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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

sabato 13 marzo 2021

La rabbia di Pier Paolo Pasolini e Giuseppe Bertolucci.

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





L'Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo.
Pier Paolo Pasolini
(Vie Nuove n. 36, 6 settembre 1962)


La prima idea del film La rabbia (1963) è del produttore Gastone Ferranti, che propone a Pasolini di realizzare un film documentario a partire dal repertorio del cinegiornale Mondo libero. I cinegiornali di Mondo Libero e i materiali reperiti in Cecoslovacchia, Unione Sovietica e Inghilterra diventano, per Pier Paolo Pasolini, la base per dare vita a un'analisi lirica e polemica dei fenomeni e dei conflitti sociali e politici del mondo moderno, dalla Guerra Fredda al Miracolo economico, con un commento diviso fra una "voce in poesia" (Giorgio Bassani) ed una "voce in prosa" (Renato Guttuso).

Mentre Pasolini è al lavoro in moviola, il produttore, forse per scrupoli politici o forse per motivazioni commerciali, decide di trasformare il film in un'opera a quattro mani, affidandone una parte a Giovannino Guareschi, secondo lo schema giornalistico del "visto da destra visto da sinistra".
Pasolini reagisce con irritazione a quella coabitazione forzata, ma alla fine accetta e rinuncia alla prima parte del suo film per lasciare spazio all'episodio di Guareschi.

Il testo che segue, scritto da Pier Paolo Pasolini, è apparso sul n.38 del 20 settembre 1962 sulla rivista "Vie nuove", con cui Pasolini collaborava, ed è stato raccolto, insieme ad altri interventi, nel volume, ora fuori catalogo, Le belle bandiere, a cura di Gian Carlo Ferretti. Pasolini risponde a un lettore che gli aveva rivolto alcune domande sul film:
"È un film tratto da materiale di repertorio (novantamila metri di pellicola: il materiale cioè di circa sei anni di vita di un settimanale cinematografico, ora estinto). Un'opera giornalistica, dunque, più che creativa. Un saggio più che un racconto. Per dargliene un'idea più precisa, le accludo il trattamento del lavoro: le solite cinque paginette che il produttore chiede per il noleggio. Tenga quindi conto della destinazione di questo scritto: una destinazione che implica da una parte una certa ipocrita prudenza ideologica (il film sarà molto più decisamente marxista, nell'impostazione, di quanto non sembri da questo riassunto), e dall'altra parte una certa goffagine estetica (il film sarà molto più raffinato, nel montaggio e nella scelta delle immagini, di quanto non si deduca da queste affrettate righe)".
Cos'è successo nel mondo, dopo la guerra e il dopoguerra? La normalità.
Già, la normalità. Nello stato di normalità non ci si guarda intorno: tutto, intorno si presenta come "normale", privo della eccitazione e dell'emozione degli anni di emergenza. L'uomo tende ad addormentarsi nella propria normalità, si dimentica di riflettersi, perde l'abitudine di giudicarsi, non sa più chiedersi chi è.
È allora che va creato, artificialmente, lo stato di emergenza: a crearlo ci pensano i poeti. I poeti, questi eterni indignati, questi campioni della rabbia intellettuale, della furia filosofica. Ci sono stati degli avvenimenti che hanno segnato la fine del dopoguerra: mettiamo, per l'Italia, la morte di De Gasperi.
La rabbia comincia lì, con quei grossi, grigi funerali.
Lo statista antifascista e ricostruttore è "scomparso": l'Italia si adegua nel lutto della scomparsa, e si prepara, appunto, a ritrovare la normalità dei tempi di pace, di vera, immemore pace.
Qualcuno, il poeta, invece, si rifiuta a questo adattamento.
Egli osserva con distacco - il distacco dello scontento, della rabbia - gli estremi atti del dopoguerra: il ritorno degli ultimi prigionieri, ricordate, in squallidi treni, il ritorno delle ceneri dei morti...
E... il ministro Pella, che, tronfiamente, suggella la volontà dell'Italia a partecipare all'Europa Unita.
È così che ricomincia nella pace, il meccanismo dei rapporti internazionali. I gabinetti si susseguono ai gabinetti, gli aereoporti sono un continuo andare e venire di ministri, di ambasciatori, di plenipotenziari, che scendono dalla scaletta dell'aereo, sorridono, dicono parole vuote, stupide, vane, bugiarde.

Il nostro mondo, in pace, rigurgita di un bieco odio, l'anticomunismo. E sul fondo plumbeo e deprimente della guerra fredda e della Germania divisa, si profilano le nuove figure dei protagonisti della storia nuova.
Krusciov, Kennedy, Nehru, Tito, Nasser, De Gaulle, Castro, Ben Bella.
Finché si arriva a Ginevra, all'incontro dei quattro grandi: e la pace, ancora turbata, va verso un definitivo assestamento. E la rabbia del poeta, verso questa normalizzazione che è consacrazione della potenza e conformismo, non può che crescere ancora.

