"Le pagine corsare "
dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
1. Un estraneo in una terra ostile
di Gian-Maria Annovi
di Gian-Maria Annovi
Tra i compiti di questa ricerca vi è ovviamente quello di stabilire cosa significhi essere un autore per Pasolini ed illustrare l’originalità della sua posizione rispetto ai coevi discorsi sull’autorialità. Il compito è meno complesso di quanto possa sembrare, infatti, nel 1970, invitato a intervenire ad un convegno di cineasti sul tema “Libertà dell’autore e liberazione degli spettatori,” Pasolini si produce in un densissimo saggio – poi confluito in Empirismo eretico con il titolo “Il cinema impopolare”(23) – in cui offre di fatto una spiazzante, e insieme illuminante, definizione del termine “autore.” Si tratta, va detto, di uno dei saggi meno letti e meno compresi di Pasolini, spesso solo citato nella formula riduttiva del suo titolo. Proprio come nel caso di Barthes, ma con un senso ben diverso, ne “Il cinema impopolare” Pasolini associa il concetto di autore a quello di morte, sostenendo che autore è chi rivela “in qualche modo di ‘desiderare di morire’:”(24)
Se un facitore di versi, di romanzi, di films trova omertà, connivenza o comprensione nella società in cui opera, non è un autore. Un autore non può che essere un estraneo in una terra ostile: egli infatti abita la morte anziché abitare la vita, e il sentimento che egli suscita è un sentimento, più o meno forte, di odio razziale.(25)
Prima di concentraci sul senso di questo pasoliniano desiderio di morte dell’autore è bene soffermarsi un momento sulla prima parte di questa “definizione” e smontarne i singoli costituenti: essi sono infatti i concetti chiave dell’idea pasoliniana di autore che incontreremo nel corso di tutta questa ricerca.
Secondo la sua concezione, autore è un concetto transdisciplinare (“facitore di versi, di romanzi, di films”): anche quando Pasolini parla di cinema, dobbiamo intendere che quanto sostiene riguarda anche la sua produzione poetica e narrativa, per non dire saggistica. Quella dell’autore è poi una condizione di antagonismo rispetto alla società.
Secondo Pasolini non è autore chi viene compreso o passa inosservato, ma solo colui che provoca una reazione di rifiuto e genera ostilità, anzi, “odio razziale.” L’autore, insomma, deve necessariamente essere autore-contro, un enragè, caratterizzato da una profonda diversità rispetto alle idee dominanti del corpo sociale. Pasolini, che nelle liriche di Poesia in forma di rosa (1964) scrive esplicitamente di identificarsi con ebrei, zingari e negri [sic],(26) sta ovviamente modellando la definizione di autore su di sé e sulla propria difficile esperienza nel ritagliarsi uno spazio nell’asfittica società italiana, dalla cui borghesia e classe dirigente, che egli odia profondamente e vuole ad ogni costo scandalizzare (nel significato paolino del termine, centrale nella sua rappresentazione di Cristo ne Il Vangelo secondo Matteo), Pasolini si sente perseguitato, in senso morale e giudiziario:
In ogni autore, nell’atto di inventare, la libertà si presenta come esibizione della perdita masochistica di qualcosa di certo. Egli nell’atto inventivo, necessariamente scandaloso, si espone – e proprio alla lettera – agli altri: allo scandalo appunto, al ridicolo, alla riprovazione, al senso di diversità, e perché no?, all’ammirazione, sia pure un po’ sospetta. C’è insomma il “piacere” che si ha in ogni attuazione del desiderio di dolore e di morte.(27)
Esibizione, scandalo, diversità sono termini chiave per leggere l’opera pasoliniana. Egli, infatti, concepisce l’atto inventivo, ossia “ogni infrazione del codice […] necessaria all’invenzione stilistica,”(28) come qualcosa di necessariamente scandaloso, “l’esibizione di un atto autolesionistico”(29) da parte dell’autore, manifestazione masochistica che esprime “un ignoto e inconfessato istinto di morte, per definizione anti-conservatore.”(30) La libertà dell’autore è insomma per Pasolini “libertà di scegliere la morte,”(31) dunque di offrirsi, sadomasochisticamente vivo, a quel “fulmineo montaggio” che solo – lo si è visto nell’introduzione – può fornire senso alla nostra vita.
