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mercoledì 10 marzo 2021

Pasolini il Decameron - La novella di Andreuccio tra erudizione, critica d’arte e cinema - di ROSSANO DE LAURENTIIS

"Le pagine corsare " 
dedicate a Pier Paolo Pasolini

Eretico e Corsaro





La novella di Andreuccio tra erudizione, critica d’arte e cinema
ROSSANO DE LAURENTIIS
Università degli Studi di Firenze


Introduzione

La novella di Andreuccio è forse la pagina più napoletana che ci resti di quello scrittore che a Napoli visse i suoi anni più lieti, che qui amò, qui coltivò prima gli studi, qui si aprì alle ispirazioni della poesia, e questa città ricordò sempre con la tenerezza con cui si ricordano i luoghi dove trascorse la nostra gioventù e che si estende a tutte le loro parti e circostanze, ai monumenti, ai costumi, alle persone, e perfino, forse, ai bricconi e imbroglioni che in quel tempo e in quei luoghi (dolce nella memoria!) si sono incontrati [Croce 1911, 23-24]. Boccaccio fa finta di polemizzare col suo tempo, ma la sua non è polemica, egli è in piena simbiosi con la società in cui aleggiavano il clericalismo e i residui medievali. In fondo la mia, ora, è un’opera di rimpianto del passato, rimpianto di una società ingiusta ma a suo modo reale: oggi le ingiustizie ci sono ancora, anche se c’è più benessere, ma quel che è più atroce si è perduto un rapporto reale con la realtà [Pasolini 1970].

1. Boccaccio secondo Pasolini

La storia di Andreuccio da Perugia al cinema trova una prima trasposizione nel 1910 con il cortometraggio di poco meno di dieci minuti di Enrico Guazzoni (poi noto come regista di Quo vadis? del 1913) [Bogliari 2013]. Con l’intermezzo della lettura crociana, nel 1912 esce un film muto tratto dal Decamerone, diretto da Gennaro Righelli, che sviluppava solo


tre episodi tra cui quello di Andreuccio [Bettin 2015]. La quinta novella della seconda giornata sarà una delle storie meglio riuscite a Pier Paolo Pasolini nella “trilogia della vita”, dove egli puntò a «esprimere l’esistenza senza decifrarla», senza un impegno ideologico [Pasolini 1975, V], e senza autocensure. Nel suo Decameron il personaggio interpretato da Ninetto Davoli, con il contorno di figuranti degli episodi boccacciani, rappresenta «un’umanità incolta e rozza, che è capace di vivere come passione non perversa, in allegria, ogni istinto basilare, compreso quello della sessualità». «Metto queste storie in rapporto con il rimpianto che provo per la perdita del mondo di una volta» [Pasolini 1999, 1395]. Andreuccio all’inizio del film si trova, tra le «macerie di una casa diroccata» [Pasolini 19702, 1649], nella fiera dei cavalli ricreata nel borgo medievale di Casertavecchia. Questa location, oltre che richiamare l’ambientazione novellistica, ricordava a Pasolini quando pianse «di vere lacrime, vedendo i villaggi delle Madonie (sempre sopralluoghi per il Decameron) sacrilegamente intonacati coi soldi spediti dai giovani emigrati in Germania; e vedendo la distruzione delle mura di Sana’a nello Yemen (cosa che mi ha dato occasione di scrivere […] in favore della monarchia yemenita, che certamente avrebbe lasciato tutto come stava)»; «la modernizzazione è giunta dall’alto» e ha stravolto quel «popolo antico»; «i villaggi delle Madonie e Sana’a sarebbero stati salvi un poco più a lungo in regime fascista» [Pasolini 19702, 1651-1652]. L’ipotesi, non così paradossale, trova fondamento nelle due leggi Bottai, una sul patrimonio artistico l’altra sul paesaggio, approvate nel giugno 1939; a loro volta rielaborazione di due grandi leggi dell’Italia liberale: la legge Rava-Rosadi del 1909 sulla tutela del patrimonio storico e artistico [Balzani 2003] e la legge Croce, primo provvedimento a difesa del paesaggio (1920) nella giovane nazione in fieri «tra scuola e custodia», secondo l’efficace formula dell’archeologo napoletano Giuseppe Fiorelli (1823-1896). 
L’appropriazione stilistica del capolavoro di Boccaccio continua nella gestione degli attori: “di strada”, non professionisti; mentre la star Silvana Mangano fa la comparsa interpretando la Madonna col Bambino nel sogno del Giudizio universale, al posto del canonico Cristo Giudice come nella fonte giottesca della Cappella degli Scrovegni a Padova.