Cos'è che rende scontento il poeta?
Un'infinità di problemi che esistono e nessuno è capace di risolvere: e senza la cui risoluzione la pace, la pace vera, la pace del poeta, è irrealizzabile.
Per esempio: il colonialismo. Questa anacronistica violenza di una nazione su un'altra nazione, col suo strascico di martiri, di morti.
O: la fame, per milioni e milioni di sottoproletari.
O: il razzismo. Il razzismo come cancro morale dell'uomo moderno, e che, appunto come il cancro, ha infinite forme. È l'odio che nasce dal conformismo, dal culto della istruzione, dalla prepotenza della maggioranza. È l'odio per tutto ciò che è diverso, per tutto ciò che non rientra nella norma, e che quindi turba l'ordine borghese. Guai a chi è diverso! questo il grido, la formula, lo slogan del mondo moderno. Quindi odio contro i negri, i gialli, gli uomini di colore: odio contro gli ebrei, odio contro i figli ribelli, odio contro i poeti.
Linciaggi a Little Rock, linciaggi a Londra, linciaggi in Nord Africa; insulti fascisti agli ebrei.

È cosi' che riscoppia la crisi, l'eterna crisi latente.
I fatti d'Ungheria, Suez.
E l'Algeria che comincia piano piano a riempirsi di morti.
Il mondo sembra, per qualche settimana, quello di qualche anno avanti. Cannoni che sparano, macerie, cadaveri per le strade, file di profughi stracciati, i paesaggi incrostati di neve. Morti sventrati sotto il solleone del deserto.
La crisi si risolve, ancora una volta, nel mondo: i nuovi morti sono pianti e onorati, e ricomincia, sempre più integrale e profonda, l'illusione della pace e della normalità'. Ma, insieme alla vecchia Europa che si riassesta nei suoi solenni cardini, nasce l'Europa moderna: il neocapitalismo; il Mec, gli Stati Uniti d'Europa, gli industriali illuminati e "fraterni", i problemi delle relazioni umane, del tempo libero, dell'alienazione.
La cultura occupa terreni nuovi: una nuova ventata di energia creatrice nelle lettere, nel cinema, nella pittura. Un enorme servizio ai grandi detentori del capitale. Il poeta servile si annulla, vanificando i problemi e riducendo tutto a forma.
Il mondo potente del capitale ha, come spavalda bandiera, un quadro astratto.
Così, mentre da una parte la cultura ad alto livello si fa più raffinata e per pochi, questi "pochi" divengono, fittiziamente, tanti: diventano "massa". È il trionfo del "digest" e del "rotocalco" e, soprattutto della televisione. Il mondo travisato da questi mezzi di diffusione, di cultura, di propaganda, si fa sempre più irreale: la produzione in serie, anche delle idee, lo rende mostruoso.
Il mondo del rotocalco, del lancio su base mondiale anche dei prodotti umani, è un mondo che uccide.
Povera, dolce Marylin, sorellina ubbidiente, carica della tua bellezza come di una fatalità che rallegra e uccide.
Forse tu hai preso la strada giusta, ce l'hai insegnata. Il tuo bianco, il tuo oro, il tuo sorriso impudico per gentilezza, passivo per timidezza, per rispetto ai grandi che ti volevano così, te, rimasta bambina, sono qualcosa che ci invita a placare la rabbia del pianto, a voltare le spalle a questa realtà dannata, alla fatalità del male.

Perché: finché l'uomo sfrutterà l'uomo, finché l'umanità sarà divisa in padroni e in servi, non ci sarà né normalità né pace. La ragione di tutto il male del nostro tempo è qui.
E ancora oggi, negli anni sessanta le cose non sono mutate: la situazione degli uomini e della loro società è la stessa che ha prodotto le grandi tragedie di ieri.
Vedete questi? Uomini severi, in doppiopetto, eleganti, che salgono e scendono dagli aeroplani, che corrono in potenti automobili, che siedono a scrivanie grandissime come troni, che si riuniscono in emicicli solenni, in sedi splendide e severe: questi uomini dai volti di cani o di santi, di jene o di aquile, questi sono i padroni.
E vedete questi? Uomini umili, vestiti di stracci o di abiti fatti in serie, miseri, che vanno e vengono per strade rigurgitanti e squallide, che passono ore e ore a un lavoro senza speranza, che si riuniscono umilmente in stadi o in osterie, in casupole miserabili o in tragici grattacieli: questi uomini dai volti uguali a quelli dei morti, senza connotati e senza luce se non quella della vita, questi sono i servi.
È da questa divisione che nasce la tragedia e la morte.
La bomba atomica col suo funebre cappuccio che si allarga in cieli apocalittici è il futuro di questa divisione.
Sembra non esservi soluzione da questa impasse, in cui si agita il mondo della pace e del benessere. Forse solo una svolta imprevista, inimmaginabile... una soluzione che nessun profeta può intuire... una di quelle sorprese che ha la vita quando vuole continuare... forse... Forse il sorriso degli astronauti: quello forse, è il sorriso della vera speranza, della vera pace. Interrotte, o chiuse, o sanguinanti le vie della terra, ecco che si apre, timidamente, la via del cosmo.
Pier Paolo Pasolini



