"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
L’AMBIGUITÀ DEL TERZO MONDO: IL RIMPIANTO DRAMMATICO DI PASOLINI
Di Tiziano Toracca e tratto da:
«GIÀ TROPPE VOLTE ESULI»
LETTERATURA DI FRONTIERA E DI ESILIO
a cura di
Novella di Nunzio e Francesco Ragni
Tomo II
Università degli studi di Perugia
La sirena neocapitalistica da una parte, la desistenza rivoluzionaria dall’altra: e il vuoto, il terribile vuoto esistenziale che ne consegue. Quando l’azione politica si attenua, o si fa incerta, allora si prova la voglia dell’evasione, del sogno (“Africa, unica mia alternativa”).
(P.P. Pasolini, Salinari: risposta e replica )(1)
1. Linee d’intervento
Io sono una forza del Passato.
Solo nella tradizione è il mio amore.
Vengo dai ruderi, dalle chiese,
dalle pale d’altare, dai borghi
abbandonati sugli Appennini o le Prealpi,
dove sono vissuti i fratelli.(2)
Nel mio intervento ho ricondotto l’attenzione di Pasolini per il Terzo Mondo alla sua più ampia riflessione sulla modernizzazione occidentale e soprattutto italiana. In questa prospettiva, le principali opere dedicate al Terzo Mondo fanno sistema con quelle del decennio che da Poesia in forma di Rosa (1964) giunge sino a Petrolio e Salò (e cioè alla data di morte, il 1975), con quelle opere, cioè, in cui Pasolini sperimenta nuove strategie e nuovi mezzi espressivi (primo tra tutti il cinema) per contestare il falso progresso della società in cui vive. Il Terzo Mondo entra a far parte di queste nuove strategie autoriali di contestazione, ma viene descritto in modo ambivalente: da un lato, infatti, i “reami di Bandung” rappresentano un mondo simile all’Italia precedente il boom economico e cioè, in sintesi e per citare Pasolini, rappresentano un mondo ancora detentore del mito e del sentimento del sacro, e dunque un mondo non ancora omologato;(3) dall’altro lato, e al contrario, essi appaiono ora oscuramente tribali ora rivolti acriticamente ai modelli di sviluppo occidentali e dunque ancora più feroci del mondo consumistico (e irreligioso) al quale dovrebbero contrapporsi.
Obiettivo del mio intervento è considerare l’ambiguità con cui Pasolini guarda al Terzo Mondo (utopia vs distopia) per chiarire bene che cosa egli rimpianga del mondo precedente «la nascita di un potere neocapitalistico “multinazionale”»:(4) l’analogia tra questi due mondi infatti è vera solo in parte e incontra un limite di carattere storico e ideologico.
2. Le principali vittime del neocapitalismo
Il capitalismo è oggi il protagonista di una grande rivoluzione interna: esso sta evolvendosi, rivoluzionariamente, in neocapitalismo [...]. La rivoluzione neocapitalistica si pone come competitrice con le forze che vanno a sinistra. In un certo modo va esso stesso a sinistra. E, fatto strano, andando (a suo modo) a sinistra tende a inglobare tutto ciò che va a sinistra. Davanti a questo neocapitalismo rivoluzionario, progressista e unificatore si prova un inaudito sentimento (senza precedenti) di unità del mondo.(5)
Ad accomunare la generazione di scrittori italiani di cui Pasolini fa parte, la generazione più o meno degli anni Venti del Novecento, è soprattutto una medesima condizione esistenziale: Volponi, Calvino, Sciascia, Parise, Meneghello, Fenoglio, sono «eredi», per citare il titolo di una rivista progettata da Pasolini (e mai compiuta) nei primi anni Quaranta, di un passato sempre più scollegato rispetto al mondo in cui vivono.(6) Per un verso, ereditano una lunga tradizione che risale all’umanesimo ma che, con le avanguardie storiche prima e con la neoavanguardia poi, ha cominciato a perdere rilievo e ad essere in parte delegittimata. Per altro verso, ereditano dall’esperienza del fascismo, della guerra e della resistenza l’esigenza di un impegno civile, vale a dire il bisogno di ricercare costantemente «i nessi fra etica e società».(7)
Il più traumatico momento di svolta (per Pasolini direi apocalittico) comincia all’incirca nei primi anni Sessanta ed esplode nel 1968. A quest’altezza Pasolini si accorge che, nella nuova civiltà dei consumi sorta col neocapitalismo, l’idea di attribuire alla letteratura una funzione etica diretta alla formazione dell’individuo e al miglioramento della società sta cadendo nel vuoto: infatti, scrive, «anche la letteratura è un vecchio valore di cui il nuovo potere non sa più che farsene».(8) Si accorge, mutuando il discorso da Ernesto De Martino, che in Italia e nel mondo occidentale sta avvenendo una vera e propria apocalissi culturale, perché si stanno sgretolando valori e identità.(9) Di questa irriconoscibilità degli uomini, di questa «crisi della presenza», per citare proprio De Martino, sono vittima principalmente, secondo Pasolini, quattro soggetti: 1) le classi sociali più povere (quella del proletariato e del sottoproletariato), vale a dire il popolo, sempre più indistinguibile (per valori e aspirazioni) dalla classe borghese e per questo sempre più infelice; 2) la figura dell’intellettuale-legislatore, e dunque, più in generale, la possibilità di attribuire alla letteratura e all’arte un valore formativo («Il mondo non mi vuole più e non lo sa», scrive Pasolini in un disegno d’incerta datazione), cancellandone il valore antagonista, ovvero, parafrasando Pasolini, il suo contenuto di verità; 3) i precedenti caratteri del «Potere»: ecclesiastici, «paleo fascisti», moralistici e patriottici;(10) 4) l’idea stessa, infine, della lotta di classe, dunque l’idea stessa di rivoluzione, introiettata adesso in maniera strumentale dalla classe dominante e perciò mistificata.(11)