                 

Invece il pittore di scuola giottesca interpretato da Pasolini ci porta all’autobiografia, al rapporto tra l’arte, la vita e il sogno [Boccaccio 1980, 737]: al termine del film il personaggio festeggia con i suoi lavoranti l’impresa pittorica compiuta, poi guardando l’affresco (scil. il proprio film) dirà: «Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?» [Agamben 2014, 15]. Qui – mi pare – che Pasolini voglia alludere, anche ironicamente a suo dire [Pasolini 19702, 1649], agli «ultimi relitti metafisici che sono i principî del capolavoro assoluto e del suo splendido isolamento» [Longhi 2014, 45], secondo una concezione anche crociana [Croce 1913]. Ma Roberto Longhi, il professore di Pasolini a Bologna, riteneva che:
la migliore critica d’arte sia la diretta e riuscita espressione (è in quanto tale anch’essa inevitabilmente ‘letteraria’) dei sentimenti sollecitati da un dipinto […] se l’arte stessa è storicamente condizionata, come non lo sarebbe la critica che la specchia, la specula? […] L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta Sistina, è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’. L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. […] È dunque il senso dell’apertura di rapporto che dà necessità alla risposta critica. Risposta che non involge soltanto il nesso tra opera e opere, ma tra opera e mondo, socialità, economia, religione, politica e quant’altro occorra [Longhi 2014, 44-46].


L’aver ascoltato le lezioni bolognesi di storia della pittura italiana fu un’esperienza formativa che lascerà il segno in gran parte del cinema pasoliniano, con le messe in scena di quadri e sculture come tableaux vivants a impreziosire il suo discorso filmico [Marchesini 1994]. Anche Boccaccio – se è lecito il confronto – si fece illustratore del proprio testo, sperimentando di sua mano il rapporto parola-figura, nel manoscritto autografo (Hamilton 90) conservato alla Staatsbibliothek di Berlino, con 16 miniature raffiguranti i ritratti-bozzetti, quasi «sinopie preparatorie» [Canova 1995, 9] per un trattamento cinematografico, di altrettanti personaggi [Monetti 2014]. E ancora il Pasolini eterno “dilettante” gira in mezzo alla “sua” gente in cerca di ispirazione come il pittore giottesco (metafora del suo fare cinema) che deve affrescare le pareti della chiesa di Santa Chiara. Egli riesce «ad annegare le parole (e con esse, forse, anche il proprio essere scrittore) in un ordito visivo che sembra poter finalmente fare a meno del “verbo” per risolversi pienamente – e senza residui – nella “carne” del cinema» [Canova 1995, 8]. I visi degli interpreti scelti da Pasolini (“guappi, e guaglioni”, il “bibitaro di Mergellina”) «valgono soprattutto come volti inventati e rappresentati con estraniata immediatezza da encausto pompeiano» [Moravia 1971]. I dialoghi sono spezzati ed essenziali, contaminati dall’uso dei dialetti: «Ho scelto Napoli […] perché è una sacca storica: i napoletani hanno deciso di restare quello che erano e, così, di lasciarsi morire: come certe tribù dell’Africa […] che non vogliono avere rapporti con la nuova storia […]. I napoletani non possono fare proprio questo, ma quasi» [Pasolini 19702, 1652; Ghirelli 1976, 15-16]. Ancora il regista in una lettera al produttore Franco Rossellini (primavera ’70) spiega come «portando a termine la lettura del Decameron e maturandolo […] la Napoli popolare continua ad essere il tessuto connettivo del film» [Pasolini 2015, 171]. «La scelta, strettamente ideologica, di trapiantare la capitale linguistica d’Italia, Firenze, nella culla dell’unica lingua italiana conosciuta in tutto il mondo, quella della canzonetta popolare di Napoli, è quasi una scelta “purista”: uno schiaffo al politichese giornalistico televisivo, all’orrido ibrido italiano imposto dalla massificazione»; «Ho scelto Napoli non in polemica contro Firenze, ma contro tutta la stronza Italia neocapitalistica e televisiva» [Pasolini 19702, 1652-1653]. «Io mi servo della lingua viva, mettendo insieme i più disparati dialetti» [Pasolini 1971, 1397]. Un’opzione che è un atto di resistenza da parte del Pasolini “felibrista” impegnato nell’operazione di salvataggio dei dialetti, la lingua materna che «non ha nulla in comune