Giuseppe Bertolucci: All’inizio ho avuto una sorta di timore reverenziale, perché non si trattava di restaurare, ma di costruire qualcosa che non era mai esistito, quindi più una simulazione che una ricostruzione. Nello stesso tempo poi quando Tatti Sanguineti, ideatore della cosa, ci ha spinto ad agire, avevo chiare due cose: che i materiali presenti consentivano l’operazione che andavamo a fare, e che ero molto attirato dall’idea di poter restituire a questo film la sua forma originale e quindi la sua integrità.
Noi viviamo in tempi in cui i film del passato arrivano alla visione in modo distorto, si pensi alle edizioni televisive che rappresentano dei continui attentati all’integrità delle nostre opere, quindi, ho colto l'occasione di restituire integrità a un’opera che in fondo non l’aveva mai avuta veramente. Pasolini aveva malvolentieri accettato la coabitazione con Guareschi e mi è sembrato che fosse importante restituire l'integrità a un'opera così come inizialmente era stata concepita in un tempo come il nostro in cui l’integrità delle opere è sempre molto a rischio, molto in pericolo.

Il caso (per chi ci crede) ha voluto che negli ultimi anni io mi sia occupato di alcuni giacimenti pasoliniani: prima frugando tra i reperti preziosi di Salò, contenuti nell’archivio di Gideon Bachman (Pasolini prossimo nostro 2006), e ora lavorando alla ricostruzione della versione originale di uno dei film più inquieti, inquietanti e controversi del nostro autore (La Rabbia di Pasolini 2008).
Ancora una volta, anche a distanza di trenta o quarant’anni, Pasolini ci sorprende con una delle sue più spericolate performance metalinguistiche. L’idea di rivisitare il “genere” cinegiornale - il più basso, il più esposto alle peggiori derive qualunquistiche - di sporcarsi le mani in quel letamaio per estrarne le pietre preziose di alcune straordinarie immagini, di cambiarlo di segno inventandosi un irripetibile prototipo di poema dell’attualità…solo Pasolini poteva arrivare a tanto e solo quei meravigliosi anni sessanta potevano consentigli l’impresa.
Per questo ci sembrava assolutamente necessario provare a restituire al progetto pasoliniano la sua fisionomia originaria: sottraendolo alla problematica coabitazione con l’episodio di
Guareschi e ricostruendo la parte iniziale alla quale aveva dovuto rinunciare per far posto appunto a un inquilino quanto mai scomodo e disomogeneo.
Quei sedici minuti si aprono con i funerali di De Gasperi e si chiudono con l’inizio delle trasmissioni televisive: due segni emblematici, dei quali Pasolini riesce a leggere tutta la valenza epocale e tutta la terrificante potenzialità.
La scelta di far convivere le chiacchiere insulse della voce ufficiale dello speaker e il canto (a volte altissimo) dell’ego poetico mi sembra poi davvero una sorta di bellissimo marameo a tutte le regole e a tutte le convenzioni, simile a certe riproposizioni della pop art (come la warholiana lattina di Campbell’s).
Nella sequenza della nostra opera aperta ho voluto inserire anche alcuni esempi del linciaggio mediatico, del quale Pasolini fu - all’inizio di quegli anni sessanta - uno dei bersagli
privilegiati e che trova proprio nei cinegiornali la principale arma (impropria). Così come ci sono sembrate illuminanti le considerazioni del Pasolini enragé nell’intervista a Fieschi. Insomma, rinunciando a qualsiasi pretesa di una forma definitiva, l’idea è stata quella - nello spirito di quegli
anni sessanta che qui rievochiamo - di offrire allo spettatore un kit specialissimo per un fai da te creativo e critico di sicuro interesse. Buon divertimento.
Giuseppe Bertolucci 



La ricostruzione di Giuseppe Bertolucci

La rabbia di Pasolini, ovvero l'ipotesi di ricostruzione della versione originale del film, nasce da un'idea di Tatti Sanguineti. Il film è coprodotto dall'Istituto Luce, dal Gruppo Editoriale Minerva Raro Video e dalla Cineteca di Bologna.
Montato nel laboratorio della Cineteca (che ospita la sede del Centro Studi - Archivio Pier Paolo Pasolini) il film ha una durata di 83 minuti e comprende:La rabbia di Pasolini, ovvero l'ipotesi di ricostruzione della versione originale del film, nasce da un'idea di Tatti Sanguineti. Il film è coprodotto dall'Istituto Luce, dal Gruppo Editoriale Minerva Raro Video e dalla Cineteca di Bologna.