3. La seconda stagione letteraria e civile di Pasolini: un solo corpo testuale e alcune costanti.
Io spero naturalmente che [...] non vinca il neocapitalismo ma vincano i poveri. Perché io sono un uomo antico, che ha letto i classici, che ha raccolto l’uva nella vigna, che ha contemplato il sorgere e il calare del sole sui campi, tra i vecchi, fedeli nitriti, tra i santi be- lati; che è poi vissuto in piccole città dalla stupenda forma inespressa dalle età artigianali, in cui anche un casolare o un muricciolo sono opere d’arte, e bastano un fiumicello o una collina per dividere due stili e creare due mondi. (Non so quindi cosa farmene di un mondo unificato dal neocapitalismo, ossia da un internazionalismo creato, con la violenza, dalla necessità della produzione e del con- sumo).(12)
In gran parte delle opere che Pasolini scrive nel decennio che va dalla metà degli anni Sessanta alla sua morte, i concetti di mutazione antropologica, tolleranza repressiva, genocidio delle culture eccentriche, apocalisse, omologazione culturale ed edonismo di massa, tengono più o meno esplicitamente il centro. Questi temi, che saranno poi cruciali e più chiaramente espressi negli Scritti corsari, nelle Lettere luterane (e cioè, con le parole di Alfonso Berardinelli, nella «saggistica politica d’emergenza»),(13) e in alcune dichiarazioni rese ne- gli ultimi anni di vita e pubblicate postume,(14) danno vita a un lungo ininterrotto discorso del quale le singole opere non sono che dei pezzi, delle parti, dei brani. Le opere di Pasolini appartenenti a questa seconda stagione costituiscono insomma un unico corpo testuale di cui le varie opere rappresentano delle performances che scaturiscono per l’appunto da una comune ispirazione: vale a dire dal bisogno di testimoniare la contrapposizione tra la moderna e ferocissima civiltà del consumo e la precedente «Età del pane».(15)
Questa seconda stagione si può caratterizzare a grandi linee per tre costanti: la strategia del non-finito (in stretto rapporto con la scelta dell’autore di dedicarsi al cinema); la nuova centralità del corpo e del suo linguaggio; l’attenzione rivolta al Terzo Mondo come luogo alternativo (fatto di realtà), sottratto al potere perentorio e capillare della società dei consumi (generatrice di irrealtà).
La prima consiste in una scelta formale: Pasolini rinuncia al libro (16) e adotta la strategia dell’incompiuto. Lo fa, ed è questo il punto, per raggiunge- re un maggior grado di realismo: come ha ribadito Walter Siti, infatti, la fiducia nel non-finito è in stretto rapporto con la scelta «istintiva» ed entusiasta di dedicarsi al cinema, «la lingua scritta della realtà».(17) L’opera letteraria più vicina a questo procedimento, che è di mimesi e allo stesso tempo di critica e interpretazione della realtà, è Petrolio, romanzo diviso tra un “Mistero” (vale a dire un congegno narrativo romanzesco) e un “Progetto” (vale a dire un abbozzo di romanzo). Ma è probabilmente Trasumanar e organizzar (1971) il libro migliore per valutare la situazione contraddittoria in cui si trova ad agire Pasolini nel decennio che ho indicato. Da un lato, infatti, egli rompe le convenzioni e le forme letterarie per dare ai propri testi un nuovo valore civile; dall’altro lato, però, sa bene che questa operazione rischia di apparire l’ennesima finzione letteraria. Pasolini teme di subire, in pratica, quella che il sociologo Mark Frank ha poi efficacemente definito «mercificazione del dissenso».(18)
La seconda costante è di carattere tematico ed è al centro dei film che compongono la Trilogia della vita. Come antitesi all’omologazione prodotta dal consumismo, Pasolini scommette sul corpo, e in particolare sulla sessualità popolare.
Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia reali, e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica.(19)
Anche la successiva abiura della Trilogia della vita (20) (e dunque il Salò) scaturisce da una identica ragione di fondo: i suoi film hanno infatti contribuito a diffondere quella stessa falsa liberalizzazione e quella stessa falsa tolleranza propagandata dalle classi dominanti.
Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere. Protagonista dei miei film, è stata così la corporalità popolare [...]. Mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possa- no aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta pos- sibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome.(21)
La terza costante è rappresentata da quella sorta di esilio dal mondo occidentale che Pasolini compie a partire dai primi anni Sessanta, cominciando a viaggiare con una certa continuità in Africa e in Oriente.(22) Il Terzo Mondo descritto da Pasolini, tuttavia, non riesce a rappresentare una vera alternativa al modello occidentale di sviluppo: all’analogia con l’Italia preindustriale (o a certe sue zone ancora non industrializzate) si contrappone infatti, ambiguamente, l’assoluta sfiducia nelle dinamiche tribali e comunitarie che caratterizzano i regni della fame.