con quella più o meno connessa col verismo regionale ottocentesco […] esperire squisite variazioni in vernacoli di singole località, sempre sullo sfondo d’un dialetto non identico al friulano “ufficiale”»; operazione che Pasolini ripete per il «romanesco: una parlata elementare e ridotta come quella dei suoi giovani teppisti (che nel dialogo dei due romanzi adoperano esclusivamente il loro gergo)» [Contini 1974, 411, 413; Patti 2015]. Qui è d’uopo pensare ai dialetti considerati, spesso de iure, come “bene culturale immateriale” [Gualdani 2014]. La “pre-comprensione” (Vorverständnis), quella sensazione, quasi subliminale, di affinità con un luogo o con la sua gente, sembra affiorare in un particolare ricordo di Pasolini [19702, 1649]: «Il giorno […] in cui sono andato in macchina solo, a Napoli, per iniziare il lavoro, me ne rendo conto adesso, è stato uno dei più belli e allegri della mia vita». Forse perché egli avvertiva l’impressione di un genius loci [Norberg-Schulz 1979] che lo attendeva, per la «rappresentazione di uno spazio nazionale intessuto di simboli, di immagini, di luoghi comuni culturali» [Balzani 2003], i quali sono consentanei alla sua italianità, che in Pasolini sempre «è “carattere” dominante, nel senso di eredità culturale» [Bellocchio 1999, XXXII]; valga anche per il Decameron come monumento della prosa delle origini. 

2. Boccaccio secondo Croce

Sull’erudizione è d’obbligo ricorrere al Croce conferenziere per la celebre novella boccacciana; è un piacere seguire don Benedetto che dipana le «tre avventure di Andreuccio, sensale di cavalli» accadutegli nella «nostra città […] popolosa» [Croce 1911]. Si tratta di una trascrizione che dà conto puntuale del contesto storico-economico: «gran mercato di quegli animali», fino alla verifica sui documenti che «i cavalli del Regno erano assai rinomati e ricercati dalle più lontane regioni, specie da quando il primo Carlo d’Angiò aveva rivolto molte cure a serbarne e migliorarne le razze» [Croce 1911, 29]; ambientale: «il sensale perugino si sentiva sconosciuto e quasi oggetto di diffidenza in una città e tra gente nuova» [Croce 1911, 8]. Tutto inizia quando la giovane bellissima e la vecchia serva, “ciciliane” entrambe [Ferrara 1950, 320-328], scorgono Andreuccio «in questi trattati stando, avendo esso la sua borsa mostrata» [Boccaccio 1980, 178]. La rete per ingannare Andreuccio viene ordita con una «fanticella» [Boccaccio 1980, 179], una «servetta» per 