Si tratta di riflessioni che, se lette in maniera tendenziosa possono far pensare, come nel caso di Giuseppe Zigania, che la morte di Pasolini sia stata una forma di attuazione meticolosa ed estrema di questi precetti, un’ultima opera suicida.(32) Nulla, ovviamente, di più lontano dalla verità. Quando Pasolini parla di desiderio di morte egli sta infatti pensando al termine pulsione (Trieb), che, nell’economia libidica del soggetto descritta da Freud, è connessa all’ambiguo rovesciamento del dolore in piacere:
io stesso provo in moviola (o, prima girando) l’effetto quasi sessuale dell’infrazione al codice, come esibizione di qualcosa di violato (sentimento che si prova anche scrivendo versi, ma che il cinema moltiplica all’infinito: una cosa è essere martirizzati in camera e una cosa è essere martirizzati in piazza, in una ‘morte spettacolare’): ma la cosa essenziale è restare in vita, e mantenere in vigore il codice: il suicidio crea un vuoto subito riempito dalla qualità peggiore di vita, mentre l’eccessiva trasgressione del codice, finisce per creare una specie di rimpianto.(33)
La morte di cui parla Pasolini è una “morte spettacolare,” dove spettacolare non va inteso come “straordinaria” ma come fittizia ed “esibita,” inserita cioè all’interno di un regime di massima visibilità come quello offerto da un mezzo di comunicazione di massa quale il cinema. L’opera, per Pasolini, è questo schermo, questa piazza – si potrebbe dire ‘un cinema all’aperto’ – in cui l’autore si espone narcisisticamente come individualità radicale. Esponendosi, egli espone formalmente – ossia attraverso la continua infrazione stilistica – il suo dissenso permanente rispetto all’esistente e alla norma (sia essa sociale o artistica), agendo così sulla vita con la consapevolezza che il suo gesto lo costringe a una forma di pubblico, ma necessario martirio. È quando altrove esprime sostenendo che un autore è sempre una “contestazione vivente”:
Un autore, quando è disinteressato e appassionato, è sempre una contestazione vivente. Appena apre bocca, contesta qualcosa, al conformismo, a ciò che è ufficiale, a ciò che è statale, nazionale, a ciò che va bene per tutti. Non appena apre bocca, un artista è per forza impegnato, perché il suo aprire bocca è scandaloso sempre.(34)
Quanto questa concezione sia influenzata dai suoi casi personali lo si vedrà in seguito, qui è importante sottolineare come l’infrazione, così come concepita da Pasolini, debba essere continua (e dunque radicata nel darsi della vita, vivente): “ciò che è importante – scrive concludendo “Il cinema impopolare” – non è il momento della realizzazione dell’invenzione, ma il momento dell’invenzione. Invenzione permanente; lotta continua.”(35) Il desiderio di morte dell’autore è dunque questa costante posizione antagonistica e individualistica rispetto alla società.
Invenzione, libertà, scandalo, ovvero l’idea di un’opera originale capace di sconfessare le attese del pubblico, sono concetti tutt’altro che nuovi e rimandano ovviamente all’estetica dell’arte d’avanguardia e al suo bisogno di violare l’istituzione e trasgredire ogni norma precostituita. Nel rifarsi all’autolesionismo dell’autore pasoliniano si potrebbe addirittura leggere un riferimento a uno dei più celebri manifesti del futurismo, La voluttà di essere fischiati, pubblicato da Marinetti nel 1915, se non fosse che l’incontro-scontro di Pasolini con la letteratura futurista risale solo a qualche anno dopo.(36) È però certo, e lo prova il linguaggio impiegato, preso a prestito dal vocabolario militare, che Pasolini sta qui polemizzando con un’altra avanguardia, più vicina nel tempo, quella del Gruppo 63, colpevole a suo parere di una “isteria di superamento” volta non a istaurare un’“anarchia totale” ma a ricercare un’“anarchia mentale e ‘letteraria’”(37) che avrebbe prodotto solo una forma di nuovo accademismo istituzionalizzato.(38) Secondo Pasolini, infatti, coloro che superano “la linea del fuoco,” vale a dire che si spingono “oltre il fronte delle trasgressioni,” si ritrovano necessariamente in un “territorio nemico,” dove vengono automaticamente “chiusi in una sacca […] ammassati in un Lager, che essi poi, come succede, trasformano altrettanto automaticamente in un ghetto.” Infatti, continua, “la vittoria su una norma trasgredita rientra subito nell’infinita possibilità di modificarsi e di allargarsi che ha il codice.”(39)