4. Le due principali caratteristiche del Terzo Mondo pasoliniano
Come dice il titolo, il tema di questo film è il Terzo Mondo: nella fattispecie, L’India, l’Africa Nera, i Paesi Arabi, l’America del Sud, i Ghetti negri degli Stati Uniti [...]. Il discorso sarà unico. Così non mancheranno anche altri ambienti [...], per es. l’Italia del Sud o le zone minerarie dei grandi paesi nordici con le baracche degli immigrati italiani, spagnoli, arabi, etc. I temi fondamentali del Terzo Mondo sono gli stessi per tutti i paesi che vi appartengono.(23)
Sono due le caratteristiche essenziali del Terzo Mondo che si ricavano dalle opere e dagli interventi in cui Pasolini ne discute. La prima è di tipo tematico: secondo Pasolini, il Terzo Mondo non è confinato all’Africa o all’Oriente ma si ricava trasversalmente a partire da alcuni suoi temi fonda- mentali. Infatti, come dichiara in un’intervista con Ferdinando Camon (1965): «non c’è differenza fra un villaggio calabrese e un villaggio indiano o marocchino, si tratta di due varianti di un fatto che al fondo è lo stesso».(24) Pasolini ribadisce questa idea a più riprese.(25) Durante un’intervista con Alberto Arbasino, nel 1963, invitato a chiarire il senso in cui egli adopera il termine “Bandung”, Pasolini ammette infatti di non riferirsi alla storica conferenza afroasiatica del 1955, ma di adoperarlo «come senhal geografico per comprendervi la fisicità dei “regni della Fame”, il fetore di pecora del mondo che mangia i suoi prodotti».(26) I confini di questo Terzo Mondo non sono dunque geografici ma tematici. Nell’intervista già citata con Ferdinando Camon, Pasolini paragona l’Italia e il Terzo Mondo, sostenendo che una simile operazione può servire a capire che cosa accadrà in futuro in tutto il Terzo Mondo. Dalla “lezione italiana” si deve dedurre che anche il resto del mondo non ancora sviluppato è destinato prima o dopo a essere fagocitato dal nuovo potere delle merci.
La seconda caratteristica è di tipo ideologico. Pasolini guarda al Terzo Mondo in funzione anti-occidentale, per criticare il modello di sviluppo della società capitalista, e tuttavia, sotto un profilo retorico, egli si muove costantemente tra due estremi: l’idealizzazione utopica del Terzo Mondo (del suo paesaggio e dei corpi dei suoi abitanti soprattutto) e la sua condanna, l’uso di toni profetici e rivoluzionari o al contrario di toni apocalittici. Nello stesso momento in cui guarda al Terzo Mondo in funzione anticonsumistica, proiettandovi per molti versi l’immagine del passato italiano, egli lo condanna, ancora sull’esempio italiano, come luogo predestinato a essere dominato dai modelli occidentali. Desidererebbe che il Terzo Mondo fosse un’alternativa reale e tuttavia non nutre per esso alcuna vera speranza rivoluzionaria, ritenendolo al contrario atrocemente preistorico o proiettato irrimediabilmente verso gli stessi modelli di sviluppo. Di questa retorica, alternata tra l’idealizzazione utopica e la condanna distopica del Terzo Mondo, si possono fare alcuni esempi. Si può innanzitutto confrontare la più celebre poesia che Pasolini ha dedicato ai regni della fame (Profezia, 1965) con le sue dichiarazioni successive, esplicite, sullo stesso tema.
Alì dagli Occhi Azzurri uno dei tanti figli di figli, scenderà ad Algeri, su navi a vela e a remi. Saranno con lui migliaia di uomini coi corpicini e gli occhi di poveri cani dei padri Sulle barche varate nei regni della Fame.(27)
Ma poi Pasolini ammette:
è un vecchio motivo mio quello dell’idealizzazione dei contadini del Terzo Mondo. Anni addietro sognavo i contadini venire su dalle Afriche con la bandiera di Lenin, prendere i Calabresi e marciare verso l’Occidente. Oggi mi sto ricredendo [...]. In Alì dagli occhi azzurri c’è una poesia, quella che dà il titolo al libro, dedicata a Sartre, che oggi vorrei dimostrativamente rinnegare [...]. Perché rinnego questa profezia? Perché mentre allora ero solo e ridicolo a farla, oggi è divenuta merce comune [...], quella profezia era giusta allora ma in quanto era sbagliata [...]. Perché dunque il fatto che tale speranza posta nella potenzialità dei contadini del “Terzo Mondo” ora è sbagliata? Perché non è più guardata in prospettiva rivoluzionaria.(28)
Pasolini condanna la storia di Alì e della marcia rivoluzionaria delle migliaia di umili, deboli, timidi, colpevoli sudditi, per una ragione essenziale: la profezia è già stata smentita, è già stata superata. In occidente, infatti, il nuovo potere ha introiettato le ragioni della rivoluzione e ha reso quel tipo di linguaggio e quel tipo di lotta totalmente inoffensivi. Anche il Marocco, ammette amaramente Pasolini, diventerà in cinquant’anni «un’avanzata nazione neocapitalistica».(29) In un eloquente resoconto del 1970: In Africa tra figli obbedienti e ragazzi moderni, la contraddizione in cui versa il Terzo Mondo è tematizzata fin dal titolo.