Croce, la quale gli presenta l’«imbasciata» di recarsi «in una contrada […] designata da tal nome che sarebbe bastato a metterlo in guardia» [Croce 1911, 22, 24-26]; infatti il motivo usato dall’adescatrice per convincere l’ospite a non fare ritorno in albergo dopo la cena sarà il pericolo che si corre «di notte e specialmente da forestieri» [Croce 1911, 11]. Un pericolo cronico quello della sicurezza notturna a Napoli, che si cercò di combattere col coprifuoco «al suono della campana della sera» [Croce 1911, 30] per mettersi al riparo dalla «turba misera e abbrutita, che il bisogno quotidiano spingeva alla rapina e alla rivolta» [Sabatini 1975, 97]. 
Dopo la caduta e la riemersione di Andreuccio dal «chiassuolo» [Bujoni 1964, 15-16], e le sue grida di protesta per l’inganno subìto, ecco comparire nel «vicolo» [Croce 1911, 32] il «protettore della buona femina», il «bravo» che «mostrava di dovere essere un gran bacalare [Boccaccio 1980, 190-191], con una barba nera e folta al volto» [Croce 1911, 18, 22, 31-32], il quale pone fine con la minaccia «di bastonarlo» alla prima avventura di Andreuccio. Su questo personaggio dello «scarabone Buttafuoco» Croce riesce a fare chiarezza: «si crederebbe un nome artisticamente inventato […] Ebbene no […] si ha notizia di un Francesco Buttafuoco» dai registri del 1336 (periodo napoletano di Boccaccio), morto da poco, il quale era un siciliano esule per fedeltà al re angioino. Qui l’assiduità dello “scarabone” con madonna Fiordaliso riceve una convincente giustificazione storica [Croce 1911, 42]. Come anche si ha traccia di una madonna Flora «sicula» che abitò, nel 1341, proprio al Malpertugio – «il riscontro si fa stupefacente» [Croce 1911, 43-44]. La seconda discesa di Andreuccio [Rossi 1996] avviene con il «collarlo nel pozzo» [Boccaccio 1980, 195] da parte dei due «ladri notturni», conosciuti mentre sono diretti al Duomo «per ispogliare la tomba dell’arcivescovo […] seppellito con preziosi ornamenti e con un anello al dito che valeva oltre cinquecento fiorini d’oro» [Croce 1911], la cifra appena perduta. La terza parte della notte avventurosa vede nuovi ladri che «ebbero l’arca aperta e puntellata» [Boccaccio 1980, 198], tra cui un prete al quale Croce riserva in sede di commento una fine osservazione psicologica: «è più sfacciato degli altri e se la ride dei morti» [Croce 1911, 18]. L’erudizione di Croce si spinge a raccontarci la figura dell’arcivescovo Filippo Minutolo (morto nel 1301), la cui cappella di famiglia (Capece Minutolo) si trova nel Duomo di Napoli [Croce 1911, 52], tra «le ricche tombe marmoree, […] il pavimento di stile cosmatesco» (scil. intarsiato) e «le pitture quattrocentesche (sventuratamente guaste da restauri)» [Croce 1911, 35; Bologna 1969, 219-223]. Sulla veridicità dell’episodio dell’anello sottratto al defunto da Andreuccio, Croce sostiene che la novella potrebbe essere diventata a sua volta sorgente cronachistica: «la fonte di quegli eruditi è il Boccaccio medesimo» [Croce 1911, 39; Sabatini 1975, 96]; non necessariamente bisogna prenderla per vera [Croce 1911, 40], giacché «ai servigi dell’arte» può ben farsi qualche licenza storiografica [Zumbini 1905, 66-67]. Croce ritiene «mere sottigliezze e inezie» i tentativi dei «ricercatori di fonti» [Bartoli 1876, 37-38] di abbinare la novella a racconti orientali e a fabliaux [Bédier 1895, 449], «tanto che io mi risparmio la sterile noia e del riferirle e del confutarle» [Croce 1911, 41]. Non è forse stato Boccaccio tra i primi ad insegnarci che la realtà è così piena di fatti curiosi che non c’è quasi bisogno di inventare nulla. Basta perciò avere la pazienza di spigolare nei documenti del periodo angioino per trovare una lunga casistica di «botteghe, camere e fondachi […] mezzanini» – tra i quali il chiosco di un certo “Nardus exercuit suum minesterium tripparie”» [Baldini-Scanzani 2015] – destinati all’umanità più varia e per le attività più disparate [Croce 1911, 46-47; De Blasiis 1908]. Attività che oggi possono avere nomi più di lusso, come finger food, ma che riportano alla tradizione popolare sentita come un’arte, un artigianato da difendere e valorizzare (pensiamo alla pizza napoletana come patrimonio dell’Unesco).