- un'introduzione di Giuseppe Bertolucci
- il materiale inedito dell'Archivio Luce (i sedici minuti che “ricompongono” la parte mancante)
- l'edizione de La Rabbia del 1963 di Pasolini
- l'Appendice, L'aria del tempo.


Ho usato anche nel testo di presentazione all’interno del film il termine “con beneficio di inventario”, che mi sembrava minimo.
Sono stato, penso giustamente, spinto ad adeguarmi al fatto di avere la voce di un non attore nella lettura del commento e ho chiesto a Valerio Magrelli di partecipare all’operazione e ho deciso di partecipare solo nei titoli di testa. Non mi sono permesso di aggiungere altra musica perché mi sembrava di entrare in un sfera di soggettività molto discutibile.





Abbiamo lavorato alla costruzione del montaggio della parte mancante, facendo riferimento a molti "segni". Freud dice che il lavoro dello psicoanalista alla fine è simile a quello dell’archeologo che trova frammenti di rovina e può ripensare a com’era la città. Noi abbiamo provato a ricostruire l’integrità della costruzione, di quell’opera procedendo come fa un archeologo.

C’è forse una certa dose di violenza nell’aver separato la parte di Guareschi da questa di Pasolini, ma proprio in questi mesi abbiamo partecipato al centenario di Guareschi con una mostra fotografica molto interessante. Non c’è stato nessun tipo di scelta ostile. Guareschi era uno scrittore controverso, dalle molte facce e non credo (è la mia personale opinione) che quello che esprime nel suo montaggio e nel suo commento de La rabbia, sia il meglio: in altre occasioni si è espresso in modo molto più interessante. Però voglio dire che noi stiamo lavorando anche su Guareschi.

Giuseppe Bertolucci 


Sia prima, durante e dopo la lavorazione del film, che nei 12 anni in cui visse ancora, rare anzi rarissime sono le interviste, gli interventi, le dichiarazioni di Pasolini sul suo film La rabbia.
In nessuna dichiarazione dell’autunno del 1962, né ell’inverno del 1963, Pasolini dichiara esplicitamente ed inequivocabilmente di avere ideato scritto e montato in origine una versione del film (in una prima copia di lavoro non speakerata ma con le voci probabilmente “appoggiate”) più
lunga rispetto ai 54 minuti de La rabbia di Pier Paolo Pasolini, prima parte del cine-match con Giovannino Guareschi.
Solo nel mese di aprile del 1963, quando il film a quattro mani (“visto da destra” e “visto da sinistra”) è naufragato e sparito, Pasolini dichiara ad Andrea Barbato de Il giorno di avere in precedenza, lui da solo, montato una sua versione del film della durata di un vero e proprio lungometraggio.
Nel primo dei due volumi dei Meridiani Mondadori Pasolini per il cinema, curati da Walter Siti e Franco Zabagli ed editi nel 2001, da pagina 335 a pagina 404 è pubblicata una versione della sceneggiatura che non corrisponde al film di P.P.P. versus G.G.: è molto più lunga, strutturalmente diversa e contiene molti blocchi di sequenze totalmente assenti nel film conosciuto.
La sequenza che apre il movie edito nel 1963 è nel testo dei Meridiani la sequenza numero 20: “neri inverni in Ungheria”. I Meridiani aprono invece con le “estreme onoranze a De Gasperi” a cui seguono “il peso della guerra (ritorno delle ceneri dalla Grecia)” e altre sequenze mancanti.
Sulla base di questo riscontro mi è venuto naturale ipotizzare che il testo pubblicato dai Meridiani corrispondesse alla copia lavoro a cui Pasolini aveva accennato con Barbato, copia bocciata dal committente del film, il signor Gastone Ferranti della Astra Cinematografica, titolare della testata Mondo Libero. Ferranti aveva bocciato il film commissionato a Pasolini e gli aveva fatto accettare in ripiego l’ipotesi del “duello” con Guareschi.
Siccome il film commissionato era un film di montaggio sulle collezioni del cinegiornale Mondo Libero, dato che una collezione completa in pellicola 35mm della testata è posseduta dall’Istituto LUCE (che ha fra i suoi compiti istituzionali il recupero delle cine-attualità italiane) ho controllato intanto se negli indici e nei sommari di Mondo Libero c’erano le onoranze funebri a De Gasperi, il
ritorno delle ceneri dei caduti di Cefalonia e via via le altre sequenze in successione della sceneggiatura dei Meridiani assenti dalla Rabbia di Pasolini che noi conosciamo. Le sequenze c’erano tutte: non ne mancava una. Pasolini si era rigorosamente tenuto alla commessa ricevuta di organizzare un film di montaggio sulla fine della guerra fredda a partire da quei vecchi materiali.
Ascoltando, scaricando e trascrivendo la voce off di queste attualità risultava in tutta lapalissiana evidenza come il testo di Pasolini calzasse perfettamente con il commento parlato del vecchio cinegiornale anticomunista. Pasolini ci si era letteralmente adagiato e seduto sopra. Riprende,
preleva e pizzica parole battute attacchi e clausole. Post sincronizza il suo testo in una parafrasi segreta, polemica ed aggiornata di quella dimenticatissima voce.
Davanti a questa evidenza mi è parso ovvio e legittimo ipotizzare che alla Cineteca di Bologna, dove ha sede la Fondazione Pasolini e dove da molto tempo abbiamo lavorato in collaborazione con l’avente diritto su La rabbia di Pasolini e Guareschi, di riaccoppiare la sceneggiatura di partenza dei
Meridiani con le cineattualità che Pasolini aveva visionato, selezionato e su cui aveva scritto.
Che, insomma, tentassimo di ricostruire un fac-simile, almeno parziale, del film originario di Pasolini, respinto snaturato dimezzato.
Avevamo ipotizzato una ricostruzione o rischiavamo l’ennesimo vilipendio? Ci abbiamo pensato, discusso e ridiscusso e alla fine siamo riusciti a far cadere in tentazione perfino un pasoliniano austero purista ed integerrimo come il nostro caro presidente, Giuseppe Bertolucci.
Tatti Sanguineti 