In quel ragazzo muto che mi aveva condotto attraverso il labirinto del suo villaggio di polvere [...] convivevano l’antico figlio dogone, obbediente, e il nuovo ragazzo africano rivolto a una meta ancora spaventosamente lontana, ma tuttavia presente: il mondo bianco del consumo [...]. La folla di Sangai, Peul e Tuareg [...] dava con assoluta precisione il sentimento del Terzo Mondo. Tutti quegli uomini e quelle donne erano rivolti verso i paesi della civiltà occidentale. Inutile fare dei sentimentalismi (anche se, al solito, un nodo alla gola c’è stato); la realtà è questa; va accettata prima che sfugga.(30)
Nel personaggio che Pasolini descrive convivono due atteggiamenti esistenziali che l’autore contrappone: l’antico figlio dogone è obbediente e perciò ammirevole e tuttavia la sua identità vacilla a causa della nuova e spaventosa seduzione esercitata dal consumismo “bianco”. In uno scambio di battute con Jean Duflot, Pasolini ammette che la sua attrazione per i paesi del Terzo Mondo, e dunque la loro diversità rispetto all’Occidente, scaturisce principalmente dal sentimento del sacro. Ammette anche, però, subito dopo, che non ci sarà nessuna risorgenza del sacro capace di scalfire il potere del consumo.
J. Duflot: “Lei mi ha parlato della sua attuale attrazione per i paesi del Terzo Mondo: un’attrazione che prolunga quella provata da sempre per gli strati sociali più vicini alla terra, per il sottoproletariato [...]; essa mi sembra derivare ovviamente da questa concezione del sacro, tema che domina l’insieme della sua opera.”
P.P. Pasolini: “Non c’è alcun dubbio.” J. Duflot: “Dal momento che i due terzi del mondo vivono ancora in questa civiltà contadina [...] è lecito supporre che lo scontro possa avere come posta in gioco una risorgenza del sacro?”
P.P. Pasolini: “Il Terzo Mondo, che conosco bene per aver visitato l’India, il Medio Oriente, i paesi arabi e l’Africa [...], mi pare avviarsi con la massima rapidità verso il neocapitalismo.”(31)
All’idealizzazione dei paesi terzomondisti, guardati come l’unica alternativa al capitalismo perché i soli ancora capaci del sentimento del sacro (possesso esclusivo di tutta quanta la civiltà contadina), segue dunque la sfiducia nella loro reale capacità di insorgenza e persino di sopravvivenza. Come già l’Italia contadina, anche gli altri paesi di questo Terzo Mondo transnazionale non possono che subire il medesimo sviluppo neocapitalistico, reso peraltro ancora più atroce dalla sua repentinità.
5. Il padre selvaggio; Appunti per un film sull’India; Appunti per un’Orestiade africana; Appunti per un poema sul Terzo Mondo. L’ambiguità del Terzo Mondo.
Il primo progetto relativo al Terzo Mondo, se si eccettua L’odore dell’India (1961), il resoconto diaristico di un viaggio compiuto con Moravia e Morante, è il soggetto cinematografico intitolato Il padre selvaggio. Pasolini aveva pensato di girare un film di ambientazione africana al suo primo viaggio in Kenia, nel febbraio del 1961. Scritto un anno esatto dopo, Il padre selvaggio viene pubblicato in “Cinema e film” nel 1967 e poi, da Einaudi, nel 1975. Fin da questo primo progetto Pasolini guarda al Terzo Mondo in maniera ambigua. La dissociazione di cui è vittima il giovanissimo Davidson, infatti, deriva dalla brutalità del mondo africano, dai tremendi riti di sangue che gli vengono imposti, per l’appunto, da un padre selvaggio. Ambientato in Congo nel quadro della feroce guerra civile successiva all’indipendenza del 1960, Il padre selvaggio narra il tentativo di un insegnante occidentale di contrapporre alla «smaniosa inespressività» in cui è paralizzato il ragazzo il «sogno di una cosa»,(32) vale a dire la possibilità ch’egli prenda coscienza di sé come individuo.
È la voce interiore dell’insegnante che, IMMAGINE PER IMMAGINE, dipinge un quadro di quella che essa chiama la «reale» condizione africana (ben diversa dalle sue speranze idealistiche e idilliache).(33)
Nel 1963, in partenza per l’Africa proprio per girare Il padre selvaggio, Pasolini dichiara ad Alberto Arbasino di sentirsi braccato e solo di fronte ad una scelta
ugualmente disperata: perdermi nella preistoria meridionale, africana, nei reami di Bandung, o gettarmi a capofitto nella preistoria del neocapitalismo, nella meccanicità della vita delle popolazioni ad alto livello industriale, nei reami della Televisione.(34)
Dopo un sopralluogo in India tra il 1967 e il 1968 Pasolini scrive Appunti per un film sull’India, documentario che viene trasmesso in televisione e poi presentato alla Mostra del Cinema di Venezia già nel 1968. Pasolini intervista alcuni operai e poi i redattori del “Times of India” sul progresso dell’India, perché vuole evidenziare l’ambiguità di fondo con cui i paesi del Terzo Mondo si stanno sviluppando, stretti come sono in una morsa tra la ferocia della tradizione (evocata nel film dalla questione degli intoccabili e della sterilizzazione, e dalla vicenda del Maharaja) e la brutale occidentalizzazione da cui sono investiti (simboleggiata dalle fabbriche, dall’industrializzazione e dalla morte per fame del resto della famiglia del principe). Come dichiarato dall’autore stesso, è da questi appunti che nasce l’idea di un ampio film a episodi sul Terzo Mondo strutturato secondo la poetica del non-finito (Appunti per un poema sul terzo Mondo) che però non verrà mai realizzato. In questo progetto ambizioso, per l’episodio sull’Africa Pasolini pensa inizialmente di risistemare Il padre selvaggio, poi però cambia idea e decide di scrivere e girare un nuovo episodio (Appunti per un’Orestiade africana) il quale, presentato a Venezia nel 1973, può considerarsi come l’unico segmento effettivamente girato di questo progetto a episodi sul Terzo Mondo. Come già Il padre selvaggio e Appunti per un film sull’India, anche Appunti per un’Orestiade africana tematizza il tentativo di fuoriuscire da uno stato selvaggio che ossessiona e imbestialisce, la difficoltà insomma, per il Terzo Mondo, di aspirare a un processo democratico autonomo e autentico.
