"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
PROFONDO NERO
Ospite a Potpourri, Martina Di Matteo, autrice insieme ad altri degli undici capitoli del quaderno monografico "Pasolini profondo nero".
"La mole di dati e notizie che hanno costruito, senza mai darle un senso, la storia dell'omicidio di Pier Paolo Pasolini, ha sinora i tratti di una sola certezza: quella notte fu arrestato un ragazzo, un minorenne, rimasto per la storia giudiziaria l'unico responsabile della morte di Pier Paolo Pasolini".
Comincia la ricostruzione di cosa avvenne nella notte tra il 1° e il 2 novembre 19875. Dalla teoria del complotto all'esistenza di un'altra auto sul luogo del delitto fino a ipotesi di coinvolgimenti nella "lotta di potere" legata al suo ultimo romanzo uscito postumo, "Petrolio", Pasolini sapeva qualcosa di scomodo oppure è morto come altri sostengono per la sua vita sregolata. Dove la verità? Ecco le ultime novità sul caso ancora irrisolto e fitto soprattutto di personaggi dell'attualità italiana, fino alle ultime dichiarazioni di questi giorni.
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
«Io so.
Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969.
Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974.
Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974).
Io so i nomi delle persone serie e importanti che stanno dietro ai tragici ragazzi che hanno scelto le suicide atrocità fasciste e ai malfattori comuni, siciliani o no, che si sono messi a disposizione, come killer e sicari.
Io so tutti questi nomi e so tutti i fatti (attentati alle istituzioni e stragi) di cui si sono resi colpevoli.
Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.
Io so perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani, che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Credo inoltre che molti altri intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto intellettuale e romanziere.
Perché la ricostruzione della verità a proposito di ciò che è successo in Italia dopo il '68 non è poi così difficile».
Pier Paolo Pasolini (dal "Corriere della Sera", 14 novembre 1974)
Pier Paolo Pasolini nacque a Bologna nel 1922. Seguì il padre, che era militare di carriera, nei suoi trasferimenti. Frequentò però il liceo e l'università a Bologna, dove ebbe maestri Contini e Longhi e frequentò Leonetti e Roversi, e dove si laureò in Lettere con una tesi sul linguaggio del Pascoli, nel 1945. Trascorreva le estati a Casarsa, nel Friuli, luogo d'origine della madre; e là si era rifugiato dopo I'8 settembre 1943, per sottrarsi alla chiamata di leva. In friulano compose i suoi primi versi, "Poesie a Casarsa" (1942), poi editi con altri testi friulani in "La meglio gioventù" (1958). Nel 1945 ebbe la notizia che il fratello Guido era stato ucciso in un conflitto a fuoco fra due gruppi partigiani di diverso orientamento politico. Nel 1947 si iscrisse al Partito Comunista. Avviatosi alla carriera dell'insegnamento, vicino a Casarsa, venne allontanato dall'insegnamento e poi anche espulso dal PCI in seguito a un oscuro episodio di omosessualità che sfociò in un processo per corruzione di minori. È questo il primo di una lunga serie di processi (oltre 30) che diedero a Pasolini la coscienza della propria diversità e ne segnarono il destino (e anche il ruolo pubblico, che egli si ritagliò) di emarginato e ribelle.
In seguito allo scandalo nel 1949 dovette lasciare Casarsa, assieme alla madre (i rapporti con il padre si erano già deteriorati), e si trasferì a Roma, stabilendosi dapprima in una borgata e vivendo di lezioni private e dell'insegnamento in una scuola privata. La scoperta del mondo del sottoproletariato romano gli ispirò - oltre ad alcuni dei versi contenuti nelle "Ceneri di Gramsci" (1957) e nella "Religione del mio tempo" (1961), che seguivano quelli dell' "Usignuolo della Chiesa cattolica" - soprattutto i romanzi "Ragazzi di vita" (1955) e "Una vita violenta" (1959), che fecero scandalo, ma lo avviarono al successo letterario. Con gli antichi compagni d'università Leonetti e Roversi fondò e diresse, dal 1955 al 1959, la rivista «Officina», che vide fra i collaboratori Fortini, Volponi e altri importanti critici e letterati militanti.
Cominciava intanto la sua attività nell'ambito del mondo cinematografico: collaborò ad alcune sceneggiature (anche per le "Notti di Cabiria" di Fellini), quindi a partire dal 1961 diresse numerosissimi film, da "Accattone" a "Uccellacci e uccellini", da "Edipo re" a "Teorema", da "Medea" al "Decameron". Molti di questi film fecero scandalo, come i romanzi, e in qualche caso costarono a Pasolini processi e condanne. Negli anni Sessanta pubblicò "ll sogno di una cosa" (un romanzo scritto nel 1949), scrisse alcune tragedie, altri versi ("Poesia in forma di rosa", 1964; "Trasumanar e organizzar", 1971) e svolse un'ìntensa attività di critico militante su vari giornali e riviste (fra l'altro diresse con Moravia e Carocci «Nuovi Argomenti»), attività che, dopo la raccolta "Passione e ideologia" (1960), sfociò in numerosi volumi, in parte usciti postumi: da "Empirismo eretico" (1972) e "Scritti corsari" (1975) a "Descrizioni di descrizioni" (1979). Morì assassinato a Ostia in circostanze oscure nel 1975.
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Eretico e Corsaro
La più importante documentazione fotografica su "Il fiore delle mille e una notte" anche a Genova
Palazzo Ducale
organizzata da Art Commission
Curata da Virginia Monteverde Dal 03 al 21 maggio 2014
Dopo il grande successo avuto in giro per il mondo: - Il Museo Galleria - Spagna - Fundación Luis Seoane - "A Coruna"
- Il Centro Studi Pasolini - Cineteca di Bologna - la più importante cineteca Europea
- L'Istituto Italiano di Cultura - Brasile - MSI - Museu de Imagem e do Som de Sao Paulo
- il Centro Studi Pasolini - Casarsa della Delizia
- L'Istituto Italiano di Cultura - USA - New York - MoMA - NY
- L'Istituto Italiano di Cultura - UK - Londra
- L'Istituto Italiano di Cultura il Consolato e l' Ambasciata di Buenos Aires
- La Cinemateca e Galleria - Buenos Aires - Cinemateca Argentina e Fotogalería San Martin
- L'Istituto Italiano di Cultura - USA - il Consolato di Los Angeles
- L'Ambasciata e l' Istituto Italiano di Cultura - Estonia - Tallin - Galleria "Design and Architecture Gallery"
- L'istituto Italiano di Cultura, 496 Huron St, Toronto L'oriente di Pasolini, Il fiore delle Mille e una notte, nelle immagini di Roberto Villa, la più importante documentazione fotografica su "Il fiore delle Mille e una notte" anche a Genova, Palazzo Ducale.
Dal 03 al 21 maggio 2014, presso Palazzo Ducale, spazio 46 rosso,Piazza Matteotti n°9, Genova.
Può raccontarci il suo arrivo sul set?
Come nei racconti di appendice „circa sei mesi dopo‟ ero ad Aden, dove continuavano le riprese già iniziate in Eritrea. Pasolini era concentratissimo nella lettura e riscrittura di un fascicolo di carte, con mille foglietti mobili, il copione. Sembrava che nulla lo disturbasse. E comunque tutti i collaboratori, sia sul set in interni sia in esterni, stavano attenti a non disturbarlo. Ogni tanto qualcuno sussurrava “speriamo bene”. Era dovuto al timore di cambiamenti o imprevisti che potessero complicare le attività che ruotavano intorno alle riprese, già complicate. Pasolini era onnipresente e discreto al tempo stesso, non si imponeva mai ma era circondato da una forma di stima e simpatia molto intensa da parte dei suoi collaboratori, tanto che quando esprimeva una necessità, tutti si facevano in quattro per soddisfarlo. Probabilmente era dovuto al suo modo di fare gentile e disponibile ma anche molto determinato e deciso. Pasolini appariva instancabile, più che correre volava, direi, si arrampicava sui muri con la cinepresa per vedere quale potesse essere la migliore inquadratura, correva da una parte all‟altra del grande piazzale della moschea di Isfahan per controllare campo e controcampo, sostituiva spesso l‟operatore e riprendeva direttamente la scena, parlava con Dante Ferretti per le scenografie e l‟impiego dei costumi, in sostanza copriva una dozzina dei ruoli dettagliati nei titoli di coda. L‟aiuto Umberto Angelucci, l‟assistente Peter Shepherd, il direttore della fotografia Giuseppe Ruzzolini, il direttore di produzione Mario Di Biase avevano da tempo rinunciato a tenergli dietro. Come accadeva per altre troupe italiane, la giustapposizione dei ruoli era una costante: gli attori diventavano carpentieri, i trasportatori del posto diventavano comparse, la giovane iraniana diventava una controfigura in una scena di nudo e un ragazzino italo-persiano diventava una paffuta fanciulla in un episodio del film... La scelta di ragazzi del popolo, completamente ignari di recitazione e dizione, obbligava Pasolini a infinite ripetizioni di una stessa scena. Una di queste a Isfahan, sul piazzale della moschea, è stata ripetuta ben quarantatré volte. Furono lunghe anche le riprese della sequenza di Zumurrud e Nur ed-Din, quando si ritrovano e lei gli infligge quel piccolo gioco sadico, mettendolo a sedere all‟aria. Era ambientata nella sala degli specchi, che in realtà era la parte alta di una navata della moschea: un sacrilegio che, se fosse stato scoperto, sarebbe costato caro a tutti. Accadeva che si facessero levatacce alle quattro di mattina, o di notte a seconda dei punti di vista, per muoversi con dei pullman scassati per raggiungere luoghi da favola che le lunghe ombre rosate dell‟alba rendevano ancor più fantastici.
