La morte non è nel non potere più comunicare, ma nel non potere più essere compresi… Nel tempo dell'inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario! (Pier Paolo Pasolini)
Presentato alla 63esima Mostra del Cinema di Venezia (sezione orizzonti) nel 2006, questo breve ma intenso documentario di Giuseppe Bertolucci – girato in parte sul set di Salò o le 120 giornate di Sodoma – ci permette di collocare nello spazio e nel tempo l’ultima controversa opera di Pier Paolo Pasolini, chiarendo alcuni aspetti filosofici e tematici che rendono ancora più chiara la provocazione del grande poeta friulano. Alternando le stupende fotografie di scena di Deborah Imogen Beer (tra le 7200 scattate), alcune interviste a Pier Paolo Pasolini (dagli anni Sessanta fino a quella sul set del 1975 concessa al critico di Sight and Sound Gideon Bachmann, marito della Beer) e le riprese stile backstage proprio della scena più violenta del film (quella delle torture nel cortile), Giuseppe Bertolucci riesce a creare un fotoromanzo neorealista che fa trasparire l’amarezza e la disillusione di un uomo che si rende conto di stare perdendo la sua battaglia personale contro il potere e che solo cinque mesi più tardi (l’intervista è databile giugno 1975), verrà ritrovato cadavere all’idroscalo di Ostia. Ecco che le parole di Pasolini, scandite, sicure, quasi scolpite, assumono il valore di testamento da affidare a futura memoria.
Le parole di Pasolini, pur pronunciate con compostezza e placidità, sono insieme terribili e profetiche: terribili perché ci si rende conto dell’impossibilità di una via di uscita e della illusione di ogni speranza (il regista aveva da poco abiurato dalla sua Trilogia della Vita: Il Decameron, Il Fiore delle Mille e una Notte, I racconti di Canterbury). Profetiche perché la spietata analisi di Pasolini sull’anarchia del potere e le sue forme subdole di presentazione non fa altro che anticipare lo scempio attuale della società occidentale: massificata, schiavizzata dal dio denaro, lobotomizzata da falsi simulacri religiosi, globalizzata nel suo edonismo consumistico, chiusa in un individualismo arido e sterile, ossessionata dall’apparire più che dall’essere. Anche il sesso non è una gioia collettiva o un momento di libertà rivoluzionaria, ma diventa, nelle terribili immagini fotografiche che sfilano davanti ai nostri occhi, una forma di potere di una società solo apparentemente libertaria, che concede quello che le conviene, che violenta le coscienze e le costringe a cibarsi di rifiuti escrementizi e veleni. Pasolini esplicita lucidamente questo concetto: “Nel mio film c'è molto sesso, ma questo sesso ha una funzione molto precisa: quella di rappresentare cosa fa il potere del corpo umano: l'annullamento della personalità degli altri, dell'altro. Il sesso è la metafora del rapporto tra potere e coloro che ad esso sono sottoposti. Là dove tutto è proibito si ha la possibilità reale di fare tutto, dove è permesso solo qualcosa si può fare solo quel qualcosa…”
Tutti gli atti sessuali rappresentati (dalla masturbazione alla sodomia) sono prosciugati da ogni connotazione edonistica e rimangono incompiuti e infantili. Vi sono improvvisi scoppi isterici di riso ma non c’è alcuna forma di gioia e di divertimento, solo crudeltà sadica. Più le vittime soffrono, piangono, si lamentano, più i quattro signori infieriscono, raggiungendo il grado desiderato di eccitazione. Terribile dal punto di vista figurativo la foto di questi corpi nudi che a quattro zampe, privati di ogni dignità si affollano sulle scalinate della ville e si umiliano per una razione di cibo. Ci sono momenti molto toccanti in questo documentario: quando Pasolini parla dei giovani con la rabbia di un genitore deluso, con la disperazione di un antropologo che registra la mutazione sociale e culturale, con il rimorso di appartenere a una generazione che forse non è riuscita a trasmettere nulla a quella successiva. Parla dei giovani romani e li rappresenta vittime di un genocidio culturale perpetrato attraverso la televisione, cadaveri di una società piccolo borghese tutta tesa a conformarsi alle direttive della classe dominante. In una foto Pasolini tiene in braccio il figlio di Ninetto Davoli, ma nonostante il sorriso del regista, non può non trasparire nelle sue parole una grande paura del futuro, dell’ambiente socioculturale e delle sue influenze. Quando Pasolini afferma che in realtà la rivoluzione in atto negli anni Settanta non è una vera rivoluzione perché non parte dal basso (ma è concessa dall’alto) si avvicina tantissimo alla concezione marcusiana del potere. Ma il potere stesso è anarchico nel totale ribaltamento di principi etici e spirituali a proprio uso e