3. Il paesaggio non è solo natura, ma storia e arte

Finito di rievocare la novella Croce definisce la «logica interna» di essa «perfettissima»; «Boccaccio non ha dimenticato nessun particolare che potesse concorrere alla coerenza dell’insieme» [Croce 1911, 19, 24]; una perfezione che si ritrova nella resa filmica di Pasolini. Croce continua con delle conclusioni sull’arte del Boccaccio che sembrano tagliate apposta per le riprese del film:
A che vale ribellarsi alla realtà, se la realtà è così fatta? […] E poiché quella realtà inferiore e bestiale esiste e persiste, giova guardarla attentamente, indagarla, rappresentarla con cura […]. Donde il suo stile, grave e preciso nel racconto come di chi ha innanzi una materia che è per lui seria e vuol intenderla e farla intendere […], vivo e popolare nei motti e dialoghi che riferisce; e, in quella gravità e in quel miscuglio di togato e di realistico, aleggiato da una sottile ironia [Croce 1911, 20, 24].
Anche Croce, con il pretesto di Boccaccio e sessanta anni prima del film, tende a vedere nella storia d’Italia e dei suoi popoli uno spirito costante, non necessariamente positivo [Croce 1992, 25; Pasolini 1961]: «una siffatta indulgenza e ironia s’introducono col Boccaccio, e vanno prevalendo nella vita italiana»; «si può difendere […] ciò che di buono o di sano è pure in quell’accettazione tranquilla della vita nella sua immutabile realtà; ma tutto ciò non ha che vedere con l’arte del Boccaccio, il quale, come sentiva, così componeva e scriveva» [Croce 1911, 21; Parodi 1913, 156]. L’ultima parte della lectio crociana è per Lo sfondo storico della novella. Si aveva allora, nell’epoca giolittiana, una crescente attenzione per il patrimonio storico-artistico, come già ricordato; alimentata da opportune campagne di stampa da parte di periodici e quotidiani («Il Marzocco», «Emporium», «Il Giornale d’Italia», «Corriere della Sera»). In Toscana nel 1898 era sorta l’Associazione per la difesa di Firenze antica; a una celebre assemblea di questa, del dicembre 1908, partecipò Benedetto Croce come delegato della Società Napoletana di Storia Patria: proprio una sua mozione finì per diventare l’«acme di tutto l’intenso movimento» [Balzani 2003]. Un primo risultato concreto fu la legge del 1909 «Per l’antichità e le belle arti» con la quale si cercò di dare priorità al pubblico interesse rispetto all’arbitrio possibile della proprietà privata (ius utendi et abutendi). Mentre dal 1907 (con la legge 386) era stato creato un primo sistema di Soprintendenze (ripartite per archeologia, monumenti, gallerie e oggetti d’arte). L’articolo 1 del disegno di legge, poi respinto in Senato dove regnava uno «sviscerato affetto al diritto di proprietà» [Settis 2011, 7], parlava di «giardini, foreste, paesaggi, acque, e tutti quei luoghi ed oggetti naturali che abbiano l’interesse sovraccennato» di emergenze da tutelare [Falcone 1914]; l’elenco preciso, quasi una puntuale disamina delle devastazioni romane di alcune ville storiche, venne stilato dal ravennate Luigi Rava, ministro della Pubblica istruzione dal 1906 e firmatario della legge del 1909. 
Lo spunto del toponimo, “Malpertugio”, teatro dell’inganno ai danni del cavallaro, «cozzone di cavalli» [Boccaccio 1980, 177] Andreuccio, offre a Croce l’opportunità di ripercorrere nei secoli l’evoluzione topografica e urbanistica di Napoli, da quella angioina a quella umbertina oggetto delle «demolizioni del Risanamento [che] cangiarono profondamente le sembianze della via o regione di Porto» [Croce 1911, 26, 47; Croce 1894]. 
Chi ha vivo nel ricordo l’antico aspetto di quella parte della città, o l’erudito delle cose napoletane che l’ha famigliare per averlo contemplato più volte in disegni, stampe e pitture, nel visitare ora quei luoghi non può astenersi da un senso penoso, come al vedere un vecchio libro al quale mezze pagine, pagine e gruppi interi di pagine siano stati strappati e sostituiti da rappezzature e da fogli di stampa moderna: senso penoso, che è ricacciato subito indietro dal pensiero dell’utilità e necessità del rinnovamento edilizio compiuto, ed è poi alquanto consolato dal ritrovare qua e là, sulle nuove tabelle marmoree, molti degli antichi nomi, che servono a orientare lo storico e a riempire d’immagini la mente del sentimentale amatore del passato. 
[…] alcuni vicoletti [di Ru(g)a Catalana] che le si aprono ai lati; ma antichi e recanti ancora le tabelle di ardesia del 1792 quelli di “Piazza nuova” e di “Vico freddo”, il quale ultimo in particolare, con l’arco che vi dà accesso, coi suoi balconi ornati di piante, coi cocomeri appesi ai muri esterni delle case, col bucato pendente da cordicelle tese attraverso il vicolo da una casa all’altra, e con le galline che liberamente razzolano sul selciato, è un piccolo pezzo superstite della regione [scil. contrada] di Porto, quale essa era nei tempi antichi e quale forse, a un dipresso, dové vederla Andreuccio [Croce 1911, 26, 34; Boccaccio 1980, 192].
A questo punto Croce si lascia andare al gioco di ripercorrere il cammino di Andreuccio [Cavallini 2002] per «seguire con lui la guida della fanticella di madonna Fiordaliso» in «luoghi, che sono ora sede dei nuovi traffici di Napoli, a consimile ufficio erano già destinati al tempo […] del nuovo tarsianatum o arsenale, e tutt’intorno vi sorgevano “logge” di mercanti forestieri» [Croce 1893, 22-27]. «Ivi presso si trovavano anche gli alberghi, dove smontavano i mercanti […] Per la frequenza dei forestieri, si erano anche formati colà, come suole accadere, luoghi di piaceri e di stravizzi e nidi di gente equivoca» [Croce 1911, 28]. Le fonti poi non sono solo d’archivio, ma anche letterarie come alcune epistole (Famil. V 6; XV 7, 9) di Petrarca, scritte da Napoli a Giovanni Colonna, dove si dice della «immedicabilis aegritudo huius urbis» [Petrarca 1859, 271-272]. 
Tuttavia il Boccaccio flâneur napoletano poté essere meno sprovveduto di Andreuccio, se non più fortunato [Torraca 1914]. Egli girava tra la chiesa dove vide per la prima volta Fiammetta


