei romanzi della Morante, un filo sottile lega i due scrittori. È l’amore per i ragazzini, per una società sottoproletaria che appare ancora incosciente dei cambiamenti messi in atto dal nuovo Potere consumistico, che attraversa i loro romanzi. Il discorso potrebbe essere più chiaro se analizzassimo il significato che il concetto di “barbarie” viene ad assumere nell’opera di entrambi, ma non è questo il luogo per affrontare un parallelo che pure si rivelerebbe interessantissimo; per chi volesse approfondire l’argomento preferiamo rimandare al bel saggio di Massimo Fusillo[iii]. Basterebbe la testimonianza dell’incipit de Il pianto della scavatrice: “Solo l’amare, solo il conoscere / conta”[iv], che omaggia il morantiano “Solo chi ama conosce”[v](Alibi), per capire la comunione di visione e le corrispondenze che si venivano a creare tra i due poeti. Si tratta di un’adulazione reciproca, di un omaggiarsi a doppio senso, di rispecchiamenti continui dell’altro nella propria opera. Per celebrare l’amica, Pasolini le dedica anche il volume La religione del mio tempo, uscito nel 1961.
Pasolini deve essersi presentato alla Morante, fin dai primi momenti della loro amicizia, come un nuovo Rimbaud. Del resto, egli è uno dei pochi autori del nostro Novecento che abbia ripetuto un’esperienza così rivoluzionaria come fu quella di Rimbaud un secolo prima. La sua genialità, la sua precocità colpirono immediatamente una donna così sensibile e attenta al mondo letterario. Poi ci fu la comunanza di motivi, temi, intenti: Pasolini le appariva come colui che avrebbe potuto, come Rimbaud, accusare con violenza inaudita il mondo del nuovo capitalismo, dare una scossa a tutta la società borghese che stava procedendo al genocidio del mondo sottoproletario, svelare con la forza della sua parola l’inganno che si celava dietro l’apparente benessere. Già in Poesia in forma di rosa, però, Elsa scorgerà una radice narcisistica e una vena di populismo che non apprezzerà. Così, dopo aver letto Poesia in forma di rosa, nel 1964, scrive e invia all’amico un testo “scherzoso”, Madrigale in forma di gatto, un calligramma in cui lo accusa di ipocrisia, di finto amore, di malafede ideologica:

La rosa è la forma delle beatitudini.
Beata l’angoscia in forma di rosa.
Beato il disordine e la libidine sanguinosa
la passione di sé invereconda gli eccessi di velocità e
le orge funebri
il nero rifiuto dello sposalizio le bandiere dell’oltran-
za le corazze dell’ignoranza
i vari equivoci dell’egoismo le mascherate degli
stracci
le carità pretestuose le immondizie deificate
i pregiudizi di casta l’alibi storicistico
le complicità attuali, l’adorazione ai padri farisei, la
paura della castrazione
il candido tradimento il pianto vantone
la corda sentimentale e la spada della ragione
beate le secrezioni i visceri della letteratura l’oratorio
la mistificazione
quando finalmente s’aprono in forma di rosa!
Il ragazzo che si intende protagonista del mondo
(protagonista anche se bandito, anzi di più perché bandito…
starà sempre beato al centro della rosa.