Le ragioni dell’ambiguità (alias della sfiducia) con cui Pasolini guarda al Terzo Mondo si potrebbero sintetizzare nel titolo di un suo articolo apparso su “Il Giorno” il 20 marzo del 1970: Nell’Africa nera resta un vuoto fra i millenni.
6. Un drammatico rimpianto
I plans un mond muàrt.
Ma i no soj muàrt jo ch’i lu plans.
Si vulìn zì avant bisugna ch’i planzìni
il timp ch’a no’l pòs pì tornà, ch’i dizìni di no
a chista realtàt ch’a ni à sieràt
ta lo so preson...
Piango un mondo morto. Ma non son morto io che lo piango. Se vogliamo andare avanti, bisogna che piangiamo il tempo che non può più tornare, che diciamo di no || a questa realtà che ci ha chiusi nella sua prigione...(35)
In una lettera indirizzata a Italo Calvino nel luglio del 1974 dal titolo: Lettera aperta a Italo Calvino: Pasolini: quello che rimpiango (pubblicata su “Paese Sera” e poi in Scritti corsari col titolo Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino), accusato di rimpiangere «l’Italietta», Pasolini risponde di rimpiangere tutt’altra cosa (e non dunque l’Italia «piccolo-borghese, fascista, democristiana [...] provinciale e ai margini della storia»), vale a dire l’universo contadino transnazionale di cui fanno parte tutte le culture sottoproletarie urbane, «questo mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa». Per questa ragione, aggiunge, «dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove [questo universo contadino] sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo».
Ho detto e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco dunque appunto anche alle culture del Terzo Mondo, cui le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo del resto) è unico.(36)
Nella stessa lettera, dopo essersi lamentato per l’uso soltanto negativo del concetto di rimpianto («tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio»), e dopo aver ribadito di averne già parlato altrove, in versi, («se si può parlare di rimpianto»), Pasolini chiarisce la sua contrapposizione tra passato e presente in relazione a due tipologie di beni, di consumatori e quindi di esistenze: ai beni necessari, ai consumatori di beni necessari e ad esistenze necessarie (del passato) sono subentrati beni superflui, consumatori di beni superflui ed esistenze superflue (del presente). Come aveva già scritto nell’autorecensione a Calderón (in risposta a un commento di Adriano Sofri), Pasolini rimpiange «disperatamente [...] la povertà» come valore alternativo alla ricchezza, perché, mentre «la povertà non è affatto il male peggiore», la ricchezza (e Pasolini spiega bene recensendo il romanzo già citato di Felice Chilanti, Gli ultimi giorni dell’età del pane) non è altro che «la modificazione sostanziale della vita umana decisa e realizzata dal Potere», un valore falso propagandato con «la scusa che si tratti di un miglioramento del tenore di vita».(37) Sono queste categorie critiche, insomma (necessario vs superfluo), a caratterizzare il rimpianto di Pasolini per il passato e la sua ferma opposizione alla «conquista globale della mentalità tramite l’ossessione di produrre, di consumare e di vivere di conseguenza».(38) Da un fascismo all’altro, appunto. La povertà che l’autore rivendica in maniera spesso provocatoria deve essere messa a sistema con la sua denuncia dell’ideologia edonistica: la più spietata, feroce e repressiva tra le ideologie che la storia abbia mai conosciuto.
In questo senso è davvero straordinaria la Postilla in versi posta al termine delle Lettere luterane, in cui Pasolini contrappone l’Agàpe e l’Anànke all’Edonè, in cui, insomma, l’autore ritorna sui temi dell’omologazione culturale, della falsa tolleranza e del nuovo fascismo con qualche verso cantilenato e infantile («Voi pensate ai nostri doveri | ché ai nostri diritti, se vorremo, ci penseremo noi...»).(39)
Il 5 gennaio 1974, qualche mese prima della lettera a Calvino, “Paese sera” ospita cinque poesie che tematizzano le modalità e le prospettive di resistenza alla civiltà dei consumi e la possibilità di una nuova lotta di classe.(40)
Nel primo testo, intitolato per l’appunto Il significato del rimpianto, Pasolini giudica una «stupida verità» l’ineluttabilità dello sviluppo e dice di guardarsi indietro per piangere (visto che un intero mondo è scomparso) ma anche per riattivare quella lotta di classe attualmente spenta dalla febbrile ansia di possesso e di benessere dettata dal potere. Il rimpianto assume dunque, esplicitamente, un significato positivo di riscatto: lo scontro sociale può riaccendersi poiché i modelli di sviluppo non sono immodificabili.