consumo, nei suoi rituali ripetitivi e anestetizzanti, nella sua codificazione sclerotica di leggi e punizioni. Al rapporto contadino-terra si sostituisce quello produttore-consumatore: io sono in quanto consumo. Io esisto quando compro. Anche il Cristianesimo diventa per Pasolini la religione della classe dominante, con i suoi riti (la Messa) e le Tavole dei Dieci Comandamenti che delimitano e transennano i percorsi dell'agire morale. E le vittime di queste forme di potere? Non c’è alcuna pietà neanche per loro. Il rapporto schiavo-padrone si autoalimenta nel circolo vizioso del sadismo e masochismo. Non vi è una rivolta collettiva: qualcuno riesce a fuggire, la pianista si butta dalla finestra (l’arte porta al suicidio? La cultura non può che autosopprimersi?), un ragazzo che è stato sorpreso con una serva di colore mostra il pugno alzato mentre viene assassinato nell’unico atto di vera contestazione del film. Passando dal linguaggio letterario a quello cinematografico, Pasolini si accorge che l’immagine filmica si fonda sulla memoria e sui sogni, ma nello stesso tempo cerca di aderire il più possibile alla realtà con una ricerca formale che rispetto alle precedenti opere qui viene portata all’eccesso. In Salò risulta evidente l’intento provocatorio di Pasolini, la necessità di suscitare una reazione soprattutto in una classe intellettuale che si autocompiace del proprio livello culturale. Il regista friulano contesta apertamente questa enorme distanza tra cultura d’elite e cultura popolare, questo abisso da sempre presente nella società italiana e che rimane il grande limite per una ulteriore possibilità di progresso.
È terribile pensare come Pasolini avesse già previsto tutto: la tecnicizzazione della società non accompagnata da un parallelo progresso culturale, la stupidità della mercificazione televisiva e l’enorme potere occulto dei mass media, l’involuzione retrograda innescata dal senso di colpa clericale, la censura violenta di ogni forma di pensiero destabilizzante per la società. Il berlusconismo e il post berlusconismo. Rari sono nel cinema gli esempi puramente provocatori e destabilizzanti: forse Bernardo Bertolucci con il suo Ultimo tango e il Marco Ferreri de La grande abbuffata. Dopo Pasolini, solo Ciprì e Maresco cercheranno di portare avanti un discorso da “neorealismo cinico” subendo le stesse azioni giudiziarie (il loro Totò che visse due volte sequestrato e poi dissequestrato) e l’isolamento culturale del sistema di potere. Pasolini è stato l’unico regista a trasformare la sua rabbia e il suo sdegno spostando il limite del visibile e mostrandoci cosa l’uomo sia capace di fare tra una citazione di Kossovsky e una musica di Mozart. Nel 1975 ormai Pasolini è emarginato, ostacolato, alienato, censurato non solo dai nemici storici riconosciuti (la destra, il potere clericale, la Dc che per Pasolini dovrebbe subire una sorta di processo di Norimberga), ma anche dall’ala pseudointellettuale della sinistra che guarda con imbarazzo questo suo figlio degenere. Ma se si rimane soli, si muore. Pasolini paga sul suo corpo martoriato la solitudine del genio e le premonizioni da scomoda Cassandra, la sensibilità di poeta e il dolore di una terribile verità.
La parte conclusiva del documentario ci presenta le foto di un finale alternativo (poi scartato), quello di un gran ballo di tutti i protagonisti (eccetto i quattro signorotti) con i tecnici e lo stesso regista in una sezione del partito comunista. Si vede Pasolini danzare e sorridere, in un momento di serenità alla fine della fatica. È un’immagine che ci consola un poco e che ci fa illudere che forse il grande poeta friulano non aveva perso tutte le speranze, che forse aveva ancora qualcosa in cui credere (“Lei crede?” “Io credo e non credo”). Ma la sensazione complessiva era rappresentata dal titolo della sua ultima intervista rilasciata a Furio Colombo del Corriere della Sera il giorno prima della sua esecuzione sul lungomare di Ostia: “Siamo tutti in pericolo”. Pier Paolo Pasolini ha vissuto sulla sua pelle l'ipocrisia di un mondo che continua a far finta di non vedere, si inebetisce davanti alla televisione e poi parte in quarta per crociate reazionarie. Pier Paolo Pasolini è stato il facile bersaglio, il sodomita scomodo, il filosofo anarchico. Il potere lo ha prima emarginato e poi eliminato perché ne ha avvertito immediatamente il potenziale sovversivo. Con Salò Pasolini aveva posto la parola fine a un certo tipo di cinema, ma anche ad una prospettiva di dialogo con le forme del potere. Ci aveva anche avvertito che ci saremmo trasformati in mostri. Dopo di lui il diluvio. E la meglio gioventù va sotto terra…
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