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Biografia, lavori in corso - a breve anche il 1974 e il 1975

Il Caos

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Tempo, Milano 6 agosto 1968 - anno XXX, numero 32


Dall’agosto del 1968 al gennaio del 1970, Pasolini scrive per il periodico Tempo una rubrica che ha come oggetto tutti temi di attualità: politica, critica cinematografica e letteraria, costume, dialogo con i lettori ecc...

"II Caos è un fronte di piccole battaglie quotidiane"
(Tempo illustrato, 18 ottobre 1969)


Pasolini inizia la rubrica "Il Caos"

Tempo, Milano 6 agosto 1968
anno XXX, numero 32

Pagina 20 e pagina 73  

(Trascrizione curata da Bruno Esposito)



Tempo, Milano 6 agosto 1968 - pag. 20
Perché ho accettato di scrivere per "Tempo" la presente rubrica? 
     É una domanda che faccio a me stesso, più che per rispondere preventivamente a coloro, che con simpatia o con antipatia, me la porranno.
     Ci sono molte ragioni: la prima è il mio bisogno di disobbedire a Budda. Budda insegna il distacco dalle cose (per dirla all'occidentale) e il disimpegno (per continuare con il grigio linguaggio occidentale): due cose che sono nella mia natura. Ma c'è in me, appunto, un irresistibile bisogno di contraddire a questa mia natura.
     Naturalmente, un tale bisogno di contraddirmi, ha bisogno anche di giustificazioni. Queste giustificazioni provvede a dettarmele tutto il mio conformismo, che è molto difficile, del resto, da definire, essendo fenomeno dal carattere maledettamente composito e ambiguo (esso ha forse i suoi punti di contatto più compatibili con un certo conformismo comunista, quale si è presentato nel dopoguerra: una cosa, dunque, quasi lontana come la mia infanzia).

Il perché di questa rubrica

Le giustificazioni, ad ogni modo, che il mio enigmatico conformismo mi detta - a proposito di questo impegno settimanale che mi sono preso - sono molto semplici: invoco a giustificarmi la necessità "civile" di intervenire, nella lotta spicciola e quotidiana, per conclamare quella che secondo me è una forma di verità. Dico subito che non si tratta di una verità affermativa: si tratta piuttosto di un atteggiamento, di un sentimento, di una dinamica, di una prassi, quasi di una gestualità: essa dunque non può non essere piena di errori, e magari anche di qualche stupidità (a questa ammissione sento già il ghigno dei giornalisti divenuti da oggi in poi miei colleghi). So vagamente che la mia opera, letteraria e cinematografica, mi pone, quasi d'ufficio, nell'ordine delle persone pubbliche. Ebbene, ecco: io mi rifiuto, intanto, di comportarmi da persona pubblica. Se una qualche autorità ho ottenuto, malamente, attraverso quella mia opera, sono qui per rimetterla del tutto in discussione: come del resto ho sempre cercato di fare. Si potrà dire che il mio è uno sforzo inutile; che ci sono certi poteri che, una volta raggiunti, bisogna tenerseli; che non c'è possibilità di dimissioni; e che io, dunque, avendo ottenuto un certo, sia pur minimo e discusso, potere di prestigio - attraverso poesie, romanzi, film e volonterosi saggi linguistici e semiologici - appartengo fatalmente a una indifferenziata "Autorità": né più né meno che come chi l'ha cercata di proposito: un burocrate, un uomo politico, un generale dei carabinieri, un professore, un industriale. Un giovane che apra gli occhi oggi alla luce (culturale), non può non vedermi inserito in questa sorta di Autorità paterna che lo sovrasta. Ebbene, io non voglio ammetterlo.
     Ecco perché questa rubrica non avrà - almeno nelle mie intenzioni - nulla di autorevole, e io non avrò nessuno scrupolo nello scriverla: nessun timore, intendo dire, di contraddirmi, o di non proteggermi abbastanza.
     A questo punto credo che sia chiara anche la ragione per cui ho voluto intitolare queste mie pagine settimanali "Il caos", il cui sottotitolo ideale potrebbe essere: "Contro il terrore": l'autorità, infatti, è sempre terrore, anche quando è dolce. Un padre dice dolcemente, cameratescamente a un figlio piccolo: "Non calpestare le aiuole": ebbene, questo comandamento negativo entrerà a far parte di un insieme di comandamenti negativi che regoleranno il comportamento di quel bambino; sicché la buona educazione, essendo in gran parte fondata su una serie di regole negative, è, per sua natura, terroristica: infatti essa, quasi a risarcire i sacrifici dell'obbedienza, diventa immediatamente un diritto, e, in nome di tale diritto, il bambino, ben educato, divenuto grande, eserciterà i suoi ricatti morali.
     Ho preso questo mio esempio dal "Cuore" o dal "Talmud" del mondo borghese: che è, in qualche modo il mondo. Ma ci sono terrorismi alla destra, clerico-fascista, di questo mondo; e terrorismi alla sinistra. E non parlo solo del terrorismo staliniano (la delineazione del "marxista perfetto" di moda tra i gesuiti rossi degli anni cinquanta), ma anche del terrorismo della nuova sinistra (lo snobismo estremistico di certi adepti del Psiup è la cosa peggiore che abbia prodotto la borghesia italiana dopo il fascismo).