L’ansia di star bene e nel più breve
tempo possibile è molto più forte
di Dio! I più giovani figli
degli operai avevano ormai sorrisi
borghesi, dignità che rendono tristi,
vergogne di se stessi, conformismi
radicati più degli istinti,
abitudini falsamente intellettuali,
snobismi disgraziati, libertà
avute per concessione e diventate
febbrili ansie di possesso.
Come trasformare dal di dentro
la realtà borghese con l’apporto
di questi nuovi operai?
Ora ciò che non era stato previsto,
accade. I ricchi
diventeranno
meno ricchi, i poveri più poveri.
Si guarderanno di nuovo negli occhi.(41)
Pasolini rifiuta il fatto che «non si torna indietro» (rifiuta cioè di ammettere che un mondo contadino e preindustriale sta scomparendo e sia in parte scomparso) pur sapendo benissimo che il suo è un rifiuto antistorico e che tornare indietro è per l’appunto impossibile (continua dunque, paradossalmente, a idealizzare un tempo che non può più tornare) perché solo in quel passato esiste un’alternativa ideologica ancora valida. Egli, insomma, rimpiange un mondo perduto (e che sa perduto) in funzione critica del presente, in funzione polemica;(42) costringe il passato contro il presente, perché crede che il primo contenga valori alternativi a quelli attuali ancora capaci di modificare l’atteggiamento degli uomini, e dunque la società.
Al primo sbaglio, l’aver cioè creduto che gli uomini non potessero essere cambiati in così poco tempo, se ne aggiunge ora un secondo che l’autore però vorrebbe scongiurare (come si legge in Poesia popolare).
Abbiamo creduto che questo cambiamento
dovesse essere tutta la nuova storia.
Invece grazie a Dio si può tornare
indietro. Anzi, si deve tornare
indietro. Anche se occorre un coraggio
che chi va avanti non conosce.(43)
Il modello di sviluppo capitalista deve essere rifiutato in toto (e non de- ve essere migliorato o moderato) perché, si legge in Appunto per una poesia in lappone, «parte da principi non solo sbagliati [...] bensì maledetti. Essi presuppongono trionfanti una società migliore e quindi tutta borghese».(44)
Se da un lato il Terzo Mondo descritto da Pasolini (e cioè in sintesi: un universo transnazionale ideologicamente contrapposto al neocapitalismo) rappresenta bene, fisiologicamente, questo “dietrofront” rispetto ai principi del capitalismo, e cioè la loro assenza, la loro ancora scarsa incidenza sui corpi, sul paesaggio, sulle tradizioni (ed è questa, in sostanza, la prospettiva in cui si deve leggere il suo esilio terzomondista), dall’altro lato tuttavia, l’ambiguità con cui egli descrive l’Africa e l’Oriente (vale a dire i loro rituali arcaici e le loro accelerazioni consumistiche) è troppo marcata per non essere significativa di qualcos’altro. Il Terzo Mondo pasoliniano non coincide a pie- no con quel mondo precedente la rivoluzione antropologica prodotta dal neocapitalismo, con quel mondo cioè di cui l’Italia precedente il boom economico rappresenta l’esempio più evidente, perché il Terzo Mondo è privo di una base ideologica (di una coscienza critica) alternativa al capitalismo e al neocapitalismo. L’“analogia terzomondista” per cui un villaggio calabrese assomiglia a un villaggio africano incontra insomma un limite di carattere storico e ideologico che si potrebbe riassumere così: mentre in Africa o in Oriente il modello capitalistico non ha incontrato e non incontra ostacoli ideologici (e proprio per questo la spinta all’imitazione è così impetuosa), nell’Italia (e nel mondo occidentale) precedente l’affermazione del neocapitalismo è esistita invece una vera e propria alternativa ideologica, ovvero il comunismo. La costante diffidenza di Pasolini per i paesi del Terzo Mondo (per quanto opposti, fisicamente e frontalmente, all’occidente) testimonia uno scarto rispetto al suo rimpianto per il passato italiano. Le ultime due poesie pubblicate su “Paese sera” nel 1974 chiariscono bene la questione.
In Recessione, dopo aver tratteggiato un paese preindustriale con tanto di stracci, pietre, coltelli e cavalli, Pasolini scrive (solo ora significativamente in italiano e non in dialetto): «ma basta con questo film neorealistico. | Ab- biamo abiurato da ciò che esso rappresenta. | Rifarne esperienza val la pena solo | se si lotterà per un mondo davvero comunista».(45)
E in Appunto per una poesia in terrone, Pasolini ribadisce che «così non si può più andare avanti», che «bisognerà tornare indietro» per non lasciare alla cultura borghese il controllo di tutta la cultura
perché se la nostra cultura, non potrà e non dovrà più essere la cultura della povertà, si trasformi in una cultura comunista. Perché i nostri corpi, se è destino che non vivano più l’innocenza e il mistero della povertà, vivano la cultura
comunista. Perché la nostra ansia, se è giusto che non sia più ansia di miseria, sia ansia di beni necessari.