Intervista realizzata da Roberto Chiesi a Bologna l’11 febbraio 2011
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
Pasolini e le borgate: un'intervista a Franco
Citti
di Stefano Milioni
Dall'altra parte Fiumicino e' fredda e grigia all'alba. Franco Citti
passeggia in riva al mare misurando malinconia e gratitudine. Vent'anni di
interviste sull'autore di "Accattone" sembrano non aver esaurito i ricordi.
Mentre l'attore romano racconta si compone il ritratto di un Pasolini
inconsueto: non l'intellettuale, ma l'amico. L'interprete solitario e opportuno
di una capitale "borgatara". "Guarda, l'abbiamo detto un miliardo di volte io e
mio fratello. E' assolutamente escluso che sia stato Pelosi. Lì c'e' un
chilometro quadrato di strage. E' stato massacrato, e una sola persona non
riesce a fare quelle cose. Ci sono troppe cose oscure, dietro. Anche politiche,
naturalmente". La voce di Franco Citti, indimenticabile volto del cinema di Pier
Paolo Pasolini, e' aspra e tagliente. Cosi' come i suoi pensieri, del resto. "Sono andato via da Roma innanzitutto perche' cominciavano a sparire le borgate
e con loro i miei amici. E quando non hai piu' le borgate ti rifugi al mare. E'
per questo che sono venuto a vivere a Fiumicino. C'e' un senso di morte, qui
intorno, che mi piace. Forse io sono gia' morto, qui, in questa solitudine che
amo e che mi mette allegria. Anzi, io sono vivo perche' sto a Fiumicino. Forse
se stavo a Roma ero gia' morto". Come hai conosciuto Pasolini? "Tramite mio
fratello Sergio, in una pizzeria di Torpignattara. Lui mi ha detto: 'A Fra', te
presento 'no scrittore, 'n amico mio." Lui era gia' conosciuto, allora? "No. In
quel periodo scriveva delle poesie in friulano, quelle cose dei primi tempi". Quindi tu non sapevi proprio chi era? "No. All'inizio ho creduto addirittura che
fosse analfabeta. Faceva il maestro elementare a Ponte Mammolo. Mio fratello
m'ha detto. E' 'no scrittore, magnamose 'na pizza assieme. Io ero tutto sporco
di calce perche' lavoravo come muratore con mio padre. Ci siamo conosciuti li' e
abbiamo cominciato a frequentarci". E che impressione ti ha fatto all'inizio
Pasolini? "Quella di una persona normale. Non ci pensavo molto al fatto che lui
scrivesse. Se scriveva a me che me fregava? A volte succedeva che gli davo
qualche battuta in romanesco e lui se l'appuntava". Pasolini metteva nei suoi
libri i racconti che gli facevate tu e Sergio? "A Paolo piaceva soprattutto lo
spirito, il modo delle borgate romane, questa gente allegra, tanto e' vero che
lui ci passava quasi tutto il tempo della sua vita con noi, nelle borgate. E
cosi', essendo uno scrittore guardava cio' che gli accadeva intorno, e daje e
daje, tirava fuori 'sti libri. Ma quello che piu' mi ha interessato e' quando mi
ha detto che mi avrebbe fatto fare una parte nel suo film". E tu come hai
reagito? "Sai, io sono un pessimista nato, non e' che ci credo molto alle cose
che mi offrono. Cosi' gli ho detto: Vabbe', a Paolo, quando lo faremo lo faremo.
Lui mi ripeteva: hai una bella particina. Vedrai che lo faremo. E cosi' un
giorno e' nato 'sto cavolo di Accattone". Mentre lo giravi ti sentivi nella
parte o era qualcosa che non ti apparteneva? "Mi sentivo a mio agio perche' l'ho
girato con tutti i miei amici della borgata. Giocavamo un po' in casa. E poi
quelle avventure, quelle storie, mi piaceva farle. Per il film ho anche dovuto
leggere Ragazzi di vita. Che poi, che vuol dire ragazzo di vita non l'ho mai
capito". Giravate a Torpignattara? "Torpignattara, il Pigneto, Testaccio,
Pietralata. Andavamo in tutta la periferia di Roma. Il film e' andato avanti per
un po' in questo modo. Lui ci ha diretto, pero' noi eravamo liberi di fare
quello che eravamo". Avevate quindi la possibilita' di inserire cose proprio
vostre, personali... "Sai, i dialoghi erano gia' un po' scritti e Pier Paolo li
scriveva con mio fratello Sergio, pero' qualche battuta che in doppiaggio
sembrava migliore l'abbiamo messa. Accattone, pero', e' rimasto cosi' come
l'abbiamo girato, e infatti e' un bel film proprio perche' e' spontaneo, non
c'era nessun attore professionista e l'abbiamo fatto di corsa. Con qualche
impiccio di mezzo. 'Sti personaggi che facevano gli attori insieme a me, io
compreso, qualche mattina non venivano proprio, chi andava a sfacchina', chi
andava a fa' altre cose, allora era un po' complicato". Si trattava di problemi
pratici e non finanziari. "Finanziariamente non c'erano problemi. Credo che il
film costasse piuttosto poco. Io, ad esempio, prendevo ottomila lire al giorno.
Ho lavorato otto settimane, piu' il doppiaggio, diciamo che avro' lavorato circa
un anno e ho preso all'incirca un milione e trecentomila lire di oggi". Quando
ti rivedi in "Accattone" che impressione hai? "Cerco di non rivedermi". Perche'? "Perche' ormai quel film lo conosco a memoria, come gli altri, del resto. A
volte fanno Accattone in tivvu', io ho anche le cassette, ma cerco di evitare di
vederlo. Ma non perche' sia invecchiato, ma e' perche' mi piacerebbe rivederlo
con le persone adatte. Con quelli che all'epoca contestarono il film, ad
esempio". Come e' cambiata la tua vita dopo "Accattone"? "In peggio. Vedi, il
rapporto con Pasolini e' stato per me, in un certo senso, distruttivo, perche'
non e' che io amassi proprio fare il cinema, ma nello stesso tempo so che dovevo
farlo, forse anche solo per amicizia. E, come ti ho gia' detto, per certi versi
mi affascinava, come quando lavoravo con gli amici miei. Poi pero' sono stato
costretto a lavorare con altre persone che non conoscevo, e mi rompevo i
coglioni perche' non erano leali con me. Miravano al successo, capisci? Allora
qualcuno, magari, si e' permesso di dire: Ma sai, quello e' un borgataro". Che
tipo di rapporto avevi con Pasolini? "Lui era un po' come un padre. Aveva una
grande paura di me. Gli potevo sparire da un giorno all'altro, senza finire il
film. E' successo mentre facevamo Mamma Roma con la Magnani. Ho avuto una
disavventura con la polizia. Ho litigato con una guardia e m'hanno arrestato per
oltraggio. Mi sono fatto una ventina di giorni e poi sono uscito". Il film e'
stato interrotto per questo motivo? "No. Hanno messo mio fratello di spalle,
tipo controfigura. E dopo quell'episodio, quando abbiamo fatto Edipo Re, Pier
Paolo e' stato costretto a mettere nell'albergo due guardie in borghese, in modo
che non uscissi. Ma, sai, io il cinema l'avevo preso nel senso del divertimento.
Professionalmente non e' che mi interessasse piu' di tanto". Se non sbaglio era
proprio Pasolini a dirti che tu dovevi fare semplicemente te stesso e non
recitare. "Si', tanto e' vero che ha cercato di non farmi diventare ne'
francese, ne' inglese, ne' americano. Avevo molte richieste, allora. Il mio
terzo film l'ho fatto con Marcel Carne'. Poi ho lavorato in America. Ho fatto
due padrini con Coppola. Il primo e il terzo". Non ti ha mai pesato la figura di
Pasolini? "In un certo senso si'. Io ero l'immagine del suo cinema, e non e'
detto che potessi essere l'unica. Poteva anche trovare qualcun altro, e forse
sarebbe stato meglio per me, avrei seguitato a fare il muratore, il pittore.