Il produttore del film era Gastone Ferranti, colui che aveva fondato “Astra cinematografica”, una società che monopolizzò il documentario negli anni cinquanta, quando a un film, nella cosiddetta programmazione obbligatoria, veniva associato un documentario a cui, a seconda dell’incasso di un film, veniva data una percentuale. Ferranti per esempio abbinò un documentario a Cleopatra, quindi diventò ricco in brevissimo tempo.
Dato che Ferranti aveva prodotto il cinegiornale “Mondo libero”, aveva tantissimo materiale e chiese a Pasolini di fare un film utilizzando proprio quella fonte.
Pier Paolo era entusiasta. Io arrivai a lavorare al film quando lui aveva già scelto molto materiale, almeno quello iniziale, e aveva già premontato le sequenze che Giuseppe ha ricostruito oggi: le ho riconosciute quando me le ha fatte vedere.

Non dimentichiamo che siamo agli inizi degli anni sessanta e Pasolini era segnato a dito come nessun altro. Usciva tutti i giorni un articolo denigratorio su di lui sui giornali, e i giornali scandalistici di allora, soprattutto il settimanale “Lo Specchio”, pubblicavano fotografie di Pasolini davvero indegne e scrivevano cose vergognose di ogni tipo.
Ferranti, che era un conservatore liberale, venne consigliato da alcune persone dell’ambiente del cinema, di cui io non conosco il nome, che dicevano che l’operazione così com’era non poteva reggere a un impatto commerciale, anche se la distribuzione venne trovata presso una società molto importante il cui titolare era un uomo di sinistra ed ex comandante partigiano.

Allora qualcuno gli suggerì l’idea di riprendere quello che veniva fatto su Candido, cioè "visto da destra e visto da sinistra", come le due vignette che apparivano sul giornale di Guareschi. Vennero proposti alcuni nomi ma poi Ferranti decise per Guareschi che avrebbe bilanciato il film a destra.
Naturalmente Pier Paolo al nome di Guareschi insorse in quanto era evidente che c’era anche un problema di livello, cioè non era soltanto un problema politico ma di livello culturale e anche di persona.