E lui beato ignorerà gli altri peccatori al bando della rosa
e al bando di se stessi
non protagonisti del mondo
non leggenda di se stessi
soli senza nessun addio. Agonie senza nessun pianto
e nessuna rosa
Il gatto che non crepa[vi]
Non sono accuse da poco. Sostanzialmente Elsa accusa Pasolini proprio di falso amore verso il sottoproletariato, di narcisismo e protagonismo. A ciò si aggiungerà uno screzio ancora più grande: quando l’Arco Film si rifiuta di pagare due attori amici di Elsa che avevano partecipato al Vangelo secondo Matteo, e Pasolini non fa niente contro la casa di produzione cinematografica, scriverà all’amico:
É chiaro che aspettarsi un simile rispetto da parte di quegli immondi stronzi dell’Arco Film era utopistico, per non dire cretino, giacché loro non rispettano che la merda (cioè proprio quelle poche miserabili lire che tu dici). Almeno avrei voluto che tu, con la tua autorità, gli facessi almeno mettere il muso nella merda loro, almeno per un momento, e che si vergognassero almeno (loro stessi per la loro parte in quanto persone) della loro merda ecc. ecc. […] E tu sai benissimo che il pagare di tua tasca (o io di mia tasca) qui non significa niente […]. Perciò anche se tu fossi miliardario (e purtroppo non lo sei) non potrei accettare i tuoi soldi […]. L’ombra che tu dici sulla nostra amicizia lo sai benissimo non è il debito tuo, che fra l’altro non esiste; ma ‹‹l’adorazione ai Padri Farisei›› come ti avevo già scritto nella poesia. Ma non è vero che questa è la prima volta che c’è quest’ombra.[vii]
Elsa, dunque, gli rimprovera una complicità con i padroni, l’incapacità di opporsi alla forza capitalistica; accusa durissima per un poeta civile che tutto voleva mostrare di essere tranne che un borghese omologato e consumista come gli altri. L’immagine che Elsa si era costruita di Pier Paolo continuerà a sgretolarsi col tempo. Intanto, siamo arrivati alla metà degli anni Sessanta e, nonostante queste polemiche tra i due, si può affermare che è il periodo di maggiore vicinanza ideologica. Entrambi sono in disarmonia con il mondo, ma mentre Pasolini sembra spinto a scrivere e produrre sempre di più come se si trattasse di una competizione contro la società del Potere, Elsa se ne sta da parte facendosi scudo con il suo ammaliante umorismo. Mentre Pasolini accusa e respinge quella società che continuamente lo esclude, Elsa ama chi la odia e non chiede niente in cambio, come amano le madri. Mentre Pasolini cerca di rinnegare la sua appartenenza piccolo-borghese con lo strumento della rimozione, Elsa usa quello della parodia innamorata.
Dopo il 1969 i contrasti subiscono una chiusura comunicativa e cessano di essere dispute produttive e stimolanti per entrambi. La Morante si sente sostanzialmente delusa. Pasolini non si è rivelato essere quell’uomo che lei aveva dipinto, quel geniale Rimbaud forte della sua maledizione. Pasolini era diventato insopportabile nella sua angoscia di sentirsi sempre messo sotto accusa. Si sentiva escluso e condannato anche quando non lo era, e avvertiva il bisogno di difendersi continuamente. Si ripiegava sempre più su se stesso, e aveva abiurato per sempre quella vena poetica così pura delle poesie friulane e delle Ceneri. Alla Morante sembrava che egli perdesse tempo inutilmente. D’altra parte, lui si sentiva chiuso nel rimorso di non essere stato all’altezza di quella figura che lei aveva creato di lui. Si sentiva sopravvalutato da Elsa, e ciò gli provocava il vergognoso rimorso di non essere riuscito a soddisfare le sue aspettative.
Nel 1971, dopo l’uscita di Trasumanar e organizzar, Elsa scriverà una lettera per cercare di sottrarsi al ruolo di “Regina Esigente” che Pasolini le aveva attribuito:

Si sa che ogni spiegazione è inutile.
Tanto l’altro spiega la nostra spiegazione
con la sua spiegazione. E così l’equivoco
gira in eterno. Ma questo è bene in fondo
come in fondo tutto è bene […].
A ogni modo (anche se NON ‹‹a scanso di equivoci››)
io qui m’affanno a comunicarti
quello che tu vuoi negare: insomma che
non rimprovero NIENTE A NESSUNO
e tanto meno a te. […]
[…] Io rimprovero solo ME, per una cosa
e anche me, per quella sola (ti avverto
che se credi d’averla indovinata ti sbagli).
È la sola cosa che non c’è nel tuo libro
che pure è un libro disperato.
Disperato ma beato
perché quella cosa non c’è
(e se credi d’indovinarla ti sbagli).