Nessun patto o patteggiamento     

     Io non sono un qualunquista, e non amo neanche quella che (ipocritamente) si chiama posizione indipendente. Se sono indipendente, lo sono con rabbia, dolore e umiliazione: non aprioristicamente, con la calma dei forti, ma per forza. E se dunque mi preparo - in questa rubrica, frangia della mia attività di scrittore - a lottare, come posso, e con tutta la mia energia, contro ogni forma di terrore, è, in realtà, perché sono solo. Il mio non è qualunquismo né indipendenza: è solitudine. Ed è questo, del resto, che mi garantisce una certa, magari folle e contraddittoria, oggettività. Non ho alle spalle nessuno che mi appoggi, e con cui io abbia interessi comuni da difendere. Il lettore certamente sa che io sono comunista: ma sa anche che i miei rapporti di compagno di strada col Pci non implicano nessun impegno reciproco (e anzi, sono abbastanza tesi: ho tanti avversari tra i comunisti quanti tra i borghesi ecc.). Se provo delle simpatie politiche (certo radicalismo - ma non tanto quello dell'"Espresso" - da una parte, e certa Nuova Sinistra cattolica, che si va delineando, molto più sotto il segno di Don Milani che di Giovanni XXIII) sono simpatie che non comportano nessun patto o patteggiamento. Resta l'editore di questa rivista che, evidentemente, è un capitalista. Ma, alla buonora, proprio ieri, uno studente marocchino, uno dei capi del movimento "22 Maggio", mi ha detto che bisogna approfittare del tipo di produzione attuale, finché non ce ne sarà un'altra. E noi del resto leggiamo Marx e Lenin perché pubblicati da editori capitalisti borghesi.     
     Personalmente io, dunque, mi comporto con Tofanelli, il direttore di questa rivista (2), e Palazzi, l'editore, come ci si comporta con degli amici: al di fuori del rapporto personale, però, io mi riservo di comportarmi con loro cinicamente.     
     Un lettore che mi abbia seguito fin qui, con un po' d'attenzione, si stupirà di questa espressione, "cinicamente" che non ha nulla a che fare con quanto ho detto finora, soprattutto col sentimento con cui l'ho detto. Io, infatti, non sono cinico, in nessun modo: e il mio voler essere cinico ha addirittura qualcosa di buffo, tanto è sproporzionato e incompatibile con la mia persona.