Il punto era questo: l’accettazione di Pier Paolo del film non fu per lui un grande trauma, cioè fu una ribellione del momento, come lui faceva, che poi ha razionalizzato e ha capito che senza quella operazione il suo film non sarebbe mai uscito.
Questo è il punto fondamentale. Il suo discorso era: “È importante che io faccia comunque questo film con un testo in prosa e in poesia”, cosa che per quei tempi era molto particolare e che, per la modernità, anche oggi lascia senza parole...
Quindi accettò di buon grado, nel senso che si adeguò all’operazione. Ma non c'era nessun contatto con Guareschi. Noi avevano il compito, in un locale in cui c’era una moviola, di lavorare a questa. Quando Guareschi disse di sì, venne ricavato in una stanza vicina, uno spazio dove venne messa un’altra moviola. Noi lavoravamo da una parte e lui da solo in un'altra stanza. Quindi anche tutte le chiacchiere che sono nate sui contrasti tra i due erano leggende: era un lavoro completamente separato. Questo è sostanzialmente l’inizio della storia.

Carlo Di Carlo

Cento pagine elegiache in prosa e in versi e un tessuto di immagini in movimento, fotografie e riproduzioni di quadri: nel laboratorio del film La rabbia, Pier Paolo Pasolini sperimentò per la prima volta una forma diversa dalla narrazione filmica tradizionale e dalle convenzioni dei documentari. Voleva realizzare, secondo le sue stesse parole, «un nuovo genere cinematografico.
Fare un saggio ideologico e poetico con delle sequenze nuove». La rabbia doveva essere «un atto di indignazione contro l'irrealtà del mondo borghese e la sua conseguente irresponsabilità storica. Per documentare la presenza di un mondo che, al contrario del mondo borghese, possiede
profondamente la realtà. La realtà, ossia un vero amore per la tradizione che solo la rivoluzione può dare».
All'inizio dell'autunno del 1962, quando Pasolini sta lavorando a questo progetto, ha già realizzato due film come regista. In Accattone (1961), aveva condotto il cinema, per la prima volta, nei margini reietti del sottoproletariato romano. In Mamma Roma (1962) aveva raccontato l'impossibile integrazione nell'acquario piccolo-borghese del figlio di una prostituta. Ne La ricotta - realizzato contemporaneamente a La rabbia, ma terminato prima - avrebbe narrato la fame e la morte di un sottoproletario, ucciso da un'indigestione alla tavola dei ricchi (l'industria del cinema degli anni '60).
Con La rabbia, mutò completamente registro.
Il progetto era nato dalla proposta di un piccolo produttore, Gastone Ferranti, che gli affidò il materiale di repertorio appartenente ad un cinegiornale, «Mondo libero», che aveva diretto e prodotto per molti anni. In un'intervista a Maurizio Liverani («Paese sera», 14 aprile 1963), Pasolini dichiara: «Ho visto questo materiale. Una visione tremenda, una serie di cose squallide, una sfilata deprimente del qualunquismo internazionale, il trionfo della reazione più banale. Però in mezzo a tutta questa banalità e squallore, ogni tanto saltavano fuori immagini bellissime: il sorriso di uno sconosciuto, due occhi con una espressione di gioia e di dolore e delle interessanti sequenze piene di significato storico. Un bianco e nero di solito molto affascinante visivamente».
Dal magma audiovisivo di novantamila metri di pellicola, Pasolini ha selezionato una serie di immagini della storia e della cronaca recenti, già codificate, normalizzate dalla banale volgarità dei commentatori, dagli accostamenti del montaggio e dalla corrività delle musiche. Le ha quindi modificate nel sonoro e nel montaggio, trasformandone il respiro e il ritmo. Poi le ha unite ad altre sequenze e fotografie, scegliendole dagli archivi di Italia-URSS, Cecoslovacchia e Inghilterra, da
libri d'arte (le riproduzioni di opere di Ben Shahn, Renato Guttuso, George Grosz, Jean Fautrier,Georges Braque, Pontormo, Jackson Pollock) e da rotocalchi (le fotografie di Marilyn Monroe). È interessante notare che la stessa Deposizione di Pontormo inserita (in bianco e nero) nell'ultima parte del film, è messa in scena da Pasolini, in quegli stessi mesi, in un tableau vivant de La ricotta.
Quel tessuto visivo viene sottomesso ad un testo dove i brani in versi (letti da Giorgio Bassani) si alternano al commento in prosa (letto da Renato Guttuso), in un registro che fonde l'analisi sociale e politica all'invettiva, l'elegia all'epica, nella forma di un diario lirico, dove dominano «le mie ragioni
politiche e il mio sentimento poetico» di quell'epoca.