Certo, sono contento di aver fatto il cinema con lui, mi ha dato la possibilita'
di stare meglio anche economicamente pero', se tornassi indietro non so se lo
rifarei il cinema. Perche' sono trentacinque anni di domande e, in fondo, il
contatto con una persona e' quello, niente di piu', niente di meno. Ogni tanto
ti puoi ricordare una cosa in piu', pero', ecco, Pasolini parla con le sue
immagini, con la scrittura. E chissa' quante volte non mi avra' detto certe
cose". Che importanza avrebbe avuto Pasolini nella societa' di oggi? "Pensa
quante cose ci avrebbe raccontato con la sua scrittura o attraverso le
immagini". Che poi, se ci pensi, ci sono molte realta', e tensioni da raccontare
qui in Italia... "Si', certo. Io penso che se Pasolini fosse stato in vita i
giovani di oggi non sarebbero stati cosi'. Lo avrebbero amato e lui avrebbe
amato la gioventu' di oggi, gli avrebbe dato un insegnamento nella scrittura e
nel cinema. Ho letto pochissime cose di Pier Paolo, ma l'ho conosciuto bene ed
e' stata la persona piu' umana che abbia incontrato. Lui era il padre di tutti
noi, delle borgate, ed e' stato molto amato. Per noi era il Baggio della
situazione, quello che risolveva tutto. Faceva l'elemosina ai poveri, quando ha
incominciato a fare due lire andavamo sempre a mangiare, invitava tutti. Era una
famiglia allegra. Ed io sono sicuro che rimarra' per sempre, anche per quelli
che non l'hanno mai letto". Qual'e' il sentimento piu' forte che ti ha lasciato? "Mi ha lasciato il sentimento di una grande guerra, di una lotta continua con la
gente. Ma, ti ripeto, e' la persona piu' umana che abbia conosciuto. Non ho piu'
trovato un altro cosi', uno che chiedeva alle comparse: Per favore, mettiti
cosi'. Era di una dolcezza straordinaria, ed e' quella che mi manca di piu'. Era
un padre, capisci? Una guida sulla retta via. Stefano MILIONI
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
”Caro, angelico Ginsberg…” Pasolini, beat generation e sessantotto
”Caro, angelico Ginsberg…”
di Maurizio Acerbo
La fin troppo celebre poesia “Il PCI ai giovani” scritta dopo i fatti di Valle Giulia ha lasciato dietro di sé un’immagine di Pasolini assai deformata. Sovente si dimentica che la polemica di Pasolini non è con il sessantotto in quanto tale, inteso come fenomeno mondiale, ma con alcuni caratteri specifici della cultura e taluni atteggiamenti del movimento in atto nelle università italiane e, successivamente, dei gruppi della nuova sinistra. Ma il risalto che ebbero ai tempi le polemiche, rinvigorito da ogni anniversario, mi sembra oscuri la complessità della ricerca pasoliniana e la ricchezza del suo approccio politico.
Per esempio pare cadere nell’oblio il suo entusiasmo per la beat generation e il movement americano, e in particolare la sintonia con Allen Ginsberg. “Io amo Ginsberg: era tanto che non leggevo poesie di un poeta fratello [...] Egli è una vivente contestazione”, scrive Pasolini in Poeta delle ceneri, una composizione scritta nell’agosto del ’66, ma pubblicata soltanto nel 1980. Difficile sostenere la tesi di un Pasolini dai paradigmi culturali datati distante dallo spirito libertario delle rivolte giovanili come è stato autorevolmente scritto anche su Queer. Si dimentica spesso che la nuova sinistra neomarxista italiana, non solo il P.C.I., fin dai primi anni ’60 sui Quaderni Piacentini, ebbe un atteggiamento negativo sia nei confronti di Pasolini che dei beats. Mentre Pasolini pensava a Kerouac quale possibile interprete di Cristo nel Vangelo (l’influenza dei beats diventa evidente in Porcile e Teorema), QP inseriva l’autore di Sulla Strada tra i “libri da non leggere”. Una doppia incomprensione che non era casuale, bensì insita nel codice genetico che caratterizzò nel bene e nel male quei gruppi di intellettuali “eretici”. Pasolini in “Trasumanar e organizzar” ben tratteggerà un carattere di fondo sotteso al marxismo eretico degli anni ’60 e ’70: “E pensare che la ribalda e superba gioia giovanile di possedere una novità eretica non contiene (né altro può essere) che nuova ortodossia; [...] L’eretico, dunque, non cercò con disinteressato amore l’eresia: non se lo sognò nemmeno ! Oppose serietà a serietà; ricercò la purezza originaria del pensiero. Lottò in realtà per la vera ortodossia”. Da qui nasce quell’atteggiamento neo – zdnadoviano e, spesso involontariamente neostalinista, che Pasolini in Empirismo eretico imputava a gran parte delle riviste “ispiratrici in genere dei leaders del Movimento studentesco” e “soprattutto dei gruppi che ruotano intorno a loro”. Cosa suscita l’interesse di Pasolini nell’esperienza del “fratello” americano ? Basta leggere una lettera a Ginsberg datata ottobre 1967:
“Caro, angelico Ginsberg, ieri sera ti ho sentito dire tutto quello che ti veniva in mente su New York e San Francisco, coi loro fiori. Io ti ho detto qualcosa dell’Italia (fiori solo dai fiorai)… queste sono state le nostre chiacchiere. Molto, molto più belle le tue, e te l’ho anche detto il perché…Perchè tu…sei costretto a inventare di nuovo e completamente – giorno per giorno, parola per parola – il tuo linguaggio rivoluzionario. Tutti gli uomini della tua America sono costretti, per esprimersi, ad essere inventori di parole ! Noi qui invece (anche quelli che hanno adesso sedici anni) abbiamo già il nostro linguaggio rivoluzionario bell’e pronto, con dentro la sua morale. Anche i Cinesi parlano come degli statali”.
Pasolini e i beats hanno in comune la consapevolezza di vivere dentro una grande trasformazione (che gli States hanno vissuto in anticipo): “Siamo tutti coinvolti in questa fine di un mondo”. Come i beats nei confronti dei wobblies, rimane sentimentalmente legato alle “belle bandiere degli Anni Quaranta!”. Ma, per lui come per loro, “bisogna saper ricominciare”. “Sopravviviamo: ed è la confusione di una vita rinata fuori della ragione”, aveva scritto in Poesia in forma di rosa nel 1964. È lì che “qualcosa si è rotto: forse era la presenza, ancora a me non direttamente nota, della nuova sinistra americana, e l’operare lontano di Ginsberg”. Il Pasolini che critica il trionfalismo per gli scontri di Valle Giulia racconta con autentico entusiasmo le manifestazioni della new left americana cui assiste nella sua visita del ‘66:
“Coloro che appartengono alla Nuova Sinistra si riconoscono a prima vista, e nasce tra loro quella specie di amore che legava i partigiani. Chi non ha visto una manifestazione pacifista e nonviolenta a New York, manca di una grande esperienza umana, paragonabile solo ai grandi giorni della Speranza degli anni Quaranta”.
Mentre la sinistra italiana, in tutte le sue varianti, snobbava il fenomeno, Pasolini “marxista a New York” ne coglie la valenza forse con una profondità che non incontriamo neanche nella stessa Fernanda Pivano. Si legga il lungo articolo intitolato “Guerra civile” che pubblica su Paese Sera al ritorno in Italia (poi in Empirismo eretico). Le critiche che ha ascoltato da parte degli attivisti del SDS nei confronti dei “comunisti” le adotta apertamente perché confermano le opinioni che aveva sviluppato nei suoi viaggi in Cecoslovacchia, Romania e Ungheria dove “la rivoluzione non è continuata” e gli operai “sono dominati da una burocrazia che di rivoluzionario ha solo il nome”. Sembra che non sia stato fermo un attimo in quei dieci giorni, racconta tutte le sfaccettature dell’Altra America. Lamenta quella che per lui è la caratteristica negativa della vita americana, cioè la “mancanza della coscienza di classe, immediato effetto dell’idea falsa di sé di ogni individuo immesso nell’ambito dei privilegi piccolo – borghesi del benessere industriale e della potenza statale”. E’ la visione di quella che chiamerà “entropia borghese”. Ma nota che “la straordinaria novità è che la coscienza di classe albeggia negli americani in situazioni del tutto nuove e quasi scandalose per il marxismo”. La democrazia radicale, “estremista”, del movement seppur condita di “ontologie ingenue” gli appare più vitale di quello che era per lui lo “snobismo estremistico” e “il ritorno degli schemi ideologici primitivi del marxismo”. “Bisogna gettare il proprio corpo nella lotta”, “Ecco il nuovo motto di un impegno reale, e non noiosamente moralistico”. ”Chi c’è in Italia, in Europa, che scrive spinto da tanta e così disperata forza di contestazione ?”. Provate a leggere cosa scriveva all’epoca persino Italo Calvino! Nella famigerata “brutta” poesia è esplicito il riferimento ai “vostri adorabili coetanei americani” che stanno “inventando un linguaggio rivoluzionario nuovo”. Ed anche alla nonviolenza creativa che Ginsberg indicò al movimento pacifista con il manifesto per la marcia del 1965 a Berkeley: “In questi casi, ai poliziotti si danno i fiori, amici”. L’indicazione di un altro sessantotto possibile, dove la rottura con i propri padri borghesi fosse più autentica.
L’omosessualità sicuramente rende Pasolini particolarmente sensibile alle tematiche beat. Mentre i beats con incredibile franchezza da anni irrompono nel dibattito pubblico con la gay liberation, nell’Italia del 1969 Pasolini è costretto a lamentarsi della latitanza dei gruppi neorivoluzionari di fronte alla caccia all’omosessuale scatenata dal caso Lavorini. Pasolini non fu mai un sostenitore dell’importazione passiva del modello della controcultura americana, non si entusiasmò per i capelloni negli anni sessanta né per Re Nudo nei settanta, liquidò film come Zabriskie Point e forse anche Easy Rider. Anche rispetto al diffondersi dell’interesse per il buddismo e l’induismo precisò di “non amare allargamenti culturali di carattere sottoculturale”. Nel 1973 con “il discorso dei capelli” Pasolini critica l’ormai istituzionalizzata moda dei capelli lunghi, perché “la loro libertà di portare i capelli come vogliono, non è più difendibile, perché non è più libertà”, quando nella pubblicità è ormai assolutamente inconcepibile prevedere un giovane che non abbia i capelli lunghi”. Ginsberg aveva già parlato di “esaurita potenza degli hippies”. 3 anni più tardi sarà il punk a dargli ragione. I vecchi beats furono riconosciuti come precursori dalla nuova scena. Pasolini non c’era più, ma in qualche modo aveva anticipato il no future. Patti Smith gli rese omaggio.