Torniamo indietro, col pugno chiuso, e ricominciamo da capo [...]. Torniamo indietro. Viva la povertà. Viva la lotta comunista per i beni necessari.(46)
Nell’ottobre del 1975, in un dibattito (pubblicato postumo con il titolo Volgar’eloquio)(47) con alcuni insegnanti e studenti del liceo classico Palmieri, a Lecce, Pasolini ribadisce l’aspetto progressista del suo rimpianto: un modo diverso di essere progressisti, perché scommette su una lotta non retorica di fronte a un capitalismo «completamente nuovo». Gramsci stesso, dice Pasolini, «voleva che le loro culture [dei proletari, dei contadini e dei sottoproletari] entrassero dialetticamente in rapporto con la grande cultura borghese in cui lui stesso, come Engels, si era formato, ed era assolutamente contrario al loro genocidio».(48)
All’incirca un anno prima, nel novembre del 1974, in un dibattito con la redazione di “Roma giovani”, Pasolini aveva indicato nella ricerca di una coincidenza tra sviluppo e progresso la sola via d’uscita (non intrapresa pur- troppo dal Pci) dal modello consumistico; una strada da percorrere proprio ritornando indietro, dando «preminenza assoluta ai beni necessari».(49)
Nella sua ultima intervista, rilasciata a Furio Colombo il 1° novembre 1975, e pubblicata su “La Stampa - Tuttolibri” una settimana dopo con il titolo ancora molto triste: Siamo tutti in pericolo, Pasolini ribadiva il proprio rimpianto per un ideale di lotta comunista, per un mondo cioè in cui la gente oppressa ha «il solo scopo di farsi libera e padrona di se stessa»; nello stesso tempo ripeteva la sua diffidenza per una rivolta che non lascia più vedere «di che segno sei», e che ha come solo scopo quello di assomigliare a chi detiene il potere.
Ho nostalgia della gente povera e vera che si batteva per abbatter quel padrone senza diventare quel padrone [...]. Io ho paura di questi negri in rivolta, uguali al padrone, altrettanto predoni, che vogliono tutto a qualunque costo.(50)
Già nel 1970 Pasolini scriveva:
I figli obbedienti delle città e dei villaggi africani sono assetati della nuova qualità di vita che il bianco ha fatto loro conoscere, prima con la violenza e poi con la dolcezza. Il neocapitalismo è la grande meta verso cui i paesi africani si avviano senza incertezze, è una leggenda il Terzo Mondo socialista. Il Terzo Mondo va verso l’industrializzazione che si identifica col modello neocapitalistico, anche là dove i governi si dichiarano socialisti o filocomunisti.(51)
NOTE
1. Pasolini 1999 b, 978. L’articolo, dal titolo Salinari: risposta e replica, uscì su “Vie Nuove” n. 45 il 16 novembre 1961. I testi apparsi su “Vie Nuove” dal 28 maggio 1960 al 30 settembre 1965 nella rubrica Dialoghi con Pasolini, insieme a tutti quelli apparsi su “Tempo” dal 6 agosto 1968 al 24 gennaio 1970 nella rubrica Il caos, sono stati interamente pubblicati nel volume: I dialoghi, a cura di G. Falaschi, con prefazione di G. C. Ferretti, Editori Riuniti, Roma 1992.
2. Pasolini 2003, 1099. I versi di Poesie mondane vennero pubblicati originariamente as- sieme alla sceneggiatura di Mamma Roma (Rizzoli, Milano 1962) ed entrarono poi a far parte della raccolta Poesia in forma di rosa (1964).
3. Cf. Pasolini 1999b, 1480-1490 (Elogio della barbarie, nostalgia del sacro). Il sogno del centau- ro è il risultato di una doppia intervista che Pasolini rilasciò a Jean Duflot nel 1969 e nel 1975.
4. Pasolini 1999a, 2150. L’articolo uscì su “Tempo” il 18 ottobre 1974 col titolo: Un’antica intimità ci lega agli autori “di destra”, ed è stato poi pubblicato in Descrizioni di descrizio- ni nel 1979 col titolo Autori «di destra». Nel descrivere questa nuova forma di potere capitalistico, Pasolini fa esplicito riferimento ad alcuni discorsi pronunciati da Eugenio Cefis.
5. Pasolini 1999b, 861-862. Il brano, dal titolo Il capitalismo, è contenuto in Quasi un testa- mento, una serie di riflessioni rilasciate dall’autore al giornalista inglese Peter Dragadze e pubblicate postume (“Gente”, 17 novembre 1975).
6. Cf. Pasolini 1999b, 1137-1138. La volontà di non essere padre uscì nella rubrica settimanale
Il caos, su “Tempo” n. 45 il 2 novembre 1968.
7. Luperini 1999, 173.
8. Pasolini 1999a, 1866. Cf. anche Pasolini 1999a, 1965-1970. L’articolo, confluito nel volume Descrizioni di descrizioni curato per Einaudi da Graziella Chiarcossi nel 1979, con il titolo I giovani che scrivono, uscì su “Tempo” nel dicembre 1973 col titolo Riflessioni dopo un anno di critica militante. Cf. inoltre Pasolini 1999a, 2556-2559 (Che cos’è un vuoto letterario era uscito su “Nuovi Argomenti”, n. 21, gennaio-marzo 1971).
9. Cf. De Martino 1964; 1954. Cf. anche Pasolini 1999b, 1442-1450 (il saggio si intitola significativamente L’apocalisse secondo Pasolini).
