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lunedì 14 luglio 2025

Un racconto di Pier Paolo Pasolini - O, LA TRAPPOLA - Libertà, 7 giugno 1947, pag. 3

"Le pagine corsare " 

dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro


Un racconto di Pier Paolo Pasolini
O, LA TRAPPOLA

Libertà

7 giugno 1947

pag. 3

( © Questa trascrizione da cartaceo, è stata curata da Bruno Esposito )


Gli O di Mario S. si aprivano in mezzo al suo discorso come profondi buchi. Egli vi precipitava dentro come un pattinatore che scivolando sopra un lago agghiacciato vi si inabissi improvvisamente per poi riapparire, incolume, un poco più avanti.

Infatti Mario, dopo una O, continuava imperterrito il discorso, come se nulla fosse avvenuto; non ne restava nella sua bocca nemmeno la minima macchia, la minima ombra. L’O scompariva nel passato con naturalezza. Dopo pochi minuti l’interlocutore sensibile udiva Mario parlare senza comprendere il senso delle sue parole: non vedeva che una riga di O luminosi, palloni bianchi in un cielo scuro, grassi vermi in carovana. E, per contrasto, i suoi occhi si posavano su quel volto imperturbato, inconscio: gli occhi azzurri ed ingenui, la bocca ben disegnata, le gote rotonde con una lieve peluria... Ma, ai lati, si notavano due ombre di basette «potenziali» e, nei capelli ondulati, un luccicore di brillantina, che, in un certo senso, potevano benissimo essere considerati il messaggio di quegli O, o una specie di variazione musicale.

Ad una prima occhiata il motivo degli O era riconoscibile anche in alcuni particolari dell’abbigliamento (specialmente nel rapporto, che vorrei chiamare liceale, tra il colletto noisette e la sciarpa marrone e rossa. Ma non anticipiamo). Perduto il senso delle sue parole non restava che subire i suoi argomentabili pareri, rispondendo a monosillabi: ma un poco alla volta la irrichiesta pietà verso di lui si mutava in una ingiusta repulsione, in una ironia che egli certo non meritava.

Ma era troppo inconscio, veramente. Talvolta la sua ingenuità diveniva addirittura sfacciataggine. Che diritto aveva di ignorarsi a quel modo? Quegli O di una sfericità obesa che a tutti gli istanti sgusciavano tra gli spiragli delle sue frasi (e, se per caso si facevano un poco aspettare, rotolavano poi a decine bianchi e farinosi come lune, facendo pensare a quale numero incredibile di O sia contenuto nella nostra lingua), lo scoprivano, lo mettevano a nudo, privandolo inesorabili di quel tegumento sconcertante di mistero che ci avvolge fino all’ultimo, sintesi di lontananze modellate dagli anni, di abitudini diverse e segrete.

In Mario non restava più nulla di questo benefico mistero. La sua misteriosità si riduceva, semmai, all’incredibile candore con cui continuava a parlare senza accorgersi di essere nudo. È penoso dirlo: ma la pronuncia dialettale di quell’O, più che evidente retaggio della sua infanzia (e di una gloriosa infanzia, perché egli dai dieci ai quattordici anni dovette esser stato bellissimo!), finiva col suscitare crudeli immagini, appunto di quel periodo indifeso della sua vita, di quella ridicola epoca in cui si è fiduciosamente in balia dei genitori borghesi. Per esempio, una sua O lo dipingeva «nudo, col sederino in alto, sopra il grigio sofà del fotografo». E dico di più: l’O di professione riuscì a indicarmi Mario a quattro anni, piangente, con le mutandine penzoloni.

Ed egli, nell’impossibilità di comprendere sia pur vagamente l’interpretazione che io mi davo di lui e della sua vita – come se ci separasse un secolo di lontananza – continuava a presentarmisi assurdamente normale; e questa sua indiscutibile normalità era il fatto che, insieme alla tacita omertà di tutti gli altri uomini, gli consentiva di tener alta la fronte, unendo una secolare dignità umana alla sua giovanile avventatezza. Però quell’O indicava la senilità impressionante di quella sua gioventù obbligatoria e aprioristica: e io mi ricostruivo a quel modo la sua educazione, la sua millenaria presenza in un mondo borghese e occidentale.