(narratrice della novella), Porta Nova, Piazza delle Corregge: presso Castelnuovo, dove poté godere degli affreschi di Giotto [De Blasiis 1900, 65-67; Prandi 1956; Longhi 2013, 54; Longhi 2014, 28-29]. In alcune lettere del 1339 si dichiara dimorante a Piedigrotta (Pederotta, dial.): «sub monte Falerni, apud busta Maronis», un domicilio (non necessariamente reale) scelto probabilmente per ossequio alla translatio studii [De Blasiis 1892; Alfano 2012]. Boccaccio fu così anche custode del mos maiorum, a sua insaputa, finché un giorno, a distanza di secoli, si sarebbe invocata una legge «per la tutela e la conservazione delle ville, dei giardini e delle altre proprietà fondiarie che si connettono alla storia o alla letteratura o che importano una ragione di pubblico interesse a causa della loro singolare bellezza» [Settis 2011, 8]. Egli poi trascorreva il tempo «con piccoli e con grandi uomini d’affari, con onesti e con infidi tavolieri, con avventurosa gente di mare e con avventurieri portuali, con solidi borghesi e con estrosi popolani partenopei, con donne masseriziose e con femmine facili e adescatrici» [Branca 1967, 19; Branca 1970, 184]. Per assecondare la sua erudizione da preumanista la corte di re Roberto era l’habitat ideale; fece due visite all’abbazia di Montecassino per visitare la ricca biblioteca, il cui stato di abbandono lo spinse al provvidenziale furto (se consideriamo i pericoli corsi nella sua storia dall’abbazia) di un codice di Marziale [Sabatini 1975, 113-115]. L’episodio ci è noto grazie a Benvenuto da Imola: Boccaccio la «trovò in cima di una lunga scala, senza chiave né porta, invasa dall’erba e sepolta sotto la polvere» [Parodi 1913, 157]. Anche in questo àmbito degli antichi manoscritti, degli incunaboli, delle stampe e delle incisioni rare e di pregio, delle collezioni numismatiche, il primo riconoscimento come oggetti d’arte da tutelare avvenne con la legge n. 185 del 12 giugno 1902, all’art. 32 [Fumagalli 1902]. Boccaccio nel Trattatello in laude di Dante volle narrare la vita del divino Poeta, allo stesso modo nel Centonovelle «si adoperò a raccogliere le più sicure notizie, s’informò da chi poteva fornirgliele, cercò di vagliarle col suo buon senso» [Parodi 1907, 179] per arrivare a dipingere una “umana mimesis”, «qualcosa di intermedio fra la poesia e la prosa […] nascondendo, come fanno i litterati poeti, una profonda verità sotto una bella menzogna!» [Parodi 1907, 181; Bruni 1990]. In maniera simile Luigi Parpagliolo (1862-1953), da Palmi, funzionario ministeriale, svolse una importante riflessione sul concetto di paesaggio, sulla scorta di analoghe formulazioni in Francia a partire dal 1906 [Florio 2015]: ne risultava descritta «una parte di territorio i cui diversi elementi costituiscono un insieme pittoresco od estetico a causa della disposizione delle linee, delle forme e dei colori» [Settis 2011, 10]. Una terminologia che per il Decameron può funzionare in senso demotico e che proficuamente ci riporta agli “aspetti di paesaggio”, anche umano, ossia alla cornice del convegno.

Bibliografia 

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