Pasolini si mostra ben consapevole del fatto che ogni operazione trasgressiva della norma, sia essa linguistica o formale, ha come destino quello di essere nuovamente normalizzata. La sua proposta è dunque quella di “obbligare se stessi a non andare troppo avanti, interrompere lo slancio vittorioso verso il martirio; e ritornare continuamente indietro, sulla linea del fuoco.”(40) È ancora una volta l’avverbio “continuamente” a dare senso all’operazione di trasgressione del codice che l’autore deve compiere secondo Pasolini, e a informare “la lotta dell’arte contro la proprio istituzionalizzazione”(41) che per Carla Benedetti caratterizzerebbe la sua produzione a partire dagli anni ’60. In quell’avverbio è infatti racchiuso anche il senso della costante e ossessiva rielaborazione pasoliniana della propria opera, si pensi alla riscrittura di lavori giovanili, come nel caso de La meglio gioventù e – lo si vedrà nello specifico nel prossimo capitolo – della Divina Mimesis, nonché a quel costante bisogno di abiurare a quanto creato in precedenza che caratterizza la sua traiettoria artistica, come nel caso di Salò e della Trilogia della vita.(42)
È dunque soprattutto una “coscienza metalinguistica esplicita”(43) a caratterizzare il ruolo dell’autore e a rendere anche il cinema di Pasolini, ma si potrebbe dire la sua intera opera, volutamente impopolare. Ciò non significa però – come si potrebbe pensare – che il regista sia indifferente rispetto al proprio pubblico ma, come ho pocanzi mostrato, con le costanti indicazione “al lettore,” gli si rivolge invece in maniera diretta. Infatti, Pasolini precisa infatti che, quando si parla di opera d’autore, occorre considerare il rapporto tra autore e destinatario non come quello tra un individuo e la massa indifferente, ma come “un drammatico rapporto tra singolo e singolo democraticamente pari.”(44) Si tratta insomma di una sfida in cui entrambi sono collocati sullo stesso piano: il piano dell’opera.
Lo spettatore “per l’autore, non è che un altro autore,”(45) che partecipa della libertà autoriale godendo dello scandalo provocato dall’infrazione dell’ordine della conservazione:
In un certo senso quindi lo spettatore codifica l’atto incodificabile compiuto dall’autore che inventa, producendo su se stesso ferite più o meno gravi, e con questo asserendo la sua libertà di scegliere il contrario della vita regolamentatrice, e di perdere ciò che la vita ordina di risparmiare e conservare.
Lo spettatore in quanto tale, gode l’esempio di tale libertà, e come tale lo oggettiva: lo reinserisce nel parlabile. Ma ciò avviene al di fuori di ogni “integrazione”: in un certo senso al di fuori della società.(46)
Il dispositivo autoriale pasoliniano è dunque anche una macchina per l’esposizione della tortura che non può che catturare lo spettatore, così come avviene con l’immagine del suppliziato cinese che George Bataille utilizza, ne L’esperienza interiore, per illustrare il modo in cui possiamo essere coinvolti dalla morte.(47) Tramite il riferimento alle ferite la fisicità del corpo irrompe nell’opera a ricordarci che è di un autore “in carne e ossa” che stiamo parlando, ma soprattutto che il “martirio” di cui parla Pasolini, la sua condizione di vittima(48) – anticipando involontariamente la retorica della santificazione laica successiva alla sua morte – fa parte delle strategie d’irretimento dello spettatore presenti all’interno della sua opera, sin dagli esordi.(49) Si consideri, ad esempio, l’identificazione con il Cristo crocifisso che anima le sue prime prove poetiche: “Bisogna esporsi (questo insegna / il povero Cristo inchiodato?) / […] Noi staremo offerti sulla croce […] / per testimoniare lo scandalo.”(50) Così come le immagini del suppliziato cinese e di Cristo non ci permettono alcuna distanza di sicurezza dalla morte, ma nella loro esposizione radicale interpellano la nostra umanità, Pasolini esige dallo spettatore di non essere uno spettatore passivo, ma di uscire da sé ed entrare in comunicazione con l’altro.(51)
Una straordinaria metafora visiva di questo tipo di rapporto tra spettatore e autore, espresso attraverso un’alta coscienza metalinguistica, si trova in un’opera pittorica che occupa un posto centrale nella storia della cultura occidentale, ma anche nell’opera pasoliniana, di cui funziona in qualche modo come illustrazione: Las meninas (1656) di Diego Velázquez.