"Le pagine corsare " dedicate a Pier Paolo Pasolini
Eretico e Corsaro
La figura del corvo e la
sua evoluzione in chiave ideologica di Luca Mauro Almanacco Culturale
Indipendente
Introduzione Quando il film Uccellacci e
uccellini uscì correva l'anno 1965, e Pier Paolo Pasolini aveva già girato
opere importanti come Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo
Matteo e La ricotta. In ognuno di questi film il regista aveva
palesato chiaramente la propria ideologia, che non aveva mai esitato a
rappresentare il contrasto fra due mondi antitetici quali quello della borghesia
e quello del proletariato, denunciando le miserie e la corruzione morale della
prima e descrivendo la povertà del secondo. Pasolini si sentì sempre più vicino
al sottoproletariato e al proletariato delle classi umili degli strati sociali
più bassi dei luoghi in cui visse, e avendo perso ogni fiducia nella positività
del progresso economico come prodromo di un miglioramento della vita sociale,
riconobbe nella società più povera un tipo di purezza talmente elevato da poter
far sperare in una totale rigenerazione dell'intera umanità.
Pasolini tuttavia descrisse
Uccellacci e uccellini come un film completamente diverso dai suoi lavori
precedenti, non solo per l'originalità della sua realizzazione, ma anche per la
formula che lo contraddistingue, che secondo le stesse parole del regista, è
quella propria della favola "ideo-comica", che tramite il suo surrealismo
allegorico e allusivo cela quello che si manifesta come il senso dell'intera
pellicola. Il film è imperniato sulla crisi dell'ideologia marxista degli anni
cinquanta, e proprio questo soggetto rende l'opera una sorta di spartiacque sia
all'interno della carriera cinematografica del regista, sia nella stessa vita di
Pasolini, il quale visse in prima persona la decadenza non soltanto politica di
un'intera epoca. Uccellacci e uccellini appartiene a una categoria di
pellicole che è definita "film della crisi", che del ripensamento e ripiegamento
ideologico-politico successivo alla morte di Togliatti fa il proprio tema
specifico, e che fa parte non soltanto della nostra storia cinematografica ma
anche della nostra storia ideologica e politica degli anni
sessanta.
Il nucleo della scientificità del
marxismo aveva lentamente perso la propria importanza alla fine degli anni
cinquanta, in un periodo denso di sconvolgimenti sociali, causati in primo luogo
dal boom economico, che insieme al progresso delle nazioni più industrializzate
dell'Occidente, aveva portato con sé anche elementi negativi quali il
progressivo distacco dai paesi più poveri e meno ricchi di risorse. Dal
possibile avvento di una dittatura del proletariato, alla fine degli anni
quaranta, si era giunti in breve tempo all'imborghesimento del sottoproletariato
e del proletariato. Insieme al crollo del marxismo si era dissolto il sogno di
Pasolini, che vedeva approssimarsi sempre più concretamente un mondo dove il
comunismo e la lotta di classe avrebbero determinato un nuovo modello di vita
per l'umanità intera. Questo processo irreversibile che vedeva le classi
subalterne dirette verso il mondo della vita piccolo-borghese e l'omologazione
dei consumi della società capitalistica, spinsero Pasolini a riflettere sia sui
propri ideali di uomo e di artista, sia riguardo all'ideologia marxista,
rispetto a cui la sua opera di poeta-regista era stata fino allora
indissolubilmente connessa.
Non ci si è potuti esimere dal fare
questa sintetica premessa relativa alla biografia del regista friulano, per
spiegare con maggiore chiarezza come fosse nato un film intenso e
ideologicamente complesso quale Uccellacci e uccellini, e quale fosse il
significato dei simboli in esso contenuti (più specificatamente riguardo al
personaggio del Corvo).
Il film narra le vicende di due
viandanti (padre e figlio, rispettivamente Totò e Ninetto Davoli) che sono
avviati su una strada (metafora della storia), e che percorrono in realtà senza
una meta precisa, discorrendo senza troppa cognizione di causa sia di argomenti
esistenziali sia degli avvenimenti e delle esperienze che li vedono protagonisti
in questo viaggio. A un tratto questi due personaggi si imbattono in un Corvo,
parlante in forma estremamente umana, che fa loro da compagno di viaggio,
enunciando precetti dotti, spiegando concetti in chiave moralistica e
pedagogica, fino all'inevitabile momento in cui è divorato dai due uomini. Il
Corvo e i due viandanti svolgono le due funzioni fondamentali dell'opera: l'uno
è il saggio, l'ideologo, l'intellettuale marxista cosciente della crisi in atto
ma ancora troppo legato all'mmediato passato; Totò e Ninetto invece sono i
rappresentanti del popolo e si caratterizzano per un'innocenza intimistica e
un'ingenuità proprie della classe sociale a cui appartengono.
In questa sede si è deciso di
eseguire un'analisi sulla natura ideologica e sulla psicologia del personaggio
rappresentato dal Corvo, partendo dalla descrizione di quale fosse la concezione
di base di Pasolini relativa al compagno di viaggio dei due viandanti, su quale
fu la sua metamorfosi e su come essa mutò col tempo nella mente del regista,
fino a raggiungere lo stato definitivo. Per questa ragione si è ritenuto che
limitarsi a considerare il Corvo solamente secondo quella che fu la sua parte
nel film a montaggio ultimato, avrebbe privato del vigore sia moralistico sia
polemico caratteristico del personaggio, rendendo l'intero impianto dell'opera a
tratti eccessivamente evasivo o teorico. Molti passaggi dell'opera
cinematografica che vedono il Corvo protagonista si rivelano eccessivamente
enigmatici, e solo comparando il film con la sceneggiatura iniziale, nonostante
l'essenza del personaggio sia in sostanza la medesima, risulta palese come la
sua figura e i suoi messaggi siano stati stravolti.
La metamorfosi del Corvo e della
figura da lui rappresentata risultano talmente palesi, sì che molti critici
cinematografici di allora affermarono che forse sarebbe stato più corretto
"interpretare sceneggiatura e film come due opere totalmente distinte,
accomunate solo dalla similitudine del tema affrontato e dalla paternità
dell'autore" [1].
In questa sede si è ritenuto
opportuno seguire la metamorfosi del personaggio del Corvo, dalla concezione
iniziale di Pasolini, e poi seguendo la sua evoluzione, eseguire un confronto
fra sceneggiatura e film. Inoltre si è pensato di abbinare agli episodi più
significativi in cui il volatile si rende protagonista con le citazioni tratte
sia dalla sceneggiatura sia dal film, affinché potessero essere più lampanti sia
l'essenza dei discorsi del Corvo, sia la maggiore o minore presenza
autobiografica di Pasolini relativa alla crisi del marxismo presente in essi.
Queste citazioni sono rappresentate tramite degli "esempi" che seguendo la trama
di Uccellacci e uccellini, descrivono i pilastri su cui l'ideologia
marxista si è espressa, e su cui Pasolini aveva profondamente riflettuto (lo
sfruttamento, la lotta di classe, la contestazione verso la borghesia
ecc.).
1. Le fasi del corvo secondo
l'ideologia di Pasolini Come lo stesso Pasolini scrisse,
"l'idea del Corvo è passata attraverso varie fasi". [2] Inizialmente il regista
concepì il personaggio del Corvo per un semplice racconto, dove esso avrebbe
dovuto rappresentare uno spirito saggio in grado di enunciare concetti
moralistici e pedagogici. Una sorta di riesumazione del grillo parlante
collodiano, espresso questa volta in chiave volatile.
Poi l'indole moralista del Corvo è
mutata secondo un'ottica più complessa, fino a diventare quella di un filosofo,
ed è a questo punto che Pasolini decise di fare del racconto un film. Nel maggio
1965 Pasolini pubblicò sul settimanale Vie Nuove tre diversi soggetti
cinematografici, L'aigle, Faucons e moineaux e Le
corbeau, con lo scopo di sottoporli al giudizio dei lettori. Alla fine
del montaggio solo i primi due avrebbero costituito l'impianto di Uccellacci
e uccellini. Quindi il Corvo avrebbe mutato ancora una volta la propria
natura, inizialmente concepita come anarchica, indipendente e dolce per assumere
i contorni di un personaggio autobiografico, "una specie di metafora irregolare
dell'autore" [3], come lo stesso Pasolini amava definire. In questo modo nacque
il bagaglio psicologico più puro del Corvo, che dunque avrebbe incarnato una
profonda analisi dell'ideologia marxista, sia fondata sui pilastri
caratteristici di questo credo politico, sia aperta a ogni sorta di possibile
contaminazione e sincretismo (ad es. l'unione di religione cristiana con il
marxismo).