Il tuo libro è disperato-beato perché sì. Dentro
c’è Pier Paolo
e Ninetto e Maria e pure Elsa
(benché solo l’Elsa che tu vuoi conoscere
e cioè dico la pura la
inconcussa Oh Dio
essa è concussa e invece impura
ecc. ecc.
Ma tu beato vuoi che gli appartenenti
a Pier Paolo
siano come Pier Paolo li vuole
e hai ragione. BADA! HAI RAGIONE!!
? Forse il solo modo di farli esistere (gli altri)
È questo: il tuo).
A ogni modo, nel tuo libro c’è Pier Paolo
e basta[viii]
La Morante testimonia dunque l’impossibilità di un dialogo con Pasolini, perché quest’ultimo non riesce più ad ascoltare gli altri e a instaurare un confronto. Nelle sue poesie c’è solo lui, solo il suo narcisismo, e non c’è posto per gli altri. Al massimo vi si sente l’eco di altre persone a lui care e vicine, ma la loro immagine risulta sempre filtrata e deformata dalla presenza di un Ego assoluto e totalizzante, padrone incontrastato della scena. Così Elsa gli rivela anche di non essere la pura e inconcussa che egli credeva, né tantomeno colei che crede di avere l’autorità di rimproverare qualcuno.
Poi, nel 1971 Ninetto decide di sposarsi. È questo l’anno della crisi definitiva con la Morante. Pasolini si sente abbandonato, tradito dall’amico, e lo accusa di aver voluto seguire la propria natura allontanandosi da un “dovere” che aveva nei suoi confronti. Ad agosto scrive a Volponi:
Dopo quasi nove anni Ninetto non c’è più. Ho perso il senso della vita. Penso soltanto a morire o a cose simili. Tutto mi è crollato intorno: Ninetto con la sua ragazza, disposto a tutto, anche a tornare a fare il falegname (senza battere ciglio) pur di stare con lei; e io incapace di accettare questa orrenda realtà, che non solo mi rovina il presente, ma getta una luce di dolore anche in tutti questi anni che io ho creduto di gioia, almeno per la presenza lieta, inalterabile di lui. Ti prego, non parlarne con persona al mondo. Non voglio che si parli di questa cosa. Tu e Elsa siete i soli (con Nico) che lo sanno. Può darsi che io riesca a vivere ancora.[ix]
Elsa sta dalla parte di Ninetto, sostiene il suo diritto a innamorarsi di una donna, e dice a Pasolini che amare vuol dire desiderare il bene di chi si ama, senza chiedere niente in cambio. Chi gli aveva finora dato sostegno e garantito forza vitale se ne va, lasciandolo solo. Egli non sopporta di restare solo con la propria diversità. Così, proietta sulla Morante il fantasma della “Madre Consolatrice”. Sa che la verità della Morante, della Madre, è superiore, ma proprio come un bambino non vuole accettarla.
Il ritratto che Pasolini ci offre di Elsa in Petrolio dimostra come l’amica sia stata un centro focale fino agli ultimi anni, e quanto la sofferenza provocata dal suo abbandono abbia inciso anche nelle scelte formali della sua ultima produzione. Viene detto subito di lei che aveva “il viso di giovane gatta”[x], e anche i caratteri psicologici le appartengono inequivocabilmente (“padrona del proprio pensare, per quanto il suo fondo potesse essere passionale, viscerale e tempestoso”[xi]). Tutta impegnata nella sua opera di carità nei confronti di un ragazzino alquanto bruttino, ma che a lei doveva sembrare bellissimo, non sta ad ascoltare l’amico. Lei non sta mai a sentirlo, per tutta la durata della loro amicizia; questo è quello che Pasolini, da figlio, le rimprovera. Lui ha un segreto di incalcolabile valore storico che vorrebbe donarle, perché è stata lei stessa a porsi nel mondo come una che non ha nulla da perdere. Ma lei rifiuta lo scambio, rifiuta di prendersi questo peso. Pasolini le rimprovera anche di non essersi mai schierata al suo fianco nelle battaglie sostenute contro le istituzioni e la politica, di essere sempre stata passiva.