Lo vidi per tutto un evo sui banchi di una scuola tecnica (egli era ragioniere) ingorgato in una particolare interpretazione di quel mondo, per cui, ad esempio, l’atmosfera era sempre chiara nell’aula odorosa di inchiostro e di legno e la professoressa di italiano rappresentava la poesia, tutta la poesia, nel timbro assolutamente scolastico della sua voce (alludendo però continuamente a una sua esistenza privata che le consentiva malumori e ironie). Egli era seduto su un banco, distratto, e pensava a fondo al gioco delle figurine: vi pensava con una fissità sorda e insensata, affatto incomprensibile a chi fosse fuori di lui «ragazzo»: incomprensibile proprio come le particolari pieghe dei suoi calzoni corti e la variopinta cravatta, che, impostagli dai suoi genitori, rappresentava, senza alcuna possibilità di critica da parte di chi la indossava, l’irrepetibilità di un clan familiare.

Un giorno si trovò fuori dalla pubertà. E s’incantava alla presenza di un Mario non più fanciullo, ma uomo, capace di ripetere le meravigliose imprese sessuali che gli erano andate delineandosi durante la sua infanzia con oggettiva naturalezza, e che ora gli divenivano d’improvviso assillanti, appunto perché possibili. Ne conservò un segreto geloso. Poi, quasi dopo pochi giorni, a tutto questo si aggiunse la cravatta elegante (ma ancora goffa), i calzoni lunghi, la sigaretta. Aveva raggiunto il limite. Lì si fermò. O si sviluppò ancora quel tanto che era necessario per approssimarsi all’archetipo; finché la cravatta assunse naturalezza e i calzoni lunghi persero ogni impaccio.

C’era ancora qualcosa che continuava a chiamarlo verso mondi ignoti e irraggiunti...: il sorriso infantile rimasto ai suoi labbri, la carnagione, i capelli ondulati, il passo di calciatore adolescente. Ma invano; egli era ormai decaduto, penetrando sempre più a fondo nell’immagine umana che lo aveva presupposto e che ora lo ingoiava. Senza muovere un dito per difendersi, Mario vi si era inabissato, e questo era continuamente testimoniato, recriminato da quell’O, che come una luna immobile restava fisso tra le inquiete brume del suo discorso. E nel realizzarsi di quel suo destino io sospettavo un’ingiustizia assurda: chi, infatti, gli aveva reso impossibile il superamento del «limite»?

Non potevo incolparne gli uomini. La sua condizione sociale gli aveva permesso infatti di avere davanti agli occhi per molti anni i grandi suggerimenti della cultura. Piuttosto pensavo a quel «qualcosa di schiacciante» che mi assale alla vista di un cucciolo: nella sua festevolezza affettuosa e ingenua son sempre convinto di intravedere mille possibilità: non riesco quasi a sottrarmi alla suggestione di un cane-dottore, di un cane-poeta. Esso è al di qua del limite, vita appena edita, avido di futuro; e si è da poco incamminato per una strada che può condurlo a qualsiasi esito.

Ma poi mi invade una grande amarezza quando penso alla prossima fine di quel cammino, alla fatale caninità a cui quel piccolo essere andrà adeguandosi senza poterla mai sopravanzare di un passo, come una mostruosa malattia diffusa in tutte le sue membra. Lo stampo umano di Mario è qualcosa di simile: e io ne provo moltissima pena. Non posso accusare nessuno: non lui stesso, non la società. È un’ingiustizia divina? Mario ha una convenzionale coscienza di sé: la sua ingenuità di giovane ragioniere lo trattiene al di qua di un limite da cui sarà arginato per tutta la sua esistenza. E nel ripetersi noioso degli O dialettali mi sembra di sentirlo urtare a capofitto contro quella parete metafisica.

Pier Paolo Pasolini


@Eretico e Corsaro - Le Pagine Corsare


Curatore, Bruno Esposito

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