Al termine del montaggio del film si
giunse alla produzione di quello che è stato successivamente intitolato "Il
Racconto del Corvo" [4], e consistente nel macroepisodio della predica di Fra'
Ciccillo e Fra' Ninetto ai falchi e ai passeretti, che occupa 295 inquadrature
sulle 900 totali e quindi un terzo dell'intera pellicola. Questo episodio, se
fosse estrapolato dall'intera costruzione narratologica del film, potrebbe
aggiungersi come un titolo della lista dei mediometraggi pasoliniani,
costituendo - insieme a La ricotta, a La terra vista dalla luna e
a Che cosa sono le nuvole? - uno dei vertici dell'intera filmografia di
Pasolini. Che il racconto del Corvo abbia nel film un peso superiore alla sua
stessa dimensione quantitativa è indirettamente attestato dal fatto che il
titolo Uccellacci e uccellini, in sceneggiatura previsto per un solo
episodio, è diventato poi il titolo dell'intero film, e abbia contribuito a
enfatizzare la figura del Corvo stesso.
Quest'ultima premessa è stata
necessaria per spiegare come si è deciso di procedere nella trattazione
dell'argomento scelto. Nel capitolo quattro il Corvo definito descritto come
"voce narrante" di quello che è già stato citato come "Il Racconto del Corvo",
mentre nei restanti capitoli la sua figura è rappresentata come attore in carne
ed ossa della scena descritta.
2. Dalla sceneggiatura alla
realizzazione cinematografica Il progetto iniziale di Pasolini
relativo alla creazione di Uccellacci e uccellini venne in seguito
completamente rivoluzionato durante la sceneggiatura del film, e insieme a
diversi tagli subiti dall'impianto dell'intera opera (che ne mutarono non poco
il significato intrinseco), anche il personaggio rappresentato dal Corvo incorse
in un radicale cambiamento. Nella sceneggiatura il Corvo avrebbe avuto un ruolo
di vero protagonista dell'opera, e il suo compito sarebbe stato quello di
rivolgersi a Totò e Ninetto e di impartire loro precetti densi di significato,
dilungandosi in discorsi lunghi e polemiche ideologiche, senza escludere
avvertimenti profetici anch'essi pregni di significato e soprattutto aperti ad
una lettura in chiave politica.
Nel montaggio finale del film tutto
questo fu perso: il Corvo pur avendo mantenuto la sua figura i cui gesti e gli
atteggiamenti espressi lo fanno sembrare quasi umano, non ha più quella vitalità
e quel vigore polemico che caratterizzavano inizialmente il suo personaggio, ma
si limita a moderare il proprio ruolo, e ai lunghi discorsi in chiave ideologica
si sono sovrapposti brevi commenti moralistici, battute tra il serio e il
faceto, esclamazioni. Appurato che l'operazione "poetica" relativa a
Uccellacci e uccellini sia incontestabilmente riuscita a Pasolini, resta
da definire l'operazione "ideologica" che il regista si era proposto di
esprimere, e proprio per questo risulta di fondamentale importanza il raffronto
fra l'eloquio ideologico del Corvo cartaceo con l'eloquio del Corvo
filmico.
Il ruolo "ideologico" che il Corvo
rivestiva all'interno della sceneggiatura è discorsivamente molto più ampio di
quello presente nel film, e non solo per la maggiore frequenza degli interventi
del volatile, ma anche per l'intensità qualitativa di tali interventi, che nel
film sono molto più ridotti e sintetici di quanto non li avesse inizialmente
previsti Pasolini. Il Corvo appartenente alla sceneggiatura si dimostra
articolato, concreto, motivato e dialettico, e sotto certi aspetti si discosta
assai dall'eloquio del Corvo presente nel film, molto più pedagogico, spesso
astratto nelle sue elucubrazioni e tediosamente schematico.
Dunque il film si presenta alla fine
come qualcosa di diverso dalla sceneggiatura. È il film tratto da una
sceneggiatura non pubblicata. Adoperando un linguaggio caro a Pasolini, si
potrebbe affermare che "la sceneggiatura Uccellacci e uccellini allude a
un'opera cinematografica da farsi" [5].
Ci si è proposti di fare un
confronto fra la sceneggiatura (testo scritto o sceno-testo) e il film a
montaggio ultimato, e di analizzare la figura del Corvo dalla sua comparsa in
scena fino al momento del banchetto che ha come involontario protagonista lo
stesso volatile. Non ci si è potuti esimere dall'esaminare in questa analisi
anche i tagli effettuati durante il montaggio del film (più precisamente i tagli
di natura ideologica, relativi al pennuto), poiché essi sono basilari per
comprendere in maniera onnicomprensiva sia il personaggio del Corvo e il
significato dei messaggi da lui espressi, sia l'ideologia di Pasolini nel
momento della realizzazione dell'opera.
La prima diversità fra il testo
scritto e il film si evidenzia subito dopo l'entrata in scena del Corvo, nel
momento in cui i tagli ideologici si fanno più frequenti, fino addirittura a
confondere la vera identità del Corvo. Quest'ultima infatti è ribadita con una
didascalia, inizialmente non presente nel progetto iniziale: "Per chi avesse dei
dubbi o si fosse distratto ricordiamo che il Corvo è un intellettuale di
sinistra - diciamo così - di prima della morte di Togliatti" [6]. La didascalia
appare nel corso del film subito dopo l'apologo raccontato dal Corvo
sull'(impossibile) evangelizzazione degli uccelli, metafora della lotta di
classe che insanguina da generazioni il mondo intero.
Questa significativa differenza
evidenzia in modo palese come il fatto di aver adottato una didascalia (non
presente nella sceneggiatura) per esplicare con maggiore chiarezza l'identità
del Corvo denunci la volontà di Pasolini di rendere subito chiara agli
spettatori la vera natura del personaggio in questione.
Nella sceneggiatura questa
spiegazione non era stata inizialmente prevista, poiché il Corvo fin dalle prime
scene aveva palesato tramite chiari messaggi quale fosse la sua identità.
Infatti dinanzi alla domanda di Totò su quale sia il suo luogo di provenienza,
il Corvo replica in maniera scherzosa, che tuttavia lascia intendere una
risposta comprensibile: "Eh, io vengo da lontano... Sono straniero... La mia
patria si chiama Ideologia, vivo nella capitale, la Città del Futuro, in Via
Carlo Marx, al numero mille e non più mille" [7].
Il primo taglio fondamentale avviene
in uno degli episodi cardine del film, che evidenzia subito la volontà di
Pasolini di descrivere uno dei pilastri su cui si basa l'ideologia marxista: la
proprietà e la sua violazione. Nel film il Corvo esprime con un sintetico
discorso la propria obiezione verso il diritto di proprietà e un monito a favore
della non-violenza. Nella sceneggiatura il Corvo si abbandona a un lungo apologo
(la lunghezza è circa tre volte più ampia rispetto al testo scritto), i cui
contenuti sono sostanzialmente i medesimi (proprietà e non-violenza), ma il cui
significato trova un'esplicazione più vigorosa mediante l'uso di un linguaggio
assai più forte. L'uso da parte del Corvo di termini di particolare significato
esprime in maniera efficace il concetto e traducono mediante una prosa narrativa
semplice delle immagini che altrimenti risulterebbero enigmatiche, o troppo
complesse.
Esempio 1: Proprietà
privata
Sceneggiatura.Corvo:"scappate adesso,eh?. Avete la coscienza sporca, eh?. Ah, ah!. Voi non ve
ne rendete conto, ma siete complici con quel vecchietto nella stessa colpa di
adorazione dell'idolo della proprietà. - Così lasciavate solo come babbeo quel
proprietario nella sua proprietà! [8]
Film. Corvo: - Così
lasciavate solo come babbeo quel proprietario nella sua
proprietà!.[9]
Esempio 2:
Non-violenza
Sceneggiatura. Corvo:... È
scoppiata la guerra!. Per un fazzoletto di terra! Arriverei a dire che quando un
popolo invade la terra di un altro popolo, colpisce e uccide perché ha torto: ma
anche quando il popolo oppresso si solleva, fa i suoi vespri siciliani, colpisce
e uccide, perché ha avuto il torto di farsi colpire e uccidere. - Ecco perché
Gandhi aveva ragione!. Ecco perché bisogna sempre vincere con la non-violenza!.
- E conciliavate in un unico atto di mitezza la rivoluzione comunista e il
Vangelo!. [10]
Film. Corvo: È ora di finirla con le
guerre!. Dobbiamo lottare uniti per la pace!.
[11]
Questo ultimo passo della sceneggiatura è fondamentale, dato che i
concetti espressi dal Corvo (di cui qui si sono potute citare solo le frasi più
significative) rimandano a due concetti base per la sinistra italiana. Essi sono
il cardine di quel sincretismo fra marxismo e cristianesimo che costituirà in
seguito l'impianto di Uccellacci e uccellini e che influenzerà
profondamente l'intera produzione letteraria e filmica del regista durante gli
anni successivi. Pasolini fu sempre eternamente conteso tra una religiosità pura
e un razionalismo avanzato, e le parole del Corvo, dense di significato
ideologico, esprimono proprio la manifestazione più chiara del marxismo
cristiano, o cristianesimo marxista, che tuttavia non trovano spazio o comunque
non sono formulate in maniera così chiara all'interno dell'opera
ultimata.