È il momento di un passaggio cruciale, perché l'Italia sta bruciando rapidamente le tappe di trasformazione da paese agricolo a paese industrializzato, con una violenta, irreversibile trasformazione sociale e culturale di cui Pasolini sarà il testimone più acuto e sofferto.
Il testo lirico e in prosa del poeta-regista denuda quelle immagini dalla spessa crosta di ipocrisia,retorica, banalità e qualunquismo, che talvolta lascia intatte (anche nel sonoro della "voceufficiale"), per meglio circoscriverle e stigmatizzarle con le proprie parole.
Riducendo o eliminando il sonoro di un frammento, isolando la verità di uno sguardo in un anonimo volto popolare, o di un operaio già integratosi nella piccola borghesia, o nella maschera, nel corpo e nei movimenti di un uomo di potere, Pasolini estrae la realtà profonda, perfino fisica, che le
immagini avevano catturato (magari malgrado la volontà degli operatori) e che rimaneva larvato in quel magma.
Alla fine, l'autore de La meglio gioventù poteva effettivamente definirle "sequenze nuove" perché, così modificate, strappate dalla loro identità originaria, investite dalla forza, dalla sincerità disarmata e polemica, dall'emotività del testo scritto, quelle immagini non erano più le stesse di
«Mondo libero». Erano diventate immagini di Pasolini.
Si pensi, per esempio, alle inquadrature o alle fotografie ricorrenti di cadaveri di ragazzi, donne e uomini trucidati nelle strade e abbandonati nel loro sangue e nella polvere, immagini che richiamano le morti randagie spesso evocate dalla poesia pasoliniana.
Quando scrive La rabbia, lo scrittore crede ancora nell'utopia di una rivoluzione degli umili, crede ancora nell'Unione Sovietica di Krusciov. Le parole di Pasolini esaltano le lotte dell'Algeria e di Cuba, e «la nuova estensione del mondo», che ha nome «colore». Rievocano la tragedia delle repressioni sovietiche dell'Ungheria e la strumentalizzazione della parola «libertà» da parte degli anticomunisti, che la pervertivano nell'«odio». Inneggiano alle missioni nello spazio dei cosmonauti sovietici. Contrappongono il pontificato di Giovanni XXIII a quello di Pio XII. Descrivono la tragedia di una vittima della società dello spettacolo, Marilyn Monroe, ed evocano, con toni visionari, l'angoscia di vivere all'ombra dell'incubo nucleare.
Nell'avvento della televisione, Pasolini vede «una nuova arma», «inventata per la (...) diffusione dell'insincerità, della menzogna», ossia «la voce che contrappone un'ironia umiliante a ogni ideale, la voce che contrappone gli scherzi alla Tragedia, la voce che contrappone il buon senso degli assassini agli eccessi degli uomini miti».
Il commento del cinegiornale parla di decine di migliaia di futuri spettatori della Tv. Ma Pasolini lo smentisce: no, saranno milioni, «milioni di candidati alla morte dell'anima».
Nel rito collettivo che coinvolge milioni di cittadini statunitensi durante le elezioni di Eisenhower,Pasolini vede profilarsi i lineamenti della Nuova preistoria: «Quando il mondo classico sarà esaurito – quando saranno morti tutti i contadini e tutti gli artigiani – quando l’industria avrà reso  inarrestabile il ciclo della produzione e del consumo – allora la nostra storia sarà finita». Sono i primi segni di quel fenomeno che poi definirà l'omologazione: «Qui è terribile: più si fugge e meno si è diversi, la fuga è essere sempre più uguali agli altri, sempre più uguali agli altri...»
All'orrore della massificazione, Pasolini oppone la coscienza che «l’unico colore dell'uomo / è nella gioia di affrontare la propria oscurità».
Per La rabbia, Pasolini scrisse un testo suddiviso in ettantasei parti, che corrisponde a una durata decisamente superiore rispetto a quella del film definitivo (53 minuti).
È il testo che pubblichiamo in questo libro, dove il lettore può trovare il commento integrale, ossia con quattordici brani in più rispetto a quelli presenti nel film (corrispondenti alle prime sedici sequenze del testo, con l'eccezione della settima e dell'ottava, Vittoria dei sindacati bianchi alla FIAT e Il Cristo degli abissi, che nel film saranno collocate dopo la sequenza della Regata a Pisa).
Anche il commento delle parti successive, sarà ridotto di alcuni brani per l'edizione definitiva del film.
Il testo originario del commento, nel libro, è preceduto dalle pagine del trattamento che Pasolini pubblicò su «Vie nuove» presumibilmente prima di iniziare il montaggio del film. Sono pagine importanti per comprendere con quali intendimenti avesse intrapreso un'impresa così particolare: come il rifiuto di adattarsi ad un "nuovo ordine" instaurato nel dopoguerra sventolando la bandiera della pacificazione mondiale. Bisogna anche sottolineare, in questa fase della preparazione del film,