Una malattia molto contagiosa

     Ma quest'avverbio "cinicamente" si riferisce al mio comportamento pubblico, non personale: è un'affermazione ideologica: io approfitto delle strutture capitalistiche per esprimermi: e lo faccio, perciò, cinicamente (verso le figure pubbliche dei miei "datori di lavoro", non verso la loro identità personale).     
     Un'altra cosa che vorrei dire come prefazione a questa mia serie di interventi, è la seguente: spesso parlerò con violenza contro la borghesia: anzi, sarà questo il tema centrale del mio discorso settimanale. E so benissimo che il lettore resterà "sconcertato" (si dice così?) da questa mia furia: ebbene, la cosa sarà chiara quando avrò specificato che io per borghesia non intendo tanto una classe sociale quanto una vera e propria malattia. Una malattia molto contagiosa: tanto è vero che essa ha contagiato quasi tutti coloro che la combattono: dagli operai settentrionali, agli operai immigrati dal Sud, ai borghesi all'opposizione, ai "soli" (come son io). Il borghese - diciamolo spiritosamente - è un vampiro, che non sta in pace finché non morde sul collo la sua vittima per il puro, semplice e naturale gusto di vederla diventar pallida, triste, brutta, devitalizzata, contorta, corrotta, inquieta, piena di senso di colpa, calcolatrice, aggressiva, terroristica, come lui.

Dov'è l'intellettuale?

     Quanti operai, quanti intellettuali, quanti studenti sono stati morsi, nottetempo, dal vampiro, e, senza saperlo, stanno diventando vampiri anche loro!     
     É giunto dunque il momento in cui non è più sufficiente riconoscere la borghesia come classe sociale, ma come malattia: ormai, riconoscerla come classe sociale è anche ideologicamente e politicamente sbagliato (sia pure se lo si fa attraverso gli strumenti del più puro e intelligente marxismo-leninismo). Infatti, la storia della borghesia - attraverso una civiltà tecnologica, che né Marx né Lenin potevano prevedere - si accinge, ora, in concreto, a coincidere con l'intera storia del mondo. Ciò è male o è bene? Né l'una cosa né l'altra, credo; non voglio pronunciare degli oracoli. É semplicemente un fatto. Tuttavia penso che sia necessario avere la coscienza del male borghese, per intervenire efficacemente su questo fatto, e contribuire a far sì che sia un po' più positivo che negativo.  
     Dalla mia solitudine di cittadino, io dunque cercherò di analizzare questa borghesia come male dovunque essa si trovi: cioè ormai quasi dappertutto (è un modo "vivace" per dire che il "sistema" borghese è in grado di assorbire ogni contraddizione: anzi, crea esso stesso le contraddizioni, come dice Lukács, per sopravvivere, superandosi). Sintomo sicuro della presenza del male borghese è appunto il terrorismo, moralistico e ideologico: anche nelle sue forme ingenue (per es. tra gli studenti).
     Mi caccio con questo, lo so, in un'impresa ingrata e disperata; ma è naturale, è fatale, del resto, che, in una civiltà in cui conta più un gesto, un'accusa, una presa di posizione, che un lavoro letterario di anni, uno scrittore scelga di comportarsi in questo modo. Deve pure cercar di essere presente, almeno pragmaticamente e esistenzialmente, se in linea teorica la sua presenza sembra indimostrabile! In un bellissimo saggio di Rossana Rossanda ("L'anno degli studenti", De Donato editore), mi trovo infatti davanti a una immagine dell'intellettuale che mi mozza il fiato. Descrivendo la differenza che, nell'atto di prender coscienza dell'ingiustizia borghese, divide l'intellettuale classico (cioè l'umanista che ha fatto la Resistenza) dagli studenti, la Rossanda osserva come gli studenti esperimentino nella propria persona e nella propria condizione la miseria della mercificazione e l'alienazione: mentre l'intellettuale no: egli si limita a esserne testimone: in esso, semplicemente, "si tratta del risveglio d'una coscienza alle ragioni di una classe non sua, e ne deriva la collocazione di compagno di strada, con i suoi margini di libertà e i suoi conflitti, la sua irriducibile alterità di testimone esterno".
     Cacciato, come traditore dai centri della borghesia, testimone esterno al mondo operaio: dov'è l'intellettuale, perché e come esiste?
  
Pier Paolo Pasolini
Tempo, Milano 6 agosto 1968
anno XXX, numero 32
Pagina 20 e pagina 73  

Tempo, Milano 6 agosto 1968 - pag. 73



Curatore, Bruno Esposito

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