Nel seguito del metaforico viaggio
intrapreso da Totò e Ninetto, Pasolini inizialmente aveva concepito un brano
molto ideologico, il cui soggetto è la contestazione del regista verso
l'omologazione di massa caratteristica del neocapitalismo, che finisce per
privare l'uomo proprio della sua naturale umanità. Inizialmente c'è un breve
dialogo a tre in cui il Corvo profetizza l'avvento di un futuro in cui sarà
fabbricato un aberrante prodotto (il Totofon, una specie di "valvolina" da
inserire in bocca), il cui unico scopo sarà di far parlare tutti allo stesso
modo, di modo che tutti consumino nello stessa maniera. Secondo la sceneggiatura
iniziale, dopo questo dialogo il Corvo avrebbe esposto il proprio punto di
vista, in cui lui si lancia in una feroce critica alla omologazione di massa
della società dei consumi e a questa segue una forte sollecitazione nei
confronti del proletariato a prendere coscienza di questa realtà e di opporsi ad
essa con i mezzi in suo possesso. Anche in questo caso il linguaggio del Corvo è
intenso e i termini adoperati esprimono in maniera palese significati che non
hanno bisogno di metafore per esprimersi.
Esempio 3. L'omologazione di
massa
Sceneggiatura. Corvo:
"questa sarà la fine dell'uomo se gli operai non si decidono a prendere in pugno
la bandiera rossa non ci sarà più niente da fare perché essi sono gli unici che
possono dare un'anima ai prodotti... In modo che i prodotti restino umani, e
quindi il mondo sia sempre dell'uomo.[12]
Tuttavia anche quest'ultima parte fu
totalmente soppressa nel corso del montaggio, e privò il film di uno dei
concetti base del discorso pasoliniano, per il quale il regista aveva sempre
combattuto, entrando in conflitto anche con membri appartenenti al suo stesso
credo politico.
Il terzo taglio di una certa
importanza riguardante la natura dei discorsi del Corvo avviene quando i due
viandanti, svolgendo il loro ruolo di morosi, escono da un casolare dove Totò si
è comportato in maniera spietata nei confronti di una sua debitrice,
impossibilitata a pagare. In questo episodio il soggetto affrontato è lo
sfruttamento delle classi subalterne da parte di quelle più ricche, e la
differenza sul modo in cui sceneggiatura da un lato e film dall'altro espongano
l'argomento è ancora palese. Il film affronta l'argomento tramite un breve
commento del Corvo al comportamento di Totò, che in sostanza è una sorta di
sunto del discorso in cui si dilunga il volatile nella sceneggiatura. In
quest'ultima oltre a essere descritta la società come imperniata sullo
sfruttamento reciproco, è rivendicata l'indole anarcoide del Corvo, che unisce
alla sua saggezza e ai suoi precetti moralistici la volontà di distaccarsi da
una concezione di marxismo ortodossa e obsoleta.
Esempio 4. Lo
sfruttamento
Sceneggiatura. Corvo: -
Ecco, se vi interessa, potrei dirvi che vi siete comportato da piccolo-borghese,
e che in questo siete vittima di una società dove la regola è che il pesce
grosso mangia il pesce piccolo. Non vi dico, io: "Avete fatto male", vi dico:
"Attento che un pesce grosso non mangi voi", Ah, ah!. [13]
Film: "Avete fatto male". Vi dico
semplicemente: "Attenti che un pesce grosso non mangi voi", Ah,
ah!.[14]
E proprio l'episodio del casolare, dove un povero minaccia un altro
povero, che la crisi del marxismo si manifesta in tutta la sua evidenza. E sono
proprio le profetiche parole del corvo a descrivere l'interscambiabilità dei
ruoli sfruttatore-sfruttato ("pesce grosso mangia pesce piccolo"), che
puntualmente si realizzerà nel momento in cui Totò e Ninetto si trovano nella
villa di un ingegnere a cui devono del denaro.
Inoltre nelle parole del Corvo
compare una definizione non di poca rilevanza, ossia l'appellativo di "piccolo
borghese" ai danni di Totò. Nella sceneggiatura iniziale era presente una lunga
arringa da parte del corvo contro la borghesia in quanto classe sociale
contrapposta al proletariato, e anche il passo relativo a questo argomento subì
in seguito un radicale taglio in corso di realizzazione del film.
Esempio 5. La
borghesia
Sceneggiatura. Corvo: Ah
borghesia... Il bello è che la vita ti dà ragione, ed è quello che tu vuoi che
sia, senza lasciar posto a niente altro che sia diverso. Tu hai ragione, e avrai
ragione per sempre. La vita ha i suoi colori! Il colore dell'aridità, il colore
dell'abiezione, il colore della paura, il colore dell'ironia, il colore della
mancanza di ogni colore! E c'era una volta un bel colore rosso... Ah borghesia,
hai identificato tutto il mondo con te stessa; questa identificazione segna la
fine del mondo; ma la fine del mondo sarà anche la tua.
[15]
In
questo caso il taglio priva il film di una parte anch'essa fondamentale
dell'intero impianto teorico del film, e le parole del Corvo, amare e
malinconiche, rimandano a una realtà cruda e profetizzano una fine apocalittica
per l'umanità, ma che non risparmierà nemmeno la continuazione della borghesia e
dei danni apportati all'uomo. In uno degli ultimi tagli apportati alla
sceneggiatura scompare letteralmente una parte di importanza basilare, in cui in
uno dei suoi innumerevoli discorsi il Corvo si pone dei quesiti relativi alla
crisi delle vie nazionali al socialismo. In questo caso il tenore della sua
arringa perde completamente sfumature facete o ironiche, e dopo aver addirittura
ipotizzato che il socialismo sia stato sempre un'utopia, si domanda quali
potrebbero essere le prospettive future per un marxismo la cui crisi si
concretizza nella società ogni giorno in maniera più evidente.
Esempio 6. Crisi delle vie
nazionali al socialismo
Sceneggiatura: Corvo: - se
cominciano a non esistere più le nazioni, non cominceranno a non esistere più le
vie nazionali? A meno che non siano sempre state un'ipocrisia? Allora, qual è la
via internazionale al socialismo? Il non poter rispondere a questa domanda mette
dunque in crisi il marxismo? E se il marxismo è in crisi, cosa deve fare un
marxista? [16].
Questo susseguirsi di domande termina con il quesito fondamentale, che
inizialmente aveva spinto Pasolini a concepire il soggetto base del film. Le
parole del Corvo oltre a denunciare temi di natura più generale (la decadenza
del marxismo e la via internazionale al socialismo) rivelano sia la profonda
crisi politica attraversata da Pasolini a metà degli anni sessanta, sia la
volontà del regista di non abbattersi, ma di ricercare le cause di questa crisi
e se possibile di affrontarle concretamente.
L'ennesimo ed ultimo taglio, sempre
effettuato sulla natura dei discorsi del Corvo, è quello che stravolge
completamente il senso del film, in quanto la sua omissione priva quest'ultimo
di quella che sarebbe stata una chiara esplicazione del soggetto di
Uccellacci e uccellini.
Esempio 7. Il monito
all'umanità
Sceneggiatura: Uno spettro
si aggira per l'Europa, è la crisi del marxismo. Eppure bisogna a tutti i costi
ritrovare la via della rivoluzione, perché mai come oggi il marxismo si è
presentato come unica possibile salvezza dell'uomo. Esso salva il passato
dell'uomo, senza il quale non c'è avvenire... La reazione si presenta come
partito giovane, dell'avvenire... (il capitalismo) prospetta un mondo felice in
mano alle macchine e pieno di tempo libero, da dedicare all'oblio del passato.
La rivoluzione comunista si pone invece come salvezza del passato, ossia
dell'uomo: non può più permettere nulla se non la conservazione dell'uomo...
(riferito ai poeti delle nazioni dell'est europeo) mettete in ridicolo il
governo delle vostre nazioni, martirizzatevi, perché la rivoluzione continui, il
potere si decentri, il fine ultimo sia l'anarchia, l'uomo si rinnovi
rivoluzionandosi senza fine, e senza fine fioriscano i garofani rossi della
speranza.[17]
Questo monologo sulla crisi del marxismo e sulla necessità per l'umanità
di affrontarla concretamente, annientando il suo superamento e rinnovando la
lotta di classe con maggior vigore, affinché avvenga la salvezza sia dell'uomo
sia del suo passato, può essere definita il testamento ideologico del
Corvo.
Quando in seguito il Corvo, dopo
aver parlato e dettato precetti moralistici, esemplificando il tutto con
metafore e aneddoti, inizia a denunciare la crisi del marxismo che lascia spazio
al dilagare incontrastato del capitalismo, Totò e Ninetto iniziano a perdere il
filo del discorso e ritornano al puro stato della loro innocenza caratteristica
della loro umile esistenza, e sembrano prima essere indifferenti, poi
insofferenti di fronte alla saccenteria del loro compagno di
viaggio.
A questo punto, in un episodio che
conferma la natura melodrammatica dell'opera e che rappresenta la metafora che
caratterizza l'impianto dell'intera pellicola, Totò e Ninetto prima di
riprendere il loro viaggio senza meta assassinano il Corvo e quindi si cibano
delle sue carni.
3. Il Corvo e il suo linguaggio
come strumento di espressione Come già ricordato, la sceneggiatura
e il film a montaggio ultimato di Uccellacci e uccellini sono
interpretabili come due opere distinte. L'opera, definita da Pasolini (oltre che
una favola ideo-comica) un film in prosa, cela al suo interno una serie di
episodi il cui significato a volte è di per sé allusivo, quasi indefinibile, e
rappresenta non proprio un "messaggio", ma si manifesta come il sintomo di una
situazione intimista del regista. Per comprendere concretamente questi episodi
sono indispensabili un'analisi semantica approfondita delle immagini
cinematografiche e del loro carattere "poetico", unita con una lettura attenta
della scenografia iniziale.