10. Pasolini 1999b, 313-314. «Scrivo “Potere” con la P maiuscola [...] solo perché sinceramente non so in cosa consista questo nuovo Potere e chi lo rappresenti. So semplicemente che c’è. Non lo riconosco più nel Vaticano, né nei Potenti democristiani, né nel- le Forze Armate. Non lo riconosco più neanche nella grande industria». Il vero fascismo e il vero antifascismo (così negli Scritti corsari) uscì sul “Corriere della sera” il 24 giugno 1974 col titolo Il Potere senza volto.
11. La fine della lotta di classe e della rivoluzione (in nome di una lotta civile intestina al- la classe borghese) è la tesi di fondo di tutto quanto il teatro pasoliniano, vale a dire delle sei tragedie in versi che l’autore scrive tra il 1966 e il 1967.
12. Pasolini,1999b, 861-862. Cf. nota 5.
13. Berardinelli 1990, 12.
14. Cf. Pasolini 1999b, 840-849 (in Un sorriso anche al Sud, dibattito con la redazione di “Roma giovani” pubblicato in questa stessa rivista nel novembre del 1974, Pasolini spiega di aver ricavato la nozione di «genocidio» dal Manifesto del partito comunista).
Cf.: Pasolini 1999b, 853-871; nota 5; Pasolini 1999a, 1995-2001 (Cultura borghese – Cultura Marxista – Cultura popolare, così in Descrizioni di descrizioni, uscì su “Tempo” l’8 febbraio 1974 con il titolo Gli intellettuali che non conoscono l’espressione “cultura popolare”).
15. Pasolini ricava questa espressione dal romanzo dell’ex partigiano Felice Chilanti: Gli ultimi giorni dell’Età del pane (1974).
16. Cf. Tricomi 2005.
17. Siti 1998, 45-48.
18. Cf. Frank 1997.
19. Pasolini 1988, CXXXII.
20. Cf. Pasolini 1999b, 599-603; Scritto il 15 giugno 1975, L’ Abiura dalla «Trilogia della vita»
uscì postuma sul “Corriere della sera” il 9 novembre 1975.
21. Pasolini 1999b, 261 (Tetis). Si tratta dell’intervento al convegno Erotismo, eversione, merce, organizzato a Bologna nel dicembre del 1973.
22. Queste le mete di Pasolini: 1961: India, Kenia, Tanzania; 1962: Egitto, Sudan, Kenia; 1963: Yemen, Kenia, Ghana, Guinea; 1965-66: Marocco; 1969: Uganda, Tanzania, Tanganica; 1970: Senegal, Costa D’avorio, Mali; 1972: Egitto, Yemen, Persia, India, Eritrea; 1973: Iran, Yemen, Eritrea, Afganistan, Corno d’Africa, Nepal.
23. Pasolini 2001a, 2679.
24. Pasolini 1999b, 1638.
25. Uno dei testi in cui Pasolini chiarisce al meglio l’equivalenza sociale, economica e culturale del «mondo del sottoproletariato “consumatore” rispetto al capitalismo produttore» è La Resistenza negra, in Letteratura negra. La poesia, a cura di M. De Andrade, Editori Riuniti, Roma 1961, ora in Pasolini 1999a, 2344-2355.
26. Pasolini, 1999b, 1573.
27. Pasolini 2003, 1287-1291. La poesia ha avuto ben sei diverse redazioni. Più o meno nello stesso periodo Pasolini pubblica anche altre poesie dedicate al Terzo Mondo: L’uomo di Bandung (1964); E l’Africa? (1967); Canto di un bianco errante per l’Africa (quest’ultima, inedita, si può leggere in Pasolini 2003, 1397).
28. Pasolini 1999b, 1638. Cf. nota 24.
29. Pasolini 1999b,1646.
30. Pasolini 1998, 1875,1876.
31. Cf. Pasolini 1999b, 1484. Cf. nota 3.
32. Pasolini 2001b, 303, 325.
33. Pasolini 2001b, 288.
34. Pasolini, 1999b, 1572.
35. Pasolini 2003, 491.
36. Pasolini 1999b, 319,320,321,322.
37. Pasolini 1999a, 1933; 1999b, 2056.
38. Pasolini 1999b, 1530 (Da un fascismo all’altro).
39. Pasolini 1999b, 721. La Postilla in versi è stata posta alla fine delle Lettere luterane perché il manoscritto si è conservato nella cartella così appunto intitolata. Si tratta in realtà di uno dei testi postumi usciti col titolo Tre poesie inedite su “Giorni-Vie Nuove”, anno 6, n. 14, 7 aprile 1976.
40. Cfr. Pasolini 2003, 490-502. Questi i testi: Significato del rimpianto; Poesia popolare; Appunto per una poesia in lappone; La recessione; Appunto per una poesia in terrone. Essi sono stati inseriti, con qualche modifica, nella terza sezione (Tetro entusiasmo. Poesia italo- friulane, 1973-74) della raccolta La nuova gioventù, Poesie friulane 1941-1974, uscita nel maggio del 1975.
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41. Pasolini 2003, 492.
42. Cf. Pischedda 2011, 63-64
43. Pasolini 2003, 494.
44. Pasolini 2003, 496.
45. Pasolini 2003, 500.
46. Pasolini 2003, 502.
47. Pasolini 1999a, 2825-2864.
48. Pasolini 1999a, 2844-2845.
49. Pasolini 1999b, 846. Cf. nota 14.
50. Pasolini 1999b, 1728,1727,1726.
51. Pasolini 1998, 1874. Cf. nota 30.
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