l'importanza assegnata dall'autore proprio alle parti che in seguito sarebbero state tagliate. Inoltre, in una breve presentazione del testo del trattamento (che il lettore ritroverà nelle note), Pasolini definisce La rabbia «un’opera giornalistica, (…) più che creativa»: evidentemente fu soltanto in un secondo tempo che ebbe l'idea di alternare una voce in poesia ad una voce in prosa.
Dopo il testo del commento, il lettore troverà tre poesie pubblicate da Pasolini tra l'ottobre del 1961 e il novembre del 1962, Ballata intellettuale per Tit... La navigazione verso Cuba e Marilyn: la prima e l'ultima saranno riprese, rispettivamente, nei brani corrispondenti alle sequenze 65 e 59, con alcune modifiche.
Dopo un accordo con la Opus Film, la società di Ferranti, che nel contratto reca la data del 16 luglio 1962, Pasolini, secondo le sue stesse parole, lavorò «per settimane e mesi; è stato un lavoro massacrante, perché la moviola è un lavoro terribile di per sé». Il 12 ottobre 1962, pubblicò su «Il Paese» alcune anticipazioni del commento in versi. In quei giorni, quindi, stava già lavorando al montaggio de La rabbia, in attesa di iniziare le riprese de La ricotta (che infatti cominciarono a
metà ottobre). Ma, terminato un primo montaggio, «quando il produttore del film ha visto il film ha detto che così non sarebbe riuscito mai a farlo passare».
È in quel momento che, probabilmente, La rabbia di Pasolini fu ridotto, prima ancora che fosse stato effettuato la registrazione del commento sonoro. Caddero, così, i brani sui funerali di De Gasperi, sul ritorno in Italia dei resti dei caduti di Cefalonia, sulle alluvioni, sulla guerra di Corea,
sull'incontro dei Grandi a Ginevra, su Churchill nel giardino, sulla gara di ballo in Germania, sulle donne rasate in Australia, sul festival della filarmonica e sulla televisione.
Con il produttore, «abbiamo studiato diverse soluzioni e d'accordo siamo giunti alla determinazione di far seguire il mio film da un altro blocco affidato ad un altro. In principio pensavo a Montanelli, a Barzini o ad Ansaldo. Invece ad un certo punto è venuto fuori Guareschi. In principio mi rifiutai.
Ero seccato. Poi una serie di considerazioni mi hanno portato a cambiar parere: mi ricordavo il Guareschi del Bertoldo, e da cui è nato in un certo senso il mio antifascismo. Poi ricordavo il
Guareschi che va in campo di concentramento e vi rimane per orgoglio. Poi, il Don Camillo, che è un'opera qualunquista, ma non è pericolosa. Così ho finito per rassegnarmi, dato che ognuno si rivolgeva al suo pubblico. Il mio film era già fatto quando Guareschi è entrato nel giro. I produttori sono d'una rozzezza estrema o d'un candore infinito. Ferranti mi è parso una persona abbastanza civile: egli deve aver capito la diversità dei due film, ma non si rende conto della mostruosità
morale della parte affidata a Guareschi».
Unito alla parte realizzata da Guareschi e accompagnato da un rozzo lancio pubblicitario che presentava i due autori come "avversari politici", La rabbia uscì in poche sale italiane nell'aprile del 1963, distribuito da una major statunitense come la Warner Bros, ma passò inosservato, quindi venne ritirato dalla circolazione. In seguito, Pasolini non ritirò la firma, come aveva annunciato di voler fare, ma ignorò le insistenze del produttore e di Guareschi che avrebbero voluto approntare
una nuova versione del film, e preferì accantonarlo.
Nonostante alcuni testi autorevoli (firmati, per esempio, da Mino Argentieri e Edoardo Bruno), ne avessero immediatamente sottolineato il valore estetico e poetico, nonostante alcuni pregevoli studi (soprattutto francesi) degli anni '90, La rabbia ha continuato a rimanere quasi sempre sottovalutato.
Ora, dopo la pubblicazione del testo (nei Meridiani dedicati al cinema pasoliniano, usciti nel 2001), dopo il restauro realizzato nel 2007 dal Laboratorio L'Immagine Ritrovata della Cineteca di Bologna, La rabbia - nel suo doppio corpo di testo e film - deve essere studiato con una diversa attenzione agli echi e ai contrappunti fra parole e immagini che lo rendono un'opera unica: un testo che evoca, come un diario lirico e polemico, l'epoca delle ultime utopie pasoliniane (prima dell'avvento definitivo dell'omologazione) e un film da affiancare ai "poemi" cinematografici in forma di tombeau realizzati da Chris Marker e Jean-Luc Godard.
Roberto Chiesi 
I materiali assemblati in questo post, sono stati tratti dal sito della Cineteca di Bologna e da altri siti dedicati a Pier Paolo Pasolini.


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Curatore, Bruno Esposito

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