Fino dalla sua comparsa in scena a
fianco di Totò e Ninetto, il Corvo manifesta chiaramente quale è sia la sua
identità, sia sia il motivo che lo ha portato a intraprendere un viaggio così
insolito. Egli non sembra mai dimostrare le sue caratteristiche di pennuto, e le
sue fattezze quasi umane sembrano concretizzarsi col passare del tempo. Durante
la lavorazione del film, a questo proposito Pasolini usufruì dell'intelligenza
di un corvo ammaestrato, il quale nel corso delle riprese, seguiva la gabbia che
era posta a pochi metri dalla coppia di viandanti formata da Totò e Ninetto. In
questo modo il volatile, saltellando a pochi centimetri dai due uomini, perdeva
tutta la sua "bestialità", e si produceva in naturali atteggiamenti la cui
mimica era assai simile a quella di un essere umano.
Alla mimica naturale del Corvo si
associa un linguaggio di fondamentale importanza. Per la precisione, Pasolini
fece doppiare il volatile dal suo caro amico Francesco Leonetti. Nel corso del
film il Corvo si fa interprete delle immagini che lo vedono come protagonista, e
nonostante l'omissione dei monologhi e dei discorsi più importanti presenti
nella sceneggiatura, la sua figura risulta di primaria importanza per una
comprensione del soggetto del film. Il linguaggio del Corvo, inizialmente vivace
e pungente, nel prosieguo del film perde lentamente il significato ideologico e
politico che celano le sue parole, e la premonizione della sua morte (simbolo
della morte di un marxismo stagnante nella sua decrepita concezione di una
realtà in continua evoluzione) diventa uno dei temi dominanti dell'opera. Il
Corvo all'inizio si esprime tramite spunti coloriti e accesi che spesso si
confondono con il moralismo a volte troppo pesante dei suoi commenti, e ciò
qualifica l'anima del personaggio, che si destreggia fra un'accattivante
bonarietà e una petulante saccenteria. Alla fine del film il Corvo perde quasi
completamente il suo vigore accademico, e le sue parole esprimono senza mezzi
termini la nostalgia per un passato destinato a non avere alcun
futuro.
Nella scena che precede l'assassinio
del Corvo, i tre compagni di viaggio percorrono una strada in mezzo ai campi, e
il volatile, che sente già imminente la sua morte, si abbandona a un triste
monologo che ha per soggetto un'opinione personale della sua figura di
maestro.
Film:(Corvo) "Dio, patria,
famiglia, quante ne avrei dette un giorno contro. Oggi forse non ne vale più la
pena. O forse io sono pigro. È passata la mia ora. Le mie parole cadono nel
vuoto. Non pensi però signor Totò che io pianga sulla fine di quello in cui
credo. Sono convinto che qualcun altro verrà e prenderà la mia bandiera per
portarla avanti. O io piango solo su me stesso. È umano no, quando ti senti di
non contare più". [18]
Le parole del Corvo, che ritraggono il
personaggio in una veste estremamente umana, sensibile e capace di manifestare
sentimenti, nella loro cruda amarezza nascondono la speranza di Pasolini per un
rinnovamento della sua filosofia politica.
Il regista con questo ultimo
pensiero del Corvo presagisce la morte di quest'ultimo, che si situa all'interno
del film come evento indispensabile per la comprensione dell'intera opera
cinematografica.
4. Il "Racconto del Corvo" come
chiave d'interpretazione dell'opera Fra le svariate e suggestive
indicazioni di quella particolare "struttura che vuole essere un'altra
struttura" [19] che altro non è che la sceneggiatura (letteraria) di
Uccellacci e uccellini, quelle relative al "Racconto del Corvo" sono
forse quelle più similari al filmato-montato effettivo del film. La
sceneggiatura prevede venti sequenze, che vanno dal momento in cui San
Francesco, all'interno del Bosco Umbro affida la missione a Fra' Ciccillo e a
Fra' Ninetto, al momento in cui, dopo il fallimento di questi ultimi, nuovamente
nel Bosco Umbro San Francesco spiega ai due fraticelli che bisogna ricominciare
daccapo, e insegnare ai falchi e ai passerotti quello che non hanno
compreso.
Le venti sequenze previste in
sceneggiatura corrispondono sostanzialmente alle ventuno del filmato, dove si ha
qualche scansione in più e solo un episodio in meno, quello del "Paradiso di
Ninetto", ma in cui si registra una stretta analogia fra il progetto e la sua
realizzazione.
Sul piano del messaggio sostanziale
il "Racconto del Corvo" si inserisce in modo duplice nel contesto generale
dell'intero film: in primo luogo, sotto un profilo meramente semiologico, esso
riceve e proietta ampi riflessi di senso, contribuendo con la narrazione a
definire oltre che i personaggi di Fra' Ciccillo e Fra' Ninetto, anche
indirettamente se stesso; in secondo luogo perché il suo narratore - ora
implicito ora esplicito -, è proprio quel Corvo che si è autodefinito avere
origine da lontano, dal paese di Ideologia, abitante nella città del Futuro, in
via Carlo Marx, al numero 70 volte 7, figlio del Dubbio e della sig.ra
Coscienza, ovvero una figura ben definita caratteristicamente e il protagonista
implicito del film (accanto a quelli espliciti, Totò e Ninetto).
Il Racconto del Corvo, oltre che
fungere da strumento di espressione del personaggio del Corvo, è fondamentale
anche per comprendere il nucleo del film e il suo messaggio centrale. Al termine
dell'episodio di Fra' Ciccillo e Fra' Ninetto, San Francesco spiega ai due frati
che non è sufficiente adoperare i linguaggi per trasmettere i messaggi. Ciò che
occorre è essere consapevoli che "bisogna cambiare il mondo" e che -
implicitamente -, bisogna essere partecipi di questo processo di cambiamento.
Questa didattica sul mutamento del mondo si incrocia però, a favola finita, con
quella del Corvo, che otto secoli più tardi, colpevole della sua saccenza e
delle sua superbia, sarà divorato da Totò e Ninetto.
La fine del film e la drammatica
morte del Corvo hanno indotto alcuni studiosi a presentare la tesi secondo cui
per il Pasolini del 1966 abbia già avuto inizio il periodo del cupo pessimismo
della ragione (quello che esploderà in fase acuta anni più tardi, nel film
Salò e le centoventi giornate di Sodoma e in Petrolio). Un
pessimismo atroce, senza vie d'uscita e consolazioni: per cui l'immodificato
mondo è, per sempre, immodificabile. E morirvi è l'unico modo per
rifiutarlo.
5. Considerazioni finali sulla
morte del Corvo e il suo significato Un momento cardine all'interno del
film Uccellacci e uccellini è rappresentato dai funerali di Togliatti,
che coincidono con la fine di un'epoca, non solo per l'intera sinistra italiana,
e che presagiscono la morte del Corvo. La rappresentazione dei funerali di
Togliatti significa la fine di un'ideologia che il leader del Pci personificava,
e di cui il Corvo stesso si era dimostrato come epigono in tutto il corso del
film. Pasolini decise di presentare questo episodio tramite un documentario
filmato, il cui potere delle immagini, prive di ogni commento, è di un notevole
impatto visivo ed emotivo.
La rappresentazione dei funerali di
Togliatti, oltre ad essere un momento particolarmente toccante, risultano di
basilare importanza per la comprensione di quella che è la fine del film e che
formula una parziale risoluzione di quelli che erano i quesiti di Pasolini sulla
crisi del marxismo.
La favola "ideo-comica" elaborata da
Pasolini prevedeva che il Corvo sarebbe stato divorato dai due viandanti, e
proprio questa geniale intuizione deriva da due motivi fondamentali. Innanzi
tutto il Corvo aveva terminato quello che poteva essere interpretato come il suo
mandato, consistente sostanzialmente nel predicare concetti moralistici a Totò e
Ninetto (simbolo dell'umanità): esso dunque poteva definirsi "superato". In
secondo luogo l'assassinio e il banchetto a base delle sue carni da parte dei
due uomini avrebbe determinato una sorta di "assimilazione" di quanto di utile
era stato impartito durante il viaggio.
Pasolini si riteneva una persona
politicamente in evoluzione, ed era proprio la sua consapevolezza della crisi
attraversata dal marxismo negli anni cinquanta che avrebbe portato l'autore a
elaborare la figura del Corvo e a gestirne la metamorfosi del personaggio.
Rispetto al progetto iniziale di Pasolini, che voleva far coincidere il proprio
"nuovo marxismo" con quello del Corvo, fra sceneggiatura e film avviene una
metamorfosi che ha riportato l'animale su posizioni ideologiche precedenti,
vicinissime a quelle del marxismo degli anni cinquanta, e rispetto le quali il
regista si sentiva sempre più in contrasto.