23 Pasolini, “Il cinema impopolare,” Nuovi Argomenti, 20, ottobre-diembre 1970; ora in SLA, Vol. I, 1600-1610.
24 Ivi, 1601.
25 Ivi, 1601-1602.
26 “E cerco alleanze che non hanno altra ragione / d’essere, come rivalsa, o contropartita, / che diversità,
mitezza e impotente violenza: / gli Ebrei…i Negli…ogni umanità bandita,” Pasolini, “La realtà,” Poesia in forma di rosa, TP, Vol. I, 1116.
27 Pasolini, “Il cinema impopolare,” SLA, Vol. I, 1601.
28 Ibidem.
29 Ibidem.
30 Ivi, 1602.
31 Ivi, 1600.
32 Cfr. Giuseppe Zigania, Hostia: Trilogia della morte di Pier Paolo Pasolini (Venezia: Marsilio, 2005).
33 Pasolini, “Il cinema impopolare”, 1608.
34 Intervista sul set di Uccellacci e uccellini, 1966, conservata presso la videoteca della Cineteca di
Bologna, Fondo Pier Paolo Pasolini.
35 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1610
36 In particolare, alla recensione dell’antologia Per conoscere Marinetti e il futurismo curata da Luciano De Maria (Milano: Mondadori, 1973) sul Tempo, il 7 ottobre 1973. Nel complesso dell’opera pasoliniana, questo è l’unico luogo in cui Pasolini si esprime in merito al padre del futurismo, e dimostra come la sua conoscenza fosse di fatto superficiale e tardiva, anche a causa dei pregiudizi ideologici che hanno reso complessa la ricezione e lo studio di Marinetti in Italia. Il giudizio di Pasolini sull’opera di Marinetti è sprezzante e sommario, nonostante proprio quest’ultimo abbia per primo fatto ricorso a un “genere” molto caro a Pasolini, quello del “cinema da farsi.”
37 Pasolini, “Il sogno del centauro. Incontri con Jean Duflot,” SPS, 1503.
38 Si veda, sempre in Empirismo eretico, il lungo saggio dal titolo “La fine dell’avanguardia.” Sulla
discussione generatasi dalle posizioni di Pasolini si vedano: Gian Carlo Ferretti, “Pasolini e l’avanguardia,” Rinascita, 3 febbraio 1967; Sergio Quinzio, “Pasolini e l’avanguardia,” Tempo presente, marzo 1967; Vittorio Spinazzola, “Due saggi contro l’avanguardia: ma leggiamo prima di giudicare,” Vie Nuove, XXII, 2 marzo 1967. Sull’intera questione offre un’interessante sintesi Alberto Bertoni, “Pasolini e l’avanguardia,” Lettere italiane, XLIX, 3 (luglio-settembre 1997): 470-80. Un approfondita ma non sempre condivisibile analisi si trova poi in Vincenzina Levato, Lo sperimentalismo tra Pasolini e la neoavanguardia (Soveria Mannelli: Rubbettino, 2002).
39 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1609. La metafora del lager è anche centrale per leggere il
posizionamento di Pasolini rispetto all’identità omosessuale, infatti, come si legge in un articolo di Scritti corsari, in quella che egli definisce la società del permissivismo sessuale: “tutto ciò che sessualmente è diverso è invece ignorato e respinto. Con una violenza pari solo a quella nazista nei lager” (Pasolini, “19 gennaio 1975. Il coito, l’aborto, la falsa tolleranza del potere, il conformismo dei progressisti,” Scritti corsari, SPS, 374). Il lager come spazio di annientamento della capacità contestatrice del soggetto e del corpo, è poi centrale sia in Salò, nell’ultima straziante scena di torture, che nel quarto sogno di Rosaura, la protagonista della tragedia Calderón, di cui ci occuperemo fra un momento.
40 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1610.