Credo sia possibile che il recupero dell’opera di Rimbaud nell’ultimo Pasolini, di cui ho già parlato nel saggio Una lunga stagione in inferno: Rimbaud nell'opera di Pasolini, edito in Studi pasoliniani (n. 3, 2009), sia dovuto alla volontà del figlio-Pasolini di dimostrare alla madre-Elsa che l’immagine che lei aveva sempre dipinto di lui era vera. Come un bambino che voglia dimostrare alla madre il suo amore. La nega, la accusa, ma nello stesso tempo le ubbidisce. Tutto come nel più comune dei rapporti madre-figlio. Questa è la motivazione che abbiamo intravisto nel recupero di Rimbaud da parte di Pasolini, perché non è da sottovalutare l’importanza della figura della Morante in tutta la vita di Pasolini. È lei la donna più importante della sua vita, dopo la madre; e ai suoi pensieri, accuse o lodi, dedicherà sempre un’attenzione particolare.
Ne Lo scialle andaluso si racconta di un bambino che desidera diventare santo, e ci rinuncia per amore della madre. I due vivono una vita mediocre, con lei “convinta che lui sia destinato a qualcosa di grande”[xii]. Sembra che già in questo racconto giovanile lei sia stata capace di prefigurare quell’amicizia che nacque e si sviluppò con Pasolini alcuni anni dopo. Forse sentiva che sarebbe arrivato un “figlio” che avrebbe incrociato il suo cammino, che l’avrebbe riempita di gioie e di dispiaceri, che avrebbe tentato di intervenire nel mondo con la sua parola e di scongiurare l’ecatombe borghese come lei non era riuscita a fare. Forse era proprio lei che cercava questo nuovo Rimbaud, e lo aveva espresso già in questo racconto. Pasolini all’inizio fu in grado di assolvere questo compito, ma poi si rivelò troppo preso da sé e dalle sue angosce.
Si tratta solo di uno spunto di lettura, che rivela ancora una volta quanto sia divertente fare critica letteraria.


[i]P. P. Pasolini, L’odore dell’India; in P. P. Pasolini, Romanzi e racconti , a cura di W. Siti e S. De Laude, Meridiani Mondadori, Milano 1998, vol. I (1946-1961), pag. 1233.
[ii]W. Siti, Elsa Morante nell’opera di Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, a cura di C. D’Angeli e G. Magrini, Studi Novecenteschi, Giardini Editori e Stampatori in Pisa, pag. 134.
[iii]M. Fusillo, ‹‹Credo nelle chiacchere dei barbari››. Il tema della barbarie in Elsa Morante e in Pier Paolo Pasolini, in Vent’anni dopo La Storia. Omaggio a Elsa Morante, cit., pagg. 97-129.
[iv]P. P. Pasolini, Il pianto della scavatrice; in P. P. Pasolini, Tutte le poesie, a cura di W. Siti, Meridiani Mondadori, Milano 2003, vol. I, pag. 833.
[v]E. Morante, Alibi; in E. Morante, Opere, a cura di C. Cecchi e C. Garboli, Meridiani Mondadori, Milano 1988, vol. I, pag. 1392.
[vi]Il testo è pubblicato da N. Naldini in P. P. Pasolini, Lettere 1955-1975, Einaudi, Torino 1988, pagg. LXXXIX-XC.
[vii] Ibidem, pag. CLXXIII.
[viii] Ibidem, pagg. CXXXVI-CXXXVII.
[ix] Ibidem, pag. 707.
[x]P. P. Pasolini, Petrolio, a cura di Silvia De Laude, Oscar Mondadori, Milano 2005, pag. 27.
[xi] Ibidem, pag. 27.
[xii]E. Morante, Lo scialle andaluso; in E. Morante, Opere, cit., vol. I, pag. 1578.

Fonte:
@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare

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