Durante l'ideazione del film
Pasolini si pose un quesito di basilare importanza, fondamentale per il soggetto
che avrebbe imperniato il film Uccellacci e uccellini e su come l'opera
sarebbe stata in futuro realizzata: il marxismo incarnato dal Corvo coincideva
con il marxismo secondo la sua concezione personale o no? Se il marxismo
rappresentato dal Corvo avesse coinciso con il marxismo del regista, il
personaggio non avrebbe dovuto avere una storia conclusa, e non avrebbe potuto
essere così palesemente un "superato" e quindi divorato (come una storia
semplice richiede). Se invece il marxismo incarnato dal Corvo non avesse
coinciso con quello autobiografico del regista, allora esso avrebbe
rappresentato un personaggio la cui caratteristica principale sarebbe stata
l'oggettività, e i precetti espressi nel corso del film oltre a essere
discordanti con l'ideologia dell'autore sarebbero risultati noiosi e obsoleti.
Ma il contesto della favola richiedeva che il Corvo fosse un personaggio
simpatico e vitale, affinché la sua tragica fine ispirasse nello spettatore due
sentimenti equivalenti: da un lato un senso di liberazione nei confronti di chi
è eccessivamente saccente e vuole spiegare sempre tutto, e da un lato la
compassione per la sua morte.
In questo modo Pasolini decise di
dividere le due diverse concezioni di una medesima ideologia, sia approfondendo
e mettendo in discussione i pilastri che sorreggevano la sua fede politica, sia
oggettivando l'attualità del marxismo espressa nelle predicazioni del Corvo, e
infine cercando di accorpare questi due diversi piani di lettura di una medesima
filosofia politica.
Il Corvo subisce la stessa
fine-martirio sia nella sceneggiatura sia nel film, e d'altro canto, non avrebbe
potuto essere diversamente. Egli non può che essere mangiato da Totò e Ninetto,
indipendentemente dalla sua doppia natura di innovatore e maestro di nuove
ideologie e di moralista appartenente al vecchio modo di pensare di una
nostalgica ideologia che tuttavia sembra non prendere coscienza della propria
crisi in atto. Nella terribile morte del Corvo e nel successivo banchetto si
intuisce una metafora che rappresenta una speranza venata da un flebile
ottimismo da parte di Pasolini, riguardo al futuro del marxismo e la salvezza
dell'umanità. Infatti, si spera che i due viandanti, simbolo del cammino
dell'uomo nella storia, riescano ad assimilare quanto di buono e di utile sia
presente nelle carni del Corvo, affinché anche il "superamento" dell'ideologia
marxista trovi una sorta di "proseguimento" nelle azioni dei due, per costruire
il futuro salvaguardando il passato dell'uomo, necessario per il suo
avvenire.
Il Corvo insieme ai suoi queruli
precetti moralistici, fino dalla sua comparsa in scena nel film, dimostra di
possedere un velato presentimento della sua morte, e insieme con essa una
metaforica fine dell'ideologia marxista. Il Corvo a poco a poco dimostra di
essere incapace di porsi e di riflettere sui problemi fondamentali
dell'esistenza, e quindi si abbandona a un moralismo disperato ed individuale,
caratteristico di chi si sente vicino alla propria fine.
Nella terribile morte del Corvo e
nel successivo banchetto si intuisce dunque una metafora che rappresenta una
speranza venata da un flebile ottimismo da parte di Pasolini, riguardo al futuro
del marxismo e alla salvezza dell'umanità. Infatti si spera che i due viandanti,
simbolo del cammino dell'uomo nella storia, riescano ad assimilare quanto di
buono e di utile sia presente nelle carni del Corvo, affinché anche il
"superamento" dell'ideologia marxista trovi una sorta di "proseguimento" nelle
azioni dei due, per costruire il futuro salvaguardando il passato dell'uomo,
necessario per il suo avvenire.
L'episodio del banchetto a base di
Corvo, apparentemente drammatico, in realtà cela una sua comicità. Infatti poco
prima di questo fatto era stato lo stesso Corvo a stimolare, dopo un suo
monologo sul futuro del marxismo, la sua tragica fine. Questo episodio è
rappresentato nella sceneggiatura in maniera assai più efficace rispetto al
film. Nel testo scritto, infatti, i tre viaggiatori, subito dopo l'ennesimo e
ultimo discorso del Corvo, si trovano di fronte a un emblematico cartello con la
scritta :"I PROFESSORI SONO FATTI PER ESSERE MANGIATI
IN SALSA PICCANTE- GIORGIO PASQUALI". Nel film era lo
stesso Corvo a citare tramite un sintetico commento la frase di Giorgio
Pasquali. Il simbolico messaggio di Pasquali spiega che la morte del Corvo sia
indispensabile, e che tutto ciò deve necessariamente avvenire proprio affinché i
maestri possano essere mangiati, digeriti e superati, e in questo modo il loro
insegnamento se possiede un valore vero rimarrà nell'animo delle
persone.
In uno scritto postumo all'opera
Uccellacci e uccellini Pasolini ritornò sul tema relativo alla crisi
dell'ideologia marxista, e descrisse l'episodio finale del film con un quesito,
che per la sua importanza ci si è sentiti in dovere di citare, nonostante non
appartenga né alla sceneggiatura né alla pellicola.
Esempio 7: Il futuro
dell'ideologia marxista Da "Vie Nuove": i due misteriosi
uomini "eterni", padre e figlio, che vanno, che vanno, lo ascoltano (riferito al
Corvo) - e come sempre succede con le ideologie - ne apprendono quel minimo di
elementare che le grandi masse scelgono dai complessi dibattiti intellettuali.
Infine, stanchi, tirano il collo al Corvo, se lo mangiano, e proseguono per la
loro strada. Verso dove? [20]
Pasolini con queste parole riassume
sinteticamente la descrizione dell'episodio del banchetto a base di carni del
Corvo, e termina con un quesito che si conferma come la chiave di lettura
dell'intera opera cinematografica. Nella domanda finale si rileva
l'incommensurabile piccolezza dell'uomo dinanzi al futuro che incombe, e due
sole parole concentrano un quesito che sarà destinato a rimanere senza risposta.
Pasolini, rispondendo sulla rivista coeva "Vie Nuove" a svariate lettere, si
augura che la comicità dell'episodio del banchetto con le carni del Corvo non
sia interpretato dai suoi spettatori come una critica pessimistica e negativa,
ma che invece induca le persone a prendere atto di quella crisi del marxismo di
cui egli si sente perfettamente consapevole, e di cui desidera una concreta
risoluzione.
Bibliografia. 1) Monografie e studi
sull'autore, saggi e scritti su Uccellacci e uccellini U. CASIRAGHI, Una favola ideo-comica, in L'Unità', Milano, 5 maggio
1966. E.
CERQUIGLINI, Pier Paolo Pasolini Uccellacci e
uccellini Dalla sceneggiatura alla realizzazione cinematografica, Campanotto
Editore, Udine, 1996. F. COLOMBO, La Cultura Sottile,
Bompiani, Milano, 1998. L. MICCICCHE, Pasolini nella città del
cinema, Marsilio Venezia, 1999. S. MURRI, Pier
Paolo Pasolini, Il Castoro Cinema, Milano, 1994. P.P. PASOLINI,
Le belle bandiere, LUnità/Editori Riuniti, Roma,1977. P.P. PASOLINI, Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini,
Garzanti, Milano, 1966. P.P. PASOLINI, Empirismo Eretico,
Garzanti Editore, 1972. E. SICILIANO, Vita di Pasolini, Giunti
Gruppo Editoriale, Firenze, 1995. 2) Opere
cinematografiche P.P.PASOLINI, Uccellacci e uccellini,
Prodotto da Alfredo Bini per Arco Film, Italia, 1966. 3) Siti
Internet. http://www.pasolini.net/cinema_uccellacci.htm --------- NOTE [1] E. Cerquiglini, Pier Paolo Pasolini,
Uccellacci e Uccellini, Dalla sceneggiatura alla realizzazione
cinematografica, Campanotto Editore, Udine, 1996, p. 62. [2] P. Paolo Pasolini,
Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano,
1966, p. 57. [3] P. Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo
Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, p. 58. [4] L. MICCICHE, Pasolini nella città del
cinema, Marsilio, Venezia, 1999, p. 161. [5] E. CERQUIGLINI, Dalla sceneggiatura
alla realizzazione cinematografica, Campanotto Editore Udine, 1996,
p.53. [6 ]
Citazione tratta dal film Uccellacci e uccellini. [7] P. Paolo Pasolini,
Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano,
1966, p. 170. [8] P. Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo
Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, p. 177. [9] P. Paolo Pasolini, Uccellacci e
uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, p.
177. [10] Ivi.
Cit. p. 177. [11] Citazione tratta dal film. [12] P. Paolo Pasolini, Uccellacci e
uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, pp.
180-181. [13]
P. Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo
Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, p. 198. [14] Citazione ricostruita dal
film. [15]
P. Paolo Pasolini, Uccellacci e uccellini, Un film di Pier Paolo
Pasolini, Garzanti, Milano, 1966, pp.218. [16] P. Paolo Pasolini, Uccellacci e
uccellini, Un film di Pier Paolo Pasolini, Garzanti, Milano, 1966,
pp.220. [17]
E.CERQUIGLINI, Dalla sceneggiatura alla realizzazione cinematografica,
Campanotto Editore Udine, 1996, p.60-61. [18] Citazione ricostruita dal
film. [19] L.
MICCICHE, Pasolini nella città del cinema, Marsilio, Venezia, 1999, p.
161. [20] P.
P. PASOLINI, Le belle bandiere, Editori Riuniti, Roma, 1966, p.
327. Fonte: http://www.almanaccoindipendente.it/uccellacci.htm