41 Benedetti, Pasolini contro Calvino, 172.
42 Cfr. Vittorio Russo, “L’Abiura dalla ‘Trilogia della vita’ di Pier Paolo Pasolini,” MLN, 108 (Gennaio 1993): 140-151.
43 Pasolini, “Il cinema impopolare,” 1605.
44 Ivi, 1602-3.
45 Ivi, 1602.
46 Ivi, 1603-4
47 George Bataille, L’esperienza interiore (Roma: Dedalo, 2003). La stessa immagine conclude anche il volume dedicato alla storia dell’eros Le lacrime di Eros (Torino: Bollati Boringhieri, 2004).
48 Il “meccanismo vittimario” descritto da Réne Girard ne La violenza e il sacro (Milano: Adelphi, 1992) può fornire un valido supporto per analizzare questo aspetto della psicologia di Pasolini. Stefania Rimini vi ha dedicato un recente volume, a cui si rimanda: La ferita e l’assenza. Performance del sacrificio nella drammaturgia di Pasolini (Roma: Bonanno, 2006).
49 Quello del martirio è per altro un motivo specificatamente ascrivibile all’estetica omosessuale e la sua presenza nella storia dell’arte e della letteratura può essere facilmente tracciata attraverso la figura di San Sebastiano. Che anche Pasolini avesse ben presente l’immagine di questo santo come “exemplary sufferer" (Susan Sontag), lo provano il dramma Porcile e la sua successiva versione cinematografica, dove il personaggio principale, Julian – la cui diversità sessuale è simbolizzata dalla sua passione per i maiali, che finiranno per divorarlo – è a un certo punto descritto come un “San Sebastiano manierista.” Proprio la pittura– che ha fatto di San Sebastiano uno dei propri soggetti privilegiati a partire dal ‘500 – ha contribuito fortemente alla diffusione nell’immaginario popolare della congiunzione tra l’idea di supplizio e quella di bellezza giovanile. Per un’interessante prospettiva sulla trasformazione di San Sebastiano da martire a icona omosessuale si veda la tesi di dottorato del francese, Karim Ressouni-Demigneux, La Chair et la
Fleche: Le regard homosexuel sur saint Sébastien tel qu'il etait representé en Italie autour de 1500, (http://semgai.free.fr/doc_et_pdf/pdf_these_articles_externes/ressouni.PDF). Nel romanzo dello scrittore giapponese Youkio Mishima, Confessioni di una maschera (1949), è proprio la visione di un San Sebastiano di Guido Reni a rappresentare il conflitto irrisolto del protagonista.
L’immagine del santo trafitto da frecce rappresenta il bisogno di punizione di una sessualità vissuta con profondo disagio. È questo anche il caso di Pasolini (cfr. Desiderio di Pasolini. Omosessualità, arte e impegno intellettuale, a cura di Stefano Casi [Torino: Edizioni Sonda, 1990], in particolare gli interventi di Nico Naldini e Giovanni Dall’Orto). Sono moltissimi gli scrittori che hanno ripreso la figura del San Sebastiano martire nelle loro opere, ad esempio Proust (ispirato dal Mantegna), o Thomas Mann, che in Morte a Venezia descrive il santo come “un nuovo tipo di eroe.” Lo stesso anno, il 1911, Gabriele d’Annunzio scrive in francese, con musica di Debussy, Il martirio di San Sebastiano, che susciterà profondo scandalo per il ruolo di protagonista affidato a Ida Rubinstein. L’opera di d’Annunzio ha certamente contribuito al consolidamento del mito androgino del santo e alla sua fortuna. Tra i registi, influenzato anche dall’estetica di Pasolini – che ha per altro interpretato nel film documentario di Julian Cole, Ostia (1991) – va ricordato Derek Jarman e il suo Sebastiane (1976).
50 Pasolini, “La crocifissione,” TP, Vol. I, 467-68. La poesie reca in epigrafe una citazione dalla Lettera ai Corinzi di San Paolo: “Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili.”
51 Per Bataille, che legge proprio nella figura del torturato cinese in chiave cristologica, questa
“comunicazione con l’altro” è il fondamento dell’esperienza mistica.
Tratto da:
In the Theater of my Mind:
Authorship, Personae, and the Making of Pier Paolo Pasolini’s Work
Gian-Maria Annovi
Submitted in partial fulfillment of the
requirements for the degree of
Doctor of Philosophy
in the Graduate School of Arts and Sciences
COLUMBIA UNIVERSITY
2